Viva la muerte!

Con estremo piacere ed interesse, vi propongo l’articolo di Adriano Voltolin, Presidente della Società di Psicoanalisi Critica, che prosegue il dibattito intrapreso qualche giorno fa. Buona lettura!

La psicologia sociale, sostiene Freud, viene prima della psicologia individuale. Non vi sono quindi dei gruppi, il piccolo gruppo come la società intera, che si comportano come gli individui, ma sono piuttosto gli individui a strutturare la loro mente ed il loro modo di comportarsi, gli uni con gli altri, nel modo che apprendono fin dalla primissima infanzia.
Prima di Freud, Marx aveva detto, nella Ideologia tedesca, che le idee dominanti sono quelle della classe dominante; dopo, Lacan ha sostenuto che il soggetto nasce nel campo dell’Altro, Hanna Segal che senza la simbolizzazione ci si trova nel campo della psicosi. Le diverse posizioni non sono affatto identiche e contengono anzi profonde differenze, ma una cosa è unanimemente sostenuta: che la psicologia individuale non è pensabile senza la società e quindi che non vi è una priorità storica, ma solamente logica, tra le due. Coglierne il nesso  è possibile solamente se si è in grado di dipanare un grumo ove il sociale e l’individuale sono avvinghiati come i fili di lana in una matassa: ci riesce benissimo Marx, sempre nell’Ideologia tedesca, quando irride all’idealismo che non distingue la realtà dalla fantasia, mentre lo sa fare benissimo qualsiasi shopkeeper. Per l’idealismo baueriano e per la destra hegeliana, dice Marx, ciò che le persone hanno nella testa coincide con la realtà del mondo, mentre il commerciante fa un fondamento della sua fortuna l’essere capace di capire che tra la fantasia e la realtà ci passa ben più di un mare: Bruno Bauer non sarebbe mai arrivato a pensare, come invece Henry Ford, che si potesse scegliere un’auto del colore che si preferiva purché fosse nero.
Quello che Marx sostiene implicitamente e Freud in modo esplicito, è che la patologia del gruppo sociale, la Gemeinschaftneurose, è cosa totalmente diversa da una patologia che colpisce molti, o, quand’anche, tutti gli individui di un gruppo ed è anche diversa dalla assunzione della patologia del gruppo sociale come la forma ideologica prevalente nel gruppo. E’ chiaro che se tutti i membri di un gruppo sono ammalati di bronchite, non si può dire che il gruppo di cui sono membri è ammalato di bronchite; così come non si può dire che, essendo molti scozzesi tirchi, la Scozia sia tirchia.
La patologia individuale, come dice con chiarezza Freud nel Disagio della civiltà, può mimetizzarsi con quella del gruppo sociale, quando il gruppo stesso sia connotato dallo stesso quadro patologico. La considerazione, statisticamente e concettualmente sostenibile, che di norma la patologia del gruppo sociale sia la medesima espressa da molti appartenenti al gruppo sociale stesso, non fa venire meno quanto si è affermato in precedenza.

La patologia del gruppo appare come un’ideologia diffusa, magari opinabile, ma scompare come patologia quando contrassegna non solo il singolo, ma il gruppo. Un individuo che sostenesse, in un colloquio nello studio di un analista, che la morte è vita e che quindi la morte va esaltata come vitale, andrebbe incontro ad una diagnosi di un importante disturbo mentale; se lo sostiene il gruppo dei falangisti nella guerra civile spagnola (viva la muerte), l’affermazione diviene un pensiero politico; se un prete dice, durante un rito funebre, che il defunto non è morto, ma accede a una vita nuova e vera, esprime un credo religioso.

