Il modello dell’università statale è a fine corsa, ma l’università privata sarebbe un rimedio peggiore del male.

Prevedendo le obiezioni di quanti, nel leggere le mie critiche all’università statale, modello che ritengo superato, hanno pensato che volessi fare un elogio dell’università privata, avevo già predisposto questo pezzo. Ripeto: l’alternativa non è fra insegnamento statale ed insegnamento privato. Per fortuna la realtà ha molta più fantasia.

Dico subito che l’università privata sarebbe un rimedio peggiore del male, perché ha molti dei difetti di quella pubblica e ne aggiunge altri di suo.

In primo luogo, l’università privata è concettualmente sbagliata: ogni attività economica prevede costi e benefici, per cui se è vero che i costi non debbano superare i benefici, però è anche vero che è sbagliato attendersi benefici ulteriori rispetto allo scopo principale da perseguire. Il beneficio dell’insegnamento universitario (come della scuola in genere) è l’incorporazione del sapere sociale nel lavoro vivo e la ricerca orientata all’interesse collettivo; dunque, lo scopo e l’utilità sociale e non il profitto dell’imprenditore.

Ma, si obietterà, ci sono studenti le cui famiglie sono in grado di pagare i propri studi, per cui avremmo lo stesso risultato senza far spendere soldi allo Stato. Ma, in questo modo, opereremmo una selezione sulla base del patrimonio o del reddito, non dell’intelligenza o della capacità si studio degli allievi. Escluderemmo sicuramente ottimi talenti e restringeremmo la scelta solo ad un campione sociale e non avremmo alcuna mobilità sociale o comunque solo molto poca. E questo non è nell’interesse della società, soprattutto di una società democratica che, ripeto, per sua natura è meritocratica (sempre che si tratti di vera meritocrazia e non di selezione di classe travestita da meritocrazia).

Ma, direte, come spiegare che le maggiori università del mondo sono private, quindi producono ottimi laureati ed anche profitti. Intanto si tratta di classifiche fatte da americani, sulla base di criteri fissati da loro e  per i quali le prime dieci università sono 9 americane ed 1 inglese, tutte private.  Ma  andrebbe tenuta presente anche l’incomparabile quantità di mezzi a disposizione (denaro, contatti con la stampa e le imprese, ecc.) e la lunga storia alle spalle. Magari una università indiana non ha la stessa storia ma ha un presente più brillante di tante altre. Un docente di Pisa ha dimostrato che, se si valutassero i risultati proporzionalmente ai soldi a disposizione, nella Top ten, 8 sarebbero italiane. Magari anche questo è un metodo un po’ disinvolto e dovremo riparlarne, ma basta a dimostrare come certe classifiche siano abbastanza relative.

Comunque non c’è dubbio che Harvard, il Mit o Cambridge siano ottime università. Solo che diverse di esse non sono affatto in attivo (a cominciare proprio da Cambridge) ed, in genere, non producono profitto (se teniamo da parte la ricerca e consideriamo solo la didattica e le tasse degli studenti). Le tasse sono altissime, ma non mancano generose borse di studio.

Ma allora, perché  un imprenditore decide di investire in una attività che non gli dà profitto? Mecenatismo? Si, in parte, ma se così fosse non potremmo basare la continuità e lo sviluppo del sistema universitario su quello che, comunque, è un flusso di denaro volontario che, come tale, può venir meno in ogni momento. In realtà queste spese si giustificano con la necessità delle classi dominanti di perpetuare la loro egemonia sociale, controllando la formazione del sapere, la mobilità sociale, la formazione ideologica delle future classi dirigenti eccetera.

Una motivazione poco condivisibile da un punto di vista democratico. Dunque, l’esempio americano non dimostra nulla.

In secondo luogo, l’università privata non è affatto indenne da condizionamenti politici esterni, sia per l’intreccio di interessi fra stato ed imprese, sia per gli specifici condizionamenti della politica nei confronti degli atenei. Inoltre la proprietà che sta dietro le università private, non è affatto neutrale ideologicamente e, pertanto, tende ad assumere corpo docente culturalmente ed ideologicamente affine ed ha interessi concretissimi che difende anche tramite l’insegnamento. Per la stessa ragione, la proprietà privata tende a condizionare il corpo docente nel suo insegnamento.

