Università: e se parlassimo un po’ di didattica?
A 15 anni dalla riforma Berlinguer dell’Università, è tempo di un bilancio. Scegliamo come termine la riforma Berlinguer (anno 2000) –e non la Ruberti, ad esempio- perché quella che ha maggiormente inciso sugli assetti didattici della nostra università e le cui grandi linee in merito sono rimaste sostanzialmente invariate. I successivi ministri (Moratti, Mussi, Gelmini, Carrozza ecc.) hanno pasticciato qua e là, sostanzialmente sull’assetto di governo e sui concorsi dei docenti, ma hanno lasciato intatto lo schema base del cd 3+2: E cioè un triennio propedeutico seguito da uno di specializzazione, articolati in corsi trimestrali o quadrimestrali per circa 3.000 corsi di laurea e con doppio sistema di valutazione in voto di esami e crediti.
Obiettivi della riforma:
-l’assetto in due livelli avrebbe dovuto ridurre il forte tasso di dispersione, consentendo ala maggioranza degli studenti di conseguire un titolo in qualche modo abilitante, mentre il successivo titolo specialistico avrebbe dovuto garantire una formazione professionale di livello più alto.
-la moltiplicazione dei corsi di laure aveva per obiettivo una maggiore aderenza fra titolo di studio e profilo professionale, facilitando l’immissione del laureato nel mercato del lavoro
-l’introduzione dei crediti era finalizzata ad introitare nella formazione universitaria anche quella proveniente da esperienze lavorative o da altre attività culturali, così da permettere un migliore apprezzamento delle effettive attitudini del neo laureato.
-l’articolazione dei corsi in moduli trimestrali o quadrimestrali (inizialmente si pensava semestrali) avrebbe dovuto favorire la concentrazione dello studente di volta in volta su gruppi di materie, facilitandogli l’effettuazione dell’esame immediatamente dopo la fine del corso ed assicurare uno scorrimento più ordinato delle carriere di studio ed eliminare i ritardi. Quale è stato l’esito di queste misure? Iniziamo dalle cose più semplici da affrontare.
I crediti: non hanno avuto alcun effetto pratico, dato che non risulta che né le aziende né i concorsi statali diano particolare peso a questa voce. Di fatto si è trattato di una ridenominazione delle vecchie annualità, per delimitare il numero di ore di insegnamento del corso. In definitiva, solo un modo per stabilire l’”importanza” della materia, cioè del docente che ne è titolare: un insegnamento di tra crediti incide nella media come uno da nove (per lo meno così è nella maggior parte delle università), ma è sentito come “meno importante” perché esaurito in 20 ore, mentre l’altro lo è in 60.
E questo ha consentito, in molti corsi di laurea e facoltà, la moltiplicazione delle materie di insegnamento, con effetti spesso negativi.
I moduli tri o quadrimestrali: non hanno avuto particolari effetti sul ritardo delle carriere universitarie che, salvo che per la minore durata dei corsi triennali, sono rimasti, più o meno al livello precedente. Di fatto questo ha comportato lezioni “doppie” di due ore da 50 minuti di resa sicuramente minore delle precedenti lezioni di una sola ora da 60 minuti. In definitiva, la misura si è risolta in un vantaggio per i docenti che si liberano dei loro obblighi didattici in circa due mesi e mezzo. Questo, però ha avuto due conseguenze negative: una forte compressione degli insegnamenti, per cui è praticamente impossibile recuperare qualche ora persa per un qualsiasi motivo, ed un ostacolo ad attività interdisciplinari fra materie di diverso trimestre.
La frammentazione delle materie: indagini più approfondite potranno dirci se e quanto questo abbia favorito o sfavorito una migliore formazione specialistica degli studenti, intanto constatiamo come questo indirizzo sempre più specialistico vada a scapito di una loro formazione più generale ed organica, così come non si può non notare che questo ha finito per oberare gli studenti e per chiudere ogni spazio per altre attività (sono praticamente scomparse le vecchie esercitazioni del precedente ordinamento) ed irrigidire ulteriormente lo svolgimento delle attività didattiche entro limiti burocratici invalicabili.
