Una sconfitta meritata.
Che le elezioni di medio termine rappresentino spesso un test sfavorevole ai presidenti in carica è cosa nota e, d’altra parte, Obama aveva vinto con un tale scarto che era presumibile una flessione. Ma questa sconfitta è qualcosa che va ben al di là di un arretramento fisiologico e compare come una versa disfatta politica.
Intanto per le proporzioni del disastro che consegna la maggioranza della Camera ai repubblicani e segna una perdita di milioni di voti dei democratici. In secondo luogo per la direzione di flussi in uscita: Obama perde sia verso destra (con il passaggio ai repubblicani di fasce consistenti di elettorato anche giovane), sia verso sinistra con una massiccia astensione di giovani, neri, ispanici e elettorato povero. Proprio i gruppi che avevano dato ad Obama la spinta per vincere. E dunque è il fallimento, sul nascere, del nuovo blocco sociale democratico dopo trenta anni di incontrastata supremazia di quello repubblicano.
Ovviamente, non è detto che i giochi siano fatti per il 2012 e che Obama sarà inevitabilmente sconfitto dal candidato repubblicano che, peraltro, non sappiamo neppure chi sarà. Se dovesse trattarsi della Palin, questo darebbe qualche chance in più ai democratici, almeno stando ai precedenti che puniscono i candidati troppo polarizzati. Ma forse queste “regole” non esistono più ed i precedenti servono a poco.
Comunque sia, la strada per la rielezione è tutta in salita per Obama ed il calcolo delle probabilità non è a suo favore, anche perchè il 2012 non sarà affatto un anno facile.
Certo, a noi può dispiacere un esito così deludente del primo presidente di colore degli Usa, ma bisogna anche dirci che si era fatto troppo affidamento e si erano appuntate troppe speranze su Obama che, come notò acutamente Cossiga, “sembra di sinistra e nero ma è centrista e caffellatte”.
Tutto il suo esperimento politico ha avuto un segno pesantemente centrista. La riforma sanitaria doveva essere il cemento del nuovo blocco sociale ed il principale strumento di salvataggio del ceto medio, la riforma finanziaria che avrebbe dovuto curare gli eccessi di azzardo che avevano portato alla crisi del 2007-8 che, intanto era “risolta” assorbendo i debiti delle banche messi a conto dello Stato. Ma tutto doveva restare come prima. Anche in politica estera gli smaglianti sorrisi del nuovo aitante presidente avrebbero dovuto far dimenticare l’arcigno unilateralismo di Bush ed avviare una nuova fase idillica di relazioni internazionali. Ma, beninteso, nella riaffermazione della supremazia americana.
Morale: sul piano della politica estera il clima idilliaco del G2 è durato lo spazio di una notte di mezza estate, l’offensiva della simpatia verso il mondo islamico si è fermata al sermone del Cairo che non ha prodotto assolutamente nulla e le relazioni con gli altri non hanno segnato alcun sostanziale miglioramento.
La riforma sanitaria è stata ben più moderata delle aspettative iniziali e, da sola, non era certo sufficiente a sanare i disastri di trenta anni di neo liberismo: quello che è venuto fuori è troppo poco per creare effettivo consenso fra i potenziali beneficiati, ma abbastanza per mandare in bestia quelli che temono qualsiasi aumento della pressione fiscale.