Certamente nel novecento ed in questo primo quindicennio del ventunesimo secolo, come ha messo in evidenza Aldo Giannuli (Dal jolies temps alla crisi: paranoia e narcisismo nel presente), abbiamo assistito ed assistiamo all’affermazione di ideologie concernenti l’individuo, la società ed il loro rapporto, che si imperniano su assunti che, sul piano individuale, contrassegnano delle psicopatologie non certo lievi. Si pensi ancora agli slogan: se viva la muerte appare una manifestazione della pulsione distruttiva (elaborazione paranoica del lutto, secondo la definizione psicoanalitica che Farnco Fornari aveva dato della guerra), arricchitevi, e il più moderno greed is good rappresentano esemplarmente il trionfo della pulsione orale; ma anche il one best way tayloristico, come l’idea che la civiltà, britannica, fosse presente ovunque venisse servito il thé alle cinque del pomeriggio, denunciano nitidamente un’immagine arrogante di sé che ha alla sua radice un attacco invidioso all’oggetto buono; ancora, il difendere il sacro suolo della patria ha alla sua radice l’angoscia paranoide che trasforma l’aggressione in difesa dell’oggetto buono.

La questione che abbiamo di fronte non è però quella della cancellazione delle spinte pulsionali, l’aggressività, l’oralità, l’eros, ma piuttosto la loro declinazione sopportabile nella società presente.

Wilfred R. Bion aveva avuto un’intuizione geniale quando aveva avanzato l’idea che in un gruppo che lavora razionalmente (gruppo di lavoro) le pulsioni, che sono spinte potenzialmente distruttive dell’operatività del gruppo e, infine, della sua stessa esistenza, sono sempre presenti, ma sono controllate attraverso le modalità del suo funzionamento – si pensi ad esempio al concetto di società in Hanna Arendt ed alla sua diversità radicale da quello di massa in Freud e di folla in Le Bon. Le pulsioni vengono gestite, dice Bion, da gruppi che si specializzano nel trattarle; altrimenti esse si rovescerebbero sull’intero gruppo sociale danneggiandolo irreparabilmente: per Bion l’esercito rappresentava il gruppo specializzato nel gestire la pulsione aggressiva e la Chiesa quello che era destinato a trattare la pulsione di dipendenza. In una società che funziona come una comunità questo è possibile, ma in una dove la pulsione di appropriazione e di depredazione sono ritenute valori positivi, greed is good appunto, il vincolo, la regola sociale cioè, è un lacciuolo che limita gli animal spirits di uno sviluppo capitalistico  senza freni (che del capitalismo classico oramai ha sempre meno e della predazione ingorda e paranoide del bambino che divora il seno sempre di più)  che non solo divora tutto, ma che vede ovunque temute limitazioni alla propria fame, nel senso che a questa pulsione aveva dato mirabilmente il capolavoro di Knut Hamsun.

Nella nostra epoca storica, in occidente, il problema principale non è tanto la difesa dall’aggressione che proviene da ideologie autoritarie, come ci si raffigura ad esempio l’Islam, bensì quello di trovare il modo di contrastare vigorosamente – cioè consentendone la simbolizzazione – la pulsionalità, in primis quella orale, che la finanziarizzazione del capitalismo certamente alimenta ma della quale è soprattutto la radice più originaria. Se si riprendessero in mano il Capitale e, più ancora, i Grundrisse non sarebbe difficile capire che la manifattura, come ogni processo di produzione rappresenti non la base, bensì il maggior ostacolo alla circolazione del capitale, la quale  tanto più è libera e rapida, tanto più produce ricchezza. Ma così il mondo scoppierà di una abbuffata senza fine! Certo, ma allora saremo tutti morti, sosteneva Keynes; allora, se così è, se è la condizione per arrichirsi, viva la muerte.

Adriano Voltolin

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Aldo Giannuli

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Comments (11)

  • Quanti temi chiamati in causa! Concordo sull’osservazione che la psicologia personale e quella sociale sono interdipendenti o, meglio, distinguibili solo per astrazione, non c’è priorità di una sull’altra. Invece non credo che Marx e seguaci siano riusciti a cogliere la natura del nesso; il ” materialismo storico ” sembrava di regola pretendere di fare a meno di ” questioni psicologiche ” o le lasciava implicite, appellandosi a ” dato oggettivi ” della struttura sociale. Quanto a Freud, almeno in alcune asserzioni contenute in ” Psicologia collettiva e analisi dell’io “, mi sembra abbia sostenuto che nei comportamenti di massa si ritrovano gli stessi fenomeni esistenti nell’inconscio personale; di certo hanno proceduto in questo modo molti psicanalisti successivi. In definitiva, temo che nessuno abbia ancora chiarito la natura del rapporto tra psiche ” personale ” e fenomeni collettivi, come il sociologo Norbert Elias auspicava si facesse( a meno che non ci siano riusciti autori successivi, a me ignoti )

