Una idea della Storia dura a morire
C’è una idea dura a morire – e che riecheggia in molti interventi variamente modulata- per la quale la Storia è una specie di ancella della politica cui spetta essenzialmente un ruolo di fiancheggiamento propagandistico finalizzato a tenere serrate le fila e, possibilmente, a reclutare consensi nel campo altrui.
Naturalmente, non ci è ignoto che la storia ha un ruolo importante nel definire identità collettive, giustificare aspettative, fissare confini ecc., ma questo si colloca ad un livello più alto della propaganda e soprattutto della propaganda spicciola per cui facciamo l’elenco dei rispettivi crimini ed orrori. Per inciso: se la mettiamo sul piano di chi ha fatto più massacri ed affini, nessuno se la passa tanto bene: i nazisti hanno ottime probabilità di arrivare primi, ma cristiani, comunisti, liberali, legittimisti ecc. non è che si collochino tanto più in basso e neppure socialisti ed anarchici (che presumibilmente occuperebbero i gradini bassi della scala) andrebbero del tutto esenti da qualche ricordo sgradevole.
D’altro canto, se pure stabilissimo con sufficiente precisione questa hit parade dell’orrore, a che ci servirebbe? Non è affatto detto che il metro per giudicare un pensiero politico sia quello di quanto sia lunga la scia di sangue che si è lasciata dietro. Questo ostinato confronto sui rispettivi scheletri nell’armadio discende direttamente dall’idea che il fine della storia sia quello di stabilire il giudizio morale. Con relative oziose discussioni sul se, in quel contesto storico fosse più o meno condannabile una certa azione: “dare in pasto alle belve i cristiani era già un’azione esecrabile ai tempi di Diocleziano o lo era meno di quanto non sarebbe oggi dare in pasto agli squali il Trota?”. Sai che tema appassionante!
Poi questo succedaneo della Storia produce a sua volta l’ulteriore succedaneo del celebrativismo e relative liturgie. Uno dei campi di esercitazione preferiti è la toponomastica: ho letto ultimamente della campagna di alcuni cittadini (fra cui stimati intellettuali) di Udine e Genova, che, non avendo null’altro di più utile da fare, reclamano la revoca di strade e piazze dedicate a Cadorna, responsabile dei massacri delle battaglie sull’Isonzo. Ma se è per questo, che facciamo di Oberdan che, ad essere onesti, andrebbe classificato come un terrorista per aver cercato di attentare alla vita del suo sovrano? E Cavour che mandò a morire i bersaglieri in Crimea? Per non parlare di Teodorico che, insomma, non è che scherzasse. E di Diocleziano non c’è bisogno di dire ancora. E dei santi, come San Carlo, che mandavano eretici e streghe al rogo che mi dite?
Facciamo una cosa: le strade chiamiamole “Petunia”, “Mammola”, “Azalea”, “Promontorio, “Ape regina” e così via. Così non sbagliamo.
Siamo seri e lasciamo perdere queste cazzate.
Anche perchè questo riflette una idea abbastanza naif della politica che assegna un ruolo centrale alla propaganda. Convincetevi: la gente crede a quello che vuol credere, per cui potete portare tutte le prove di questo mondo a sostegno di una tesi e scoprirete che a crederci saranno solo quelli che già ci credevano e pochi altri.
In politica la migliore propaganda resta l’azione e la capacità di costruire alleanze e rapporti di forza: indire un referendum, fare uno sciopero, inventare una nuova forma di lotta, far approvare una legge, concludere un accordo vantaggioso, fondare una cooperativa, promuovere una class action ed, al limite, fare le barricate sono tutte cose che, se ben fatte ed al momento opportuno, spostano i consensi molto più di qualsiasi volantino o, peggio ancora, saggio di storia o comizio elettorale. Certo: per promuovere un referendum o far riuscire uno sciopero è necessario un certo supporto propagandistico, questo nessuno lo mette in dubbio; ma la propaganda è solo uno degli ingredienti della minestra e neppure il più importante. E, per di più, l’uso della storia nella propaganda è uno degli espedienti meno efficaci che si possono immaginare: la gente misura con parametri diversi ed il passato è visto sempre con un po’ di diffidenza, soprattutto quando si tratta di qualcosa di precedente al mese scorso.
Certo, è giusto che la storia contribuisca a formare il senso comune di un paese ed il senso di identità collettiva dei vari gruppi che lo compongono, ma questo deve avvenire in forme non così direttamente correlate alla politica come spesso si dice, ma in forme più mediate culturalmente e scientificamente. E, tutto sommato, non è neppure questa la funzione principale della storia in rapporto alla politica.
Ma allora che uso si può fare della storia in sede politica? Lo stesso dell’economia, della sociologia, della politologia, della fisica nucleare o della matematica: contribuire alla analisi necessaria a formare una linea politica. Non si capisce perchè alcuni pensano che economisti, fisici, matematici ecc servono a fare analisi, invece gli storici devono fare gli avvocati dei rispettivi schieramenti politici, quando non i predicatori. Invece gli storici sono scienziati come gli altri e non sono di per sè più condizionati dall’ideologia di qualsiasi altro scienziato.