Insomma: pensate che un’università cattolica recluti e tolleri un docente di filosofia  che abbia posizioni eterodosse in materia di bioetica, omosessualità, eutanasia ecc? Un’università promossa da un gruppo di aziende connesse in vario modo alla produzione di energia nucleare, accetterebbe un docente di fisica antinucleare? Un’università promossa da un gruppo di società finanziarie, dedite  al più spericolato capitalismo raider, accetterebbe un docente di economia marxista? Silvio Berlusconi, se avesse una università sua, accoglierebbe un docente di diritto costituzionale che sostenesse certe tesi in materia di conflitti di interesse e di limitazione del possesso di reti televisive? E una università sostenuta da imprese petrolifere che investono nel fracking, cosa direbbe di un docente di geologia che sostenesse i rischi sismici di quella pratica?

Dunque l’università privata garantisce sicuramente molto meno la libertà di insegnamento di quanto, nonostante tutto, non faccia l’università statale. E, infatti, la spunta alla privatizzazione delle università e la centralizzazione dei finanziamenti a riviste ed istituti di economia orientati in senso neo liberista,  ha avuto come conseguenza nefasta la fine del confronto fra scuole di diverso indirizzo e la dittatura del pensiero unico liberista.

Né si può dire che l’università privata porterebbe alla fine del corporativismo e della gerarchizzazione dei docenti, fenomeni con i quali convive benissimo, anzi che sono perfettamente funzionali. Proprio perché, nonostante tutto, una impresa privata tende a massimizzare i profitti ( o almeno contenere e socializzare le perdite), è molto più conveniente strapagare pochi direttori di istituto totalmente fedeli alla proprietà, che controllino una legione di docenti e ricercatori precari e sotto pagati, che avere una distribuzione più equa del monte salari nell’università. Per la stessa ragione, la tendenza naturale sarà quella a ricorrere a forme di didattica meno costose (lezioni on line, prevalenza delle lezioni frontali sui laboratori, limitata pratica del tutorato ecc) rispetto ad altre migliori ma più costose. La didattica di eccellenza sarà riservata alle poche università destinate a formare i livelli alti della dirigenza, mentre nella media dei casi le università private tenderanno a risparmiare offrendo una didattica mediocre se non scadente.

Dunque l’università privata avrebbe (come in effetti ha negli Usa) la funzione di stratificare il sistema riproducendo le gerarchie sociali e geografiche. Altra conseguenza non desiderabile.

Nel caso italiano che è fra quelli che hanno il valore legale del titolo di studio, peraltro, questo avrebbe un’altra conseguenza poco simpatica: la fungaia di diplomifici che per due soldi conferiscono lauree a buon mercato di studi.

Infine, una università orientata al profitto, sceglierebbe anche i corsi da privilegiare sulla base della domanda professionale del momento, trascurando quelle dedicate a profili professionali destinati ad un successo probabile ma lontano nel tempo e difficili da proporre agli studenti.

Dunque: università privata? No grazie. Non ne parliamo nemmeno.

Aldo Giannuli

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Aldo Giannuli

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Comments (8)

  • In realtà l’università italiana, pur rimanendo complessivamente statale, ha già assorbito alcuni dei difetti dell’università privata. A cominciare dal calcolo degli studenti standard, sulla cui base vengono erogati i finanziamenti del MIUR.
    Una serie di vincoli che spingono a produrre laureati in materie scientifiche in tempi brevi, senza alcuna attenzione per la qualità. Chi studia materie umanistiche o chi impiega un po’ più tempo degli altri viene penalizzato, con una logica perfettamente privatistica.