La frammentazione dei corsi di laurea: dopo l’avvio della riforma c’è stato un ripensamento che ha portato alla soppressione di taluni corsi di laurea poco frequentati o di taglio un po’ troppo specialistico , resta tuttavia una marcata tendenza ad una non necessaria moltiplicazione dei corsi, talvolta per profili professionali assai fantasiosi . In realtà non sembra affatto che questa articolazione degli studi abbia facilitato l’inserimento nel mercato del lavoro dei giovani laureati: il numero di quanti trovano lavoro nei tre anni successivi alla laurea non è affatto aumentato, ma, negli ultimi anni è semmai diminuito (probabilmente per effetto della crisi), ma, quel che è più significativo, non si osserva affatto una maggiore tendenza a trovare un lavoro corrispondente al titolo di studio conseguito. E la cosa non stupisce, sia perché le rigidità del nostro mercato del lavoro sono, in buona parte, refrattarie a questo aspetto del problema, sia perché questa scelta si fondava su un errore concettuale di partenza: seguire pedissequamente le tendenze del mercato del lavoro appiattendovi l’offerta formativa.
Ma noi siamo entrati in una fase di rapidissimi mutamenti dei profili lavorativi, mentre l’università statale continua ad avere processi decisionali lunghi e complessi, per cui, fra il progetto di un nuovo corso di laurea e la sua effettiva attivazione, passano mediamente otto-nove anni. E, dunque, la tendenza ad uno specialismo particolarmente “stretto“ risulta del tutto controproducente, mentre sarebbe più producente una solida formazione base su cui innestare perfezionamenti specialistici in prossimità dell’impiego. Una formazione culturale vasta, anche se pur sempre indirizzata professionalmente, infatti, può essere rapidamente convertita con un apposito corso di raffinazione professionale, mentre, al contrario, una formazione già ultra specialistica risulta molto meno elastica e, perciò stesso, meno facilmente convertibile.
Veniamo agli aspetti più centrali della riforma: lo schema del 3+2. Esso nasceva dalla constatazione per la quale troppi studenti abbandonano gli studi prima della conclusione e, quindi, senza conseguire nessun titolo, abbreviano il corso di base e dando un primo titolo, si sarebbe ottenuta una maggiore percentuale di laureati e meno ritardi accademici. In effetti, in un primo momento i laureati ritardatari sono diminuiti e il numero degli studenti che arrivano alla laurea (anche se solo di primo livello) è un po’ aumentato, ma l’Italia resta ultima in Europa per numero di laureati : nella fascia fra i 30 ed i 34 anni (proprio quella che ha frequentato l’Università dopo la riforma Berlinguer, i laureati sono il 22,4% contro una media europea del 36,8%. Stando all’anvur, su 100 immatricolati dell’anno 2003-04 (inizio effettivo della riforma Berlinguer), dopo 9 anni, a laurearsi sono stati intorno alla metà, il resto è in ritardo o ha abbandonato gli sudi. E le coorti successive, anno per hanno segnalano valori decrescenti di laureati e crescenti di ritardo. Gli immatricolati del 2009-10 in regola con il corso di studi, dopo 3 anni, sono solo il 23,2%, e, considerando l’aumento delle tasse universitarie e la linea di tendenza degli ultimi anni, è possibile prevedere che entro 9 anni i laureati di triennale saranno meno del 40% degli immatricolati di quell’anno. Considerato il totale della popolazione lavorativa, la riforma Berlinguer ha prodotto un aumento percentuale dei laureai dal 5,5% al 12,7% ma con un anno in meno di corso di studi e con un divario crescente rispetto al resto d’Europa. E negli ultimi anni si è registrata una tendenza al calo delle immatricolazioni per il quale ci sono circa 60.000 studenti in meno rispetto al 2009-10, nonostante una leggera crescita di studenti stranieri. E conta il fatto che l’università italiana è fra le più care d’Europa, con continui rincari delle tasse che ammontano circa 1.000 euro annui in media.
E il dato diventa catastrofico se parliamo delle lauree specialistiche biennali, dove nella maggior parte dei casi gli immatricolati sono meno del 10% dei laureati della rispettiva triennale e, in diversi casi, si aggirano intorno al 3%. Di fatto, gli studenti in grande maggioranza ritengono la biennale un inutile doppione del corso appena concluso e (salvo che per quegli sbocchi professionali, come l’insegnamento, che richiedono esplicitamente una laurea specialistica) preferiscono piuttosto frequentare un master che si ritiene più in grado di favorire uno sbocco lavorativo.