  • La persona si fa massa solo riducendosi ad individuo. E’ in questa condizione sub umana che individuo e massa sono in balia delle pulsioni. Esse pertanto sono lungi dallo spiegare e giustificare l’umano, la cui essenza consiste proprio nel dominarle. Più l’umano le domina, più la persona si realizza. L’umano si pone quindi su di un piano diverso e superiore che inizia proprio là dove il sub umano è superato.
    Il ridurre tutto alla collettività, alla economia, alla utilità materialistica e quasi animalesca è negare l’umano: non saprei dire se questo conduca a delle vere e proprie patologie(medicalizzare l’esistenza è un altro aspetto di questa degradazione), ma non me ne stupirei se così fosse.

  • Non credo francamente che il capitalismo si sviluppi in società dove non ci siano regole. In quelle semmai non arriva o si arresta. Mi paiono un po’ idee contrastanti con il dato reale. Non mi pare che la Cina sia la patria, socialmente parlando, degli animal spirits, dove ognuno possa fare individualmente cosa vuole. Eppure mi pare che l’economia di mercato non incontri molti ostacoli se addirittura discutiamo se riconoscere a quel Paese lo “status” di “economia di mercato”. E per intenderci, non credo neanche che la fase di neoliberalismo che viviamo fosse un elemento pianificato e voluto. La Cina ne é un esempio, come lo fu in misura minore il Giappone 30-40 anni fa. Credo che il problema maggiore che pone il capitalismo sia il ruolo della tecnica. La società capitalistica attuale é una società dove la tecnica, la tecnologia, si afferma in maniera pervasiva nella società, divenendo trainante rispetto all’elemento umano di massa, poco istruito specie sotto il profilo tecnologico. Ma lo sviluppo tecnologico ha un guaio: non ha un limite, é fatto per essere sviluppato, non sbaglia e non é sanzionabile. La finanza capitalistica oggi é gestita attraverso la tecnologia quando non creata attraverso e dalla tecnologia. Se ci sono degli errori la colpa é umana, non é certo tecnologica. La società tecnologica deve essere necessariamente una società anomica. La norma é un limite, anche nella cultura liberale classica. Quindi la società tecnologica o ipertecnologica reca con se il superamento del concetto di sanzione, cioé di punizione dell’errore. Ci fa più paura il nemico esterno o il non poter disporre più dei social media o delle social technologies?

    • Alla domanda risponderei così:
      Finchè il nemico rimane “esterno”, e ci sarebbe da discutere su cosa intendere per esterno in tempi di globalizzazione, sono più sensibile e tengo di più a mantenere le parvenze di libertà che mi danno le tecnologie social. Naturalmente, non tengo in alcun conto quello che perdo con tali strumenti, tipo ad esempio una vera socialità basata sui contatti interpersonali diretti, o di quello che subisco come sottoprodotto, tipo il pieno controllo su quasi tutti gli aspetti della mia vita su cui degli estranei possono, volendo, saperne anche più di me.
      Ma se il nemico me lo ritrovo alla porta, quando non addirittura dentro casa (oppure me lo fanno credere), allora il discorso cambia rapidamente, devo darmi da fare per affrontarlo. Anche a costo di perdere parzialmente o anche totalmente qualsiasi residuo di privacy, e finire per vivere in un mondo totalmente orwelliano.
      Insomma, è la percezione di un pericolo che ci fa decidere: più quel pericolo è o ci appare reale, più sale nella graduatoria delle priorità dei problemi da affrontare.