Per essere più raffinati io direi che ci sono due fasi del lavoro dello storico che vanno distinte.
Una prima fase è quella relativa al reperimento e trattamento delle fonti, alla ricostruzione dei fatti, alla spiegazione delle cause de fenomeno ed alle sue conseguenze. In questa fase lo storico ha il dovere di scordarsi la sue eventuale afferenza ideologica. Anzi, se appartiene ad uno schieramento politico, ha il dovere di essere ancora più scupoloso nella sua avalutatività, proprio perchè diversamente verrebbe meno ai suoi obblighi di lealtà verso il committente, esattamente come un medico che faccia una diagnosi volutamente sbagliata, un avvocato che faccia patrocinio infedele o un consulente finanziario che racconti balle su un certo tipo di investimento. Una analisi sbagliata sarebbe il peggior tradimento perchè indirizzerebbe verso scelte sbagliate.
Poi c’è una seconda fase un po’ più complessa: quella relativa alla formazione ed all’uso delle categorie, alla periodizzazione, alla denominazione dei fenomeni ecc. Dire “rivolta dei boxer” o “Quarta guerra dell’oppio” non è la stessa cosa, anche se si sta parlando dello stesso avvenimento. E talvolta le cose sono anche più scivolose: è giusto definire la Resistenza una guerra civile? Fu solo questo o anche altro?
Se poi uso come categoria privilegiata quella di classe per identificare un attore storico, non è la stessa cosa se dico “sindacato” o partito ecc.
Ovviamente si tratta di scelte che lo storico fa in piena libertà (salvo il rispetto della verità di fatto) ma, anche in questo caso, è sbagliato ridurre queste scelte solo alla conseguenza dell’adesione ad una ideologia politica piuttosto che un’altra (come se, poi, le scelte ideologiche fossero date a priori e non fossero anche la conseguenza del suo lavoro di storico). La questione va posta sul piano della appartenenza ad un particolare paradigma storiografico (o alla formulazione di un nuovo paradigma). Naturalmente, nella scelta di un paradigma piuttosto che un’altro non è indifferente l’autocollocazione politica ed ideologica di uno storico, soprattutto in relazione al suo particolare spettro valoriale. Ma, ancora una volta, la questione non può essere risolta solo in questo modo. Se utilizzo uno schema sociale di tipo dicotomico o uno triadico o, ancora, uno funzionale, questo può avere qualche nesso con le mie scelte politiche, ma non necessariamente ed uno stesso autore può benissimo alternare una cosa all’altra: Marx usa uno schema dicotomico nel “Manifesto” ed in “Lavoro Salariato e Capitale”, ma uno triadico nel “18 brumaio” o nelle parti del Capitale in cui oppone la rendita al profitto e entrambe al lavoro salariato. La scelta è causata più dalle necessità di svolgere un particolare filo esplicativo che non da esigenze di tipo politico.
Elaborare una categoria interpretativa spesso non è conseguenza di un giudizio politico, ma, al contrario, premessa di esso. Per quanto mi riguarda ho spesso usato nei miei lavori sulla strategia della tensione la categoria di “doppio Stato”, ma questo non dipende dal mio giudizio politico sulla democrazia italiana. Al contrario, il mio giudizio politico sul modo di essere della democrazia nel nostro paese dipende dal fatto che io ritengo di leggere gli avvenimenti attraverso quella categoria interpretativa.
Allo stesso modo, scegliere una data come periodizzante di un’epoca piuttosto che un’altra è operazione complessa nella quale confluiscono molti elementi di giudizio diversi fra loro e, talvolta, nessuno di carattere politico.
Ma, a ben vedere, questi discorsi si fanno particolarmente accesi in riferimento alla storia contemporanea (in particolare a quella successiva alla I guerra mondiale) dove è più facile cedere alla tentazione di confondere il lavoro dello storico con quello dell’attivista di partito (pessima cosa!). Ma la storia è molto, molto più lunga del Novecento. Uno dei disastri, che conseguono a questa impostazione ancillare della storia rispetto alla politica, è che tutto quello che precede il Novecento è ritenuto solo una noia mortale, di cui non sappiamo che farcene, una specie di lungo preambolo cinematografico in attesa che arrivino le “scene di sesso”. E il guaio è che anche molti colleghi contemporaneisti hanno questo tipo di atteggiamento.
Sarebbe bene che tornassimo (noi storici prima di tutti) a ricordarci che la storia non è solo quella più recente, ma spesso ha la spiegazione dei suoi nessi causali molto indietro nel tempo; la storia ha le ombre lunghe come al tramonto.
Se voglio scrivere non più storia europea ma storia mondiale, ho bisogno di ripensare completamente la categoria della modernità e questo non mi è possibile senza scavare molti secoli indietro.