Peggio di tutto, il modo con cui è stata affrontata la crisi finanziaria. La riforma in materia è sostanzialmente aria fritta (esattamente come le decisioni di Basilea 3) non fosse altro per i tempi di attuazione (7-8 anni) durante i quali facciamo in tempo a farne altre tre di crisi come quella passata. Soprattutto la decisione di salvare le banche –e senza nessuna contropartita- è stata alla base del fallimento della manovra. Dopo decenni di liberismo intransigente, che predicava l’assoluta proibizione di qualsivoglia intervento dello Stato in economia, ci è stato spiegato che, invece, lo Stato deve intervenire, quando ad essere nei guai sono i banchieri e deve farlo gratis. Obama ha fatto del “keinesismo per ricchi” che socializza le perdite e privatizza i profitti. Diciamolo schiettamente e senza finzioni: le banche insolventi andavano fatte fallire come si era fatto per la Lehman Brothers e ci si poteva impegnare solo per quelle momentaneamente illiquide ed in grado di restituire il prestito dello Stato. I soldi non andavano impiegati per salvare gli squali della finanza, ma per un risanamento strutturale dell’economia americana, a cominciare dalle situazioni debitorie dei mutuatari. Roubini (uno fra i pochi che avevano previsto il disastro del 2008) aveva suggerito un’altra strategia: ricontrattare i mutui con una riduzione del 15-20% del debito da parte delle banche e con un contributo dello Stato per coprire una parte del debito degli insolventi che sarebbero stati messi di nuovo in grado di far fronte ai loro impegni. Sarebbe costato molto meno allo Stato, sarebbe costato qualcosa alle banche (che però si sarebbero in gran parte salvate grazie a quella boccata d’ossigeno) e, soprattutto avrebbe consentito di sanare la situazione debitoria di milioni di americani dando ossigeno al mercato. C’è chi dice che il fallimento delle banche avrebbe rovinato i risparmiatori e creato forti difficoltà alle aziende, ma allora perchè non impiegare il denaro per risarcire (ovviamente in parte) i risparmiatori e dare credito agevolato alle aziende? Anche qui, l’intervento sarebbe costato meno ed avrebbe avuto effetti un po’ più strutturali.
Si poteva anche pensare a nazionalizzare le banche (come aveva fatto Gordon Brown in Inghilterra), o, almeno, condizionare gli aiuti a precise misure come, ad esempio, la forte riduzione dei compensi ai manager (visti anche i risultati ottenuti…) la sospensione degli eventuali dividendi per almeno tre anni. Invece si è scelta la strada dei regali ai banchieri che ha lasciato l’economia americana così come era.
Il punto è che quello di Obama era solo un grande progetto di conservazione: mantenere il ruolo imperiale degli Usa attraverso le spese militari, conservare il dollaro come moneta di riferimento internazionale, riprodurre la dittatura dell’economia finanziaria sull’economia reale, conservare il potere dei manager in azienda. Le “riforme” sanitaria e finanziaria erano solo la carta argentata per confezionare il pacchetto.
Questo progetto non è andato in porto soprattutto perchè Obama non ha cavato un ragno dal buco sul piano dell’occupazione, ma anche per i sostanziali insuccessi in politica estera ed il persistente senso di insicurezza degli americani per la volatilità del dollaro e di tutti gli indicatori economici. Di fronte a questa insicurezza, le risposte di Obama sono apparse come fumose ed inconcludenti, quel che, per converso, ha reso credibile la solita ricetta repubblicana: abbassare le tasse. E’ ovvio che, nella situazione attuale degli Usa, abbassare le tasse serve come la sauna ad un ammalato di broncopolmonite, ma, almeno è una indicazione concreta e poi questo è sempre un tasto di sicuro effetto.
Da questa crisi non si esce mantenendo in piedi l’attuale architettura di sistema, sia politico che economico e sociale, sia interno che internazionale. E per rimettere in discussione questa gerarchia di rapporti socio-economici e politici è necessario passare attraverso una sconfitta frontale degli Usa e del loro progetto imperiale.
In questa ottica, i conservatori travestiti da progressisti non servono. Meglio guardare dritto negli occhi gli avversari.
Aldo Giannuli, 7 novembre ’10
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Nicola
Egregio,
Le elezioni americane sono una farsa da sempre. A quello di medio termine vanno a votare solitamente il 40% degli aventi diritto.
Lei già conoscerà sicuramente le particolari modalità di registrazione alle liste elettorali. Vengono esclusi tutti coloro i quali hanno avuto anche i più piccoli problemi con la legge, ossia il 20% circa degli americani. I disoccupati vengono spesso tolti dalle liste (dopo 3 volte che non voti vieni cancellato e devi rifare la procedura d’iscrizione).
E negli USA ad oggi ci sono circa 70 milioni di poverissimi, non che prima si stesse meglio, 20 milioni di alcolizzati, 500.000 mila circa consumatori di droghe pesanti, dal crack all’eroina. Questi mica votano.