    • il guaio è che ai difetti delle università private somma quelli dell’università di stato e senza i vantaggi nè dell’una nè dell’altra

  • Professore si parla sempre, a riguardo delle università, del sistema anglosassone, ma come funziona in Francia e Germania?
    Spendo due righe per un caso personale abbastanza gustoso. Sono da decenni appassionato di wargame (quello con i soldatini di piombo che mi dipingo a mano, non le stupidaggini su PC, o i rambi che si sparano colpi di plastica nei boschi con imitazioni di armi da guerra) e qualche anno fa mi sono accostato ad un nuovo regolamento inglese sul periodo antico, il mio preferito, di cui avevo sentito un gran bene. Dopo averlo provato alcune volte con un amico, mi accorgo che il sistema di risoluzione degli scontri è statisticamente sballato. Gli autori avevano anche un blog molto frequentato per cui scrivo un commento per segnalare questo problema. Apriti cielo. Fra gli autori uno, che si intuisce abbastanza giovane probabilmente sulla trentina, dichiara di essere un professore di teoria dei giochi e che la mia osservazione non ha alcun fondamento. Io, molto più modestamente, baso le mie scarse conoscenze di statistica su un esame fatto durante il biennio di ingegneria, dove però ho davvero imparato a calcolare le probabilità di eventi composti. Alla fine indovini un po’ chi aveva ragione? La mia esperienza relativa ai professori anglosassoni è molto limitata, lo ammetto, ma mi sembra che ‘se la tirino’ un bel po’

  • A mio parere il punto fondamentale non è tanto stabilire se sia meglio per l’università il secondino pubblico o quello privato, quanto piuttosto come liberare la conoscenza dai condizionamenti del materialismo e degli opportunismi.
    La contrapposizione di sistema pubblico e sistema privato non ha alcun senso se essa non è pensata e organizzata al fine di liberare la conoscenza in favore dell’ideale della verità, non è quindi accettabile il monopolio dell’uno o dell’altro.
    A tale fine non sarebbe secondario , secondo me, un comune sentire il problema della conoscenza come ideale di libertà e di verità. Basta parlare di conoscenza avendo in mente totem come il pil!
    Se avessimo una opinione pubblica orientata in questo senso, norme e organizzazione della istituzione sarebbero conseguenti.

  • Mi pare che qualsiasi discussione in cui ci sia da scegliere tra due possibilità diverse (ed opposte), non possa prescindere dal definire anzitutto gli scopi che ci si propone di raggiungere.
    Quindi, prima di decidere se è meglio una università in mano allo Stato, oppure ai privati, bisognerebbe decidere quali sono gli obiettivi che si vuole ottenere e soltanto dopo quale delle due soluzioni sia la più indicata a garantirli.
    C’è poi un’altro problema; la distinzione tra lauree ad indirizzo umanistico e lauree ad indirizzo tecnico/scientifico.
    Non mi pare che un corso di laurea in Lettere e Filosofia, possa essere messo a confronto con uno in Ingegneria, o Chimica.

  • In conclusione, caro Aldo, mi piacerebbe che tu mi dessi una risposta su due aspetti che avevo sollevato:
    1. In che senso un’università che fosse proprietà di una cooperativa sarebbe pubblica, mentre a me pare del tutto privata, perchè non di tutti, ma di alcuni. La questione correlata è illustrare meglio ciò che almeno io non ho proprio compreso, cosa possa essere una università pubblica ma non statale (regionale, comunale, sono le uniche alternative che capisco).
    2. Ne mio intervento sostenevo che un sistema centralizzato funziona meglio se rispetta alcuni criteri di libertà didattica e scientifica, ed opera seguendo alcuni criteri sufficientemente rigidi. Argomentavo anche, e senza finora avere ricevuto controargomentazioni, che il sistema universitario si avvia decisamente verso il degrado quando a partire da berlinguer insegue un modello anglosassone che prevede una cieca competitività, che naturalmente esclude sin dall’inizio ogni possibile libertà nell’attività didattica e scientifica, essendo dipendente totalemnte da requisiti di efficienza produttiva, incompatibile con la filosofia stessa dell’istituzione universitaria. L’esperienza storica invece mostra che proprio quando si toglie a questo tipo di attività ogni vincolo estwerno, si sono ottenuti i risultati che vediamo. la condizione moderna è figlia di queste libertà, ed adesso mangerebbe sè stessa, il proprio stesso spirito imponendo questa competizione senza senso alcuno.

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