      • Forse mi sono espresso male. Intendevo dire che la cifra della società capitalistica occidentale non é il denaro, quello di stampa e comunque ce n’è in abbondanza, magari mal distribuito, anche in Paesi non capitalisti, come la Cina, o Paesi islamici con ricchezza di materie prime. Mi pare che la cifra del modello occidentale sia lo sviluppo tecnologico. Questo é ciò che connota oggi la società ed i rapporti, quantomeno per la fascia dai 50 in giù. Questo fa davvero la differenza. Per questo, provocatoriamente, dicevo che fa più paura la mancanza di accesso ad internet che non una minaccia esterna. La tecnologia e l’uso delle tecnologie é anomico, cioé non ha una regola ed un limite, non ha sanzioni. Si può fare, si può andare oltre. Siccome questa anomia arriva anche alle persone, quindi maggiormente i giovani, diventa un problema di rapporto tra individui che interagiscono grazie alla scienza. Questo pone un problema a tutte le istituzioni collettive superstiti del novecento che avevano come scopo quello di gestire l’interazione.

        • Io invece volevo sollevare un tema che pensavo sarebbe stato ripreso e sviluppato anche da altri, cosa che invece finora non è avvenuta.
          Il rischio, che è ormai una realtà, e quello di vivere in una società davvero orwelliana, anzi oltre. Un nemico in carne ed ossa, dentro o fuori casa, lo puoi combattere; da un sistema come Echelon, nessuno si può difendere, tutti siamo sotto schiaffo persino nei momenti di maggiore intimità.
          La tecnologia è ormai stabilmente sotto il completo controllo di pochi, che la usano nel loro esclusivo interesse: e se qualcuno si inventa qualcosa, una novità, finisce subito sotto il loro tallone. All’orizzonte vedo una situazione tipo Minority Report, ma molto peggiore di quella immaginata da Philip K. Dick: non saranno due o tre sensitivi a “vedere” crimini prima del loro accadere ma, cosa più agghiacciante, sarà un sofisticato software dedicato che si incaricherà di segnalare le persone considerate pericolose, beninteso secondo i criteri di coloro che avranno in mano le chiavi del supercomputer.
          Altro che Orwell!

          • A Roberto B.
            Io non la penso come te, o meglio non la penso più come te.
            La libertà è soprattutto una conquista interiore: più la si acquisisce e più diventa intangibile.
            Il controllo Orwelliano nel famoso romanzo “1984” si realizzava attraverso un controllo individuale della persona assolutamente irrealizzabile su scala mondiale e il condizionamento della persona così individuata era ottenuta secondo tecniche che attualmente non esistono.
            Sembra ci siano stati dei tentativi sia in America che in Unione Sovietica finiti tragicamente in follia del soggetto sottoposto a tali tecniche.
            E’ per questo che tale controllo si è cercato di attuarlo sulla società, perché si è visto che in questo caso funziona meglio: è assolutamente necessario e funzionale a tale scopo che la persona venga ridotta ad individuo e incastrata in una massa.E’ per questo che io contesto sin dalle fondamenta l’articolo di cui sopra.