D’altra parte se già ci sono migliaia di corsi base di triennale è difficile immaginare quale ulteriore specializzazione possa seguire e, in effetti, in molti casi, il piano di studi è una fotocopia appena ridotta o modificata del corso precedente. Preoccupanti sono i dati circa il grado di soddisfazione degli studenti al termine del corso di studi: gli stessi risultati dei questionari di Ateneo (da prendere con grande cautela circa la loro affidabilità) spesso segnalano tassi di soddisfazione inferiori al 60% soprattutto nelle facoltà di lettere e filosofia, di scienze della comunicazione, mentre, fra le facoltà scientifiche, il tasso è mediamente più alto, con risultati meno favorevoli a Scienze Naturali e Geologia. Ma va detto che si tratta solo di dati ricavati da un primo approssimativo studio dei risultati pubblicati on line e che essi andrebbero molto più approfonditi, tuttavia essi già delineano una tendenza a decrescere del tasso di soddisfazione degli studenti.
Per quanto riguarda il tasso di soddisfazione delle aziende non ci sono dati riassuntivi e le indagini delle singole università sono frammentarie ed inaffidabili.
Ma questo è solo l’inizio di un discorso più lungo.
Aldo Giannuli
aldo giannuli, Didattica, efficacia università, formazione, metodo di studio, occupazione, soddisfazione studenti universitari, università
Lettore anonimo
“un insegnamento di tra crediti incide nella media come uno da nove (per lo meno così è nella maggior parte delle università)”
Le assicuro che in alcune università la media dei voti è ponderata rispetto ai crediti.
Una cosa che non riesco a capire, poi, è perché una diminuzione dei laureati sia un dato negativo. Io vedo, intorno a me, laurearsi persone che o non dovrebbero laurearsi o conseguono votazione troppo elevate rispetto a quelle che meriterebbero.
La mia impressione, inoltre, è che il mercato del lavoro italiano non abbia bisogno di tutti questi laureati: spesso le aziende assumono persone con la laurea per impiegarli come dei diplomati e persone con il diploma per impiegarli come dipendenti con la terza media.
Ho una forte paura che il valore del diploma e della laurea si stia inflazionando.
Di conseguenza, perché preoccuparsi se diminuisce il numero dei laureati? Le università non sono aziende e i diplomati non sono automobili.
Preciso che io sono fortemente a favore dell’istruzione pubblica e del valore legale del titolo di studio. Ritengo, inoltre, che la funzione della scuola e dell’università sia proprio quella di ascensore sociale.
Molte persone non si laureano perché sono pigre, nullafacenti e non studiano. Forse è un bene che l’ascensore le lasci a terra.
Aldo Giannuli
Le assicuroi che in molte università la media ponderale non si fa
edo che Lei ha una visione fortememnte selettiva e classista del problema, e va bene, ma visto che spendiamo tutti questi soldi non mi pare che sia un buon risultato avere la media di laureati/abitanti più bassa d0’Europa o giù di lì
Mi senbra del tutto antieconomico, se non altro
Vincenzo Cucinotta
Al lettore anonimo, farei pacatamente osservare che la cosa funziona in senso inverso, non è che i laureati in Italia siano troppi, è al contrario il mercato del lavoro che è così messo male da non avere bisogno di laureati, cioè in Italia non abbiamo bisogno di grandi competenze per svolgere la gran parte dei lavori, e questo non mi pare una buona notizia.
A scalare, questa carenza di richiesta presto si tramuta in declino nelle iscrizioni (chi afrronta spese e fatiche per almeno tre anni per poi finire con lo svolgere un lavoro per cui bastava un titolo di media superiore?), ma tra iscrizione e laurea c’è operante un fattore interno ddella stessa istituzione universitaria.
Se si vuole esprimere una valutazione di efficienza nello sfornare laureati dell’Università, bisogna considerare quasi esclusivamente questo aspetto, il rapporto tra iscritti al primo anno e laureati (dopo i tre anni a rigore, spesso ha senso anche il confronto nello stesso anno).
Come considerazione geenrale, è inutile girarci attorno, il 3 + 2 è frutto direi automatico del processo di falsa integrazione europea. Non è che Berlinguer abbia inventato qualcosa di nuovo, si è limitato ad applicare al nostro paese schemi di organizzazione esistenti già da molto tempo ad esempio nel mondo anglosassone.