Chi va a votare? I pochi cittadini che lavorano in aziende medio grandi con un tenore di vita appena sopra la soglia di povertà (che magari fra 10 anni andranno ad ingrossare quei 70 milioni), e i soliti notabili di città (più democratici) e di provincia (più repubblicani). Non vanno a votare sicuramente le ragazze madri (qualche milione), i vecchi nei lager per anziani, dove esalano gli ultimi respiri non avendo più soldi per le spese mediche, i neri dei ghetti e gli ispanici delle campagne (contadini servi in affitto tipo Rosarno), i milioni di white trash che vivono nelle roulottes o nelle case prefabbricate per cui hanno fatto un mutuo ipotecario sul nulla (quando finiranno di pagare il mutuo la casa cadrà a pezzi) etc etc.
L’America è disperazione e basta, nient’altro che l’impero del male. Obama serve solo come specchio per le allodole in questo periodo di crisi. Nel 2014 tornerà a ruggire la bestia affamata e aggressiva che abita la provincia rurale.
Nicola
Egregio,
Ieri nella fretta ho colpevolmente omesso di esprimere il mio totale accordo con le sue tesi.
Sostengo solo che sarebbe finalmente il caso di “sparare” un pò di statistiche sugli States, ma statistiche che fanno male, ad esempio il numero di omicidi annui, circa 20.000, oppure i 200.000 circa morti sul lavoro all’anno oppure, vedere i siti del Bureau of justice statistics e dell’Occupational Safety and Health Act e The World Almanac and books of facts
Un paese dove un bambino su quattro cresce in povertà.
Un caloroso saluto e complimenti
Nicola
correggo 200.000 morti sul lavoro dal 1970 al 1990, 1000 all’anno
Nicola
sarò noioso ma preferisco essere preciso, nei dati precedenti non sono inseriti gli incidenti stradali in cui sono coinvolti lavoratori, ecco alcuni dati recenti, copio e incollo:
Workplace Fatalities Rise Slightly in 2003
The Bureau of Labor Statistics has released its 2003 Census of Fatal occupational injuries which showed a small increase in the number of job fatalities in 2003. 5,559 workers were killed in 2003, compared with 5,534 in 2002. The fatality rate remained unchanged at 4.0 per 100,000 workers.
Although the BLS changed the industry classification codes making direct industrial comparisons difficult, the AFL-CIO estimates that fatalities in construction remained about the same, manufacturing fatalities went down and deaths in mining rose. Homicides rose for the first time in several years.
Fatalities among Hispanic workers declined overall, although fatalities among US born Hispanics rose, while deaths among foreign born Hispanics declined for the first time. Fatalities among African-Americans, Asians and Whites increased. Hispanic workers continued to have the highest on-the-job death rate, at 4.5 fatalities per 100,000 workers.
I linkche seguono sono attivi sul sito Confined The full report can be found here. Other stories here: WORK-RELATED deaths up 18% in Texas ILLINOIS Workplace Deaths Second Lowest On Record Workplace Fatalities Rise Slightly in 2003
davide
parole santissime nicola!Rappresentazione vera di cosa è la Democrazia Americana,quella che tanto democretini di sinistra vogliono imporre ai cattivissimi iraniani,birmani eccetera eccetera!
Ottimo commento,davide
Stefano
Concordo su molte questioni con il prof. Giannuli, in particolare è stato un errore a mio modo di vedere nazionalizzare le banche.
Nicola, dal tuo commento (a proposito, non sei noioso, apprezzo la precisione) si evince che negli US vi sono stati 5.559 morti nel 2003, ora, questo numero, in sé significa poco, andrebbe comparato con i morti sul lavoro in altri paesi. In Italia (che per la verità detiene il triste primato dei decessi sul lavoro) i morti sono stati 1260 nel 2007, su una popolazione di 60 milioni di abitanti, contro circa i 310 milioni degli Stati Uniti, facendo le dovute proporzioni si muore più sul lavoro in Italia che negli USA. Senza tener conto tra l’altro che la percentuale di occupati in US è superiore (e non di poco) rispetto al nostro paese.
Non condivido del resto molte altre cifre che hai dato (70 milioni di poverissimi???). Se qualcuno non desidera votare sono affari suoi, non credo sia da attribuire la colpa al governo federale.
Davide: permettimi di preferire l’esempio americano a Birmania o Iran!
Stefano
ovviamente intendevo dire nazionalizzare I DEBITI delle banche.
L’Italia detiene il primato di decessi sul lavoro IN EUROPA