  • La possibilità che un gruppo sociale possa autolimitare le pulsioni ed i comportamenti esasperati, è pura utopia.
    Una volta accettato e diffuso un mantra (greed is good, ad esempio), la strada è segnata e può essere solo una: i comportamenti si spingono alle estreme conseguenze, fino a tagliare il ramo sul quale si è seduti.
    Un esempio paradigmatico è la storia degli abitanti dell’Isola di Pasqua, che in una bulimica gara tra le tribù su chi creava il Moai più imponente, finirono per distruggere completamente le loro foreste, cioè l’habitat forte primaria della loro sopravvivenza. Alla fine, i pochi sopravvissuti alla fame ed alle guerre, furono costretti ad abbandonare l’isola.
    Altro esempio: nel secolo scorso si diceva che l’automazione avrebbe liberato l’Uomo dal lavoro manuale e avrebbe reso più ricca la società, dando a tutti la possibilità di avere beni a costi altrimenti riservati solo ai più abbienti.
    E per un certo tempo è stato davvero così.
    Ora però i processi di automazione spinta sono incontrollati ed incontrollabili: siamo già sulla via di industrie manufatturiere quasi interamente automatizzate e si è cominciato ad aggredire anche il settore dei servizi (che ne pensate del taxi senza tassista?).
    Il risultato, ineluttabile, sarà che il lavoro sarà sempre meno e le società cosiddette mature saranno composte sempre più da pochissimi privilegiati e da una massa di sotto-sotto proletari in condizioni poco al di sopra della sopravvivenza.
    Per inciso: la proposta del reddito di cittadinanza del M5S, dovrebbe essere letta sotto questo aspetto e Grillo l’ha spiegato in molteplici occasioni.
    Solo una causa esogena, violenta e distruttrice, come una guerra, una carestia, un nuovo virus micidiale in grado di fare milioni di morti in pochissimo tempo, potrebbe creare le condizioni tali da modificare in modo sostanziale i comportamenti sociali.
    Dobbiamo augurarci un evento simile?
    Estremizzando il concetto, potremmo persino arrivare a vedere in uno come Hitler un benefattore dell’umanità, perchè grazie alla sua follia e megalomania abbiamo potuto godere di un dopoguerra di grande progresso… Finora, almeno.

  • Professore, signor presidente, s’intende che non sono (ancora) stati ‘cavalieri legionari fidanzati della morte’, il che magari da un punto di vista freudiano gli onora. Nel 1920, anno di fondazione del Tercio de Extranjeros, perpetrata da Millán-Astray-quella-fior-di-bestie, Primo de Rivera jr. insieme a Serrano Suñer alias cognatissimo, facevano i bravini cospiratori studanteschi e la Falange era, come dicono beghini e pretacci, nella mente del signore…

  • Non esiste solo la distinzione , pulsionalita (presunta come apportatrice in qualche misura del negativo)e razionalità che in qualche modo pare permettere avere un qualche “controllo”della pulsionalita , pare poter permettere di “gestirla”, nel rapporto individuo struttura sociale è in gioco la prevalenza dell attitudine al dominio , o la prevalenza dell attitudine che ora con parola “alla moda “viene detta empatica.la facoltà di distinguere tra queste 2 disposizioni esseriche sia in senao universale che in una sufficente quantità di tensioni manifestative che riguardano l unità esserica dell individuo, ciò che permette questa distinzione , e che permette anche la percezione dell universale non come un fatto meramente idealistico è l l ambito del sentire, unito alla consapevolezza di quanto esso ambito costituisca l origine di ogni possibile distinzione ontico-ontologica della realtà. Che cosa permette di cogliere l originarieta del sentire rispetto qualunque altra presunta facoltà di conoscere ri-conoscere la realtà? L arrivare a quel punto di non ritorno relativamente all importanza della connessione tra il riconoscimento della trasparenza dell onestà unita all energia finalizzatrice legata al non accontentarsi delle “sempre frammentarie”ed intimamente ingannevoli spiegazioni del linguaggio , o mente discriminante che inaspettatamente prende il “centro”dell essere individuale , ed in automatico fa perdere nella dismisura con cui il linguaggio può “neutralmente”permettere di avere a che fare con l ente, il linguaggio si centralizza a qualunque livello di scolarità o di intellettualismo presunto, e pone la rappresentazione del “non linguistico”come banale elemento di pseudo originaria pulsionalita in sé già presunta come negativa.la mente discriminante allontana in automatico dall empatico e fa entrare nell esigenza precisazionista , l attitudine “scientifica”non può essere che la naturale conseguenza dell invenzione della filosofia, e cioè l instaurasi dell esigenza di conoscere l ente “nella sua totalità, essendosi già dimenticati che l idea di totalità è possibile solo a partire da un sentire la totalità(e qui bisognerebve fermarsi)la mozione di conoscenza è già di per sé eliminazione dell empatia del sentire a favore del sentire inconsavole di sé l esigenza di conoscere -dominare la totalità dell ente , questa è la pulsionalita per eccellenza.e ‘chiaro che tutto ciò non si configura certo come una banale nostalgia del primitivistico…….

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