Il risultato è stato soltanto di distruggere l’Università esistente di grande qualità e di bassa efficienza che c’aveva sempre caratterizzato. Un laureato italiano delle vecchie lauree quadriennali aveva una preparazione di gran lunga maggiore anche di un master anglosassone, solo in estremo oriente v’erano laureati che potessero competere con quelli italiani. Ma in nome del “ce lo dice l’Europa”, abbiamo dismesso quel sistema, pensando stoltamente che tutta l’università potesse celermente riconvertirsi verso altri modelli (sostanzialmente un superliceo, direi).
Faccio per inciso notare come con questa mania esterofila, abbiamo realizzato delle situazioni paradossali. Citerò ad esempio lo smantellamento delle facoltà a seguito della legge 240 (comunemente nota come legge Gelmini), proprio quando In Gran Bretagna le stavano reintroducendo.
Mi verrebbe da dire “è la globalizzazione, bellezza”, un fenomeno così distruttivo che nessuno a parole apprezza ma che poi finisce col subire supinamente con la motivazione dogmatica che sia impossibile opporvisi.
Anche la motivazione economica che lo stesso Giannuli solleva, sta in questo processo di globalizzazione competitiva, ed io invece la lascerei fuori, non credo che questo criterio di risparmio debba essere quello che comanda (anche se non può certo essere del tutto ignorato).
Tutta colpa allora delle fissazioni filoeuropeiste di berlinguer? Direi di no, in mezzo ci sta l’enorme questione della gestione dell’università, della qualità umana prima ancora che didattico-scintifica della classe docente universitaria italiana.
Tutto è riformabile, tutti gli errori si possono correggere, ma il punto non è strutturale, è soggettivo, del soggetto cioè che dovrebbe riformare, e su questo sono molto pessimista quando guardo alla schifezza di parlamento che ci troviamo davanti, ma anche della schifezza di docenti universitari che abbiamo. Detto francamente, se io fossi a capo del governo, io commissionerei l’università (altro che autogestione, autogestione che somiglia al fare il frocio col culo degli altri, visto che i docenti autogestiscono risorse interamente pubbliche), perchè non ritengo che con simili soggetti si possa migliorare.
Lettore anonimo
“Al lettore anonimo, farei pacatamente osservare che la cosa funziona in senso inverso, non è che i laureati in Italia siano troppi, è al contrario il mercato del lavoro che è così messo male da non avere bisogno di laureati, cioè in Italia non abbiamo bisogno di grandi competenze per svolgere la gran parte dei lavori, e questo non mi pare una buona notizia.”
Io esaminavo la situazione attuale ma sono pienamente d’accordo: l’Italia, secondo me, ha troppe aziende medio-piccole che non innovano abbastanza e fanno poca ricerca.
Purtroppo, in Italia, non abbiamo una Intel (giusto per fare un esempio) e, disgraziatamente, non è un’azienda che nasce dall’oggi al domani.
“Se si vuole esprimere una valutazione di efficienza nello sfornare laureati dell’Università, bisogna considerare quasi esclusivamente questo aspetto, il rapporto tra iscritti al primo anno e laureati (dopo i tre anni a rigore, spesso ha senso anche il confronto nello stesso anno). ”
Non sono d’accordo. Al primo anno si iscrivono molte persone che non hanno capito affatto in cosa consiste il corso di laurea a cui si sono iscritti, così come persone che non si sono ancora rese conto che lo studio a livello universitario non fa per loro.
Spesso queste persone si laureano in università non serie mentre vengono bloccate senza pietà in università serie. Spero nessuno voglia affermare che le università non serie siano più efficienti di quelle serie.
Preciso che sono a favore del valore legale del titolo di studio: per questo l’esistenza di università serie e non serie (un dato di fatto osservabile da chiunque) mi fa infuriare.
Vincenzo Cucinotta
Ma no, lettore anonimo, io, nel dire che l’efficienza va misurata in un certo modo, dico contestualmente che tale efficienza celebrata e ricercata non rappresenta un obiettivo adeguato, ben altri sono i compiti che dovremmo porre al sistema universitario.
Il fatto che lei giustamente dica che la misura del rapporto iscritti/laureati possa portare a risultati paradossali, conferma che perseguire obiettivi di efficienza è semplicemente sbagliato, e quindi non direi che siamo in disaccordo su questo punto.