Se voglio confrontarmi con uno storico cinese per capire le caratteristiche della storia e della storiografia cinese e compararle con quella europea, non posso limitarmi al Novecento o, al più, all’Ottocento e se voglio capirmi con uno storico di un paese islamico la categoria di antifascismo non mi serve a nulla.
Che ne dite di riconsiderare tutta la materia con un’ottica più ampia della solita, noiosa guerricciola in famiglia che ci facciamo da sempre su fascismo, antifascismo, Shoa, II guerra mondiale ecc?
Aldo Giannuli
accademia, eurocentrismo, giudizio morale, idea di storia, storia, storia contemporanea, storia mondiale

Nicola Volpe
Siamo seri e lasciamo perdere queste cazzate: hai ragione, Aldo. Su questo tema, molto controverso, penso che dovremo tornarci più volte. Infatti, se è vero che la storia non può svolgere un ruolo ancillare rispetto alla politica, è anche vero che un nesso molto forte tra storiografia e politica c’è. In linea di massima, mi riconosco nel discorso di Aldo, il quale, mi è parso di capire, ha svolto un ragionamento tutt’altro che metodologico: pensare storicamente la politica, significa anche capire in quale contesto ci si sta muovendo e con quali interlocutori ci stiamo relazionando. Molto interessante, davvero. Leggerò con attenzione gli altri intervendi, che, immagino, saranno numerosi.
Luca de Fusco
Sono perfettamente d’accordo anche perchè, vivendo da decenni tra Africa Orientale e Medio Oriente, mi trovo frequentemente in attrito con interpretazioni storiche “eurocentriche”. Se riuscissimo ad allungare il diametro di almeno 5000 km, per cominciare, sarebbe encomiabile. Mi prenoto subito, quindi, per il suo prossimo libro sull’argomento.
Mario Vitale
Anche io sono in perfetta sintonia con questo articolo. Mi permetto di suggerire un aspetto in cui lo storico potrebbe aiutare la politica: cercare d’impedire la reiterazione degli errori commessi in passato. Temo, però, che la razza umana sia geneticamente programmata a perseverare tragicamente i comportamenti scorretti.
Rosario
Vorrei dire che la storia è anche il collante e la memoria storica di una nazione, fornisce l’identità della società attraverso i suoi passati eventi e lo scorrere delle generazioni e serve alla politica per comprendere i motivi di situazioni economiche attuali o di relazioni tra nazioni amichevoli o meno, certo è anche propaganda, ma in questo caso non sempre la politica si fa aiutare dalla storia, preferendo in tanti casi “dimenticare” o far dimenticare la storia (vedi antifascismo, unità d’Italia, situazione economica).
Tao
Ottimo proposito. Ampliare il raggio della visione storica ci consente di osservare gli equilibri geopolitici con uno sguardo più fondato, più geo-logico. Uscire dall’eurocentrismo non solo per abbandonarlo ma piuttosto per verificare le concezioni a cui porta. Occorre cercare di comprendere sia i nessi che i riflessi da e verso quei popoli che secondo una concezione piuttosto volgare della storiografia eurocentrica vengono fatti apparire come comprimari o, quando sono fortunati, come attori non-protagonisti. La storia non è un palcoscenico che sostanzia qualche copione della propaganda. La storia è, sopratutto, implicazione, combinazione, ridefinizone.
giandavide
eccellente articolo, perfettamente condivisibile nelle conclusioni. hai fatto bene a sottolineare che non esiste una perefetta corrispondenza tra lo schema valoriale di un’individuo (che in questo caso fa lo storico) e una stratificazione di valori che sono o pretendono di essere collettivi (che in questo caso diventano di partito). però non si elude la questione collocando il momento della adesione politica in un tempo successivo all’analisi . lo storico non è una tabula rasa che si riempie di idee politiche dopo l’analisi, non è uno che non si è mai fatto un’opinione. d’altra hai descritto bene come questa opinione debba trapelare, come traccia per il lettore attento che vuole reperire in un altro livello di lettura qualcosa su chi scrive, e non come una serie di paletti che debbano indirizzare il lettore da una parte o dall’altra. d’altra parte, come diceva voltaire, se non sbaglio, in un buon libro l’autore deve produrre solo la metà dei contenuti e deve fare fare il resto al lettore, in modo che quest’ultimo, facendo lavorare il suo cervello, possa godere di un effettivo aumento di conoscenza. e in questo caso il libro di storia, rendendo manifeste le sue categorie interpretative, fa si che il lettore possa separarle dall’analisi del fatto storico, in modo che anche il fruitore possa liberamente orientarsi. e che possa dire anche lui: “il mio giudizio politico […] dipende dal fatto che io ritengo di leggere gli avvenimenti attraverso quella categoria interpretativa”. è così che si può comunicare con tutti, non certo fingendo di bandire le interpretazioni dal testo storico