La situazione storico-spirituale del parlamentarismo odierno.
Molto volentieri vi propongo questo articolo di Lucio Mamone, amico e giovane promettente studioso. Buona lettura! A.G.
Il DDL Cirinnà è stato finalmente approvato ed è ora possibile sviluppare una prima valutazione complessiva della vicenda, constatando che non si è persa occasione di spingere la Repubblica un passo più avanti verso il suo declino politico, culturale ed istituzionale. La vicenda ha pertanto acquisito una una rilevanza che va al di là dei suoi aspetti più contingenti e merita particolare considerazione, nonché un inquadramento che parte da lontano.
Nel 1923 Carl Schmitt pubblicava un breve saggio dal titolo piuttosto ambizioso: «La situazione storico-spirituale del parlamentarismo odierno». La tesi di fondo dell’opera constatava una generale perdita di consapevolezza dell’essenziale significato dell’istituzione parlamentare, ossia l’essere la sede di un’autentica discussione volta alla determinazione della volontà generale, e metteva pertanto in risalto come le modalità di funzionamento di essa venissero valutate sempre più in base a criteri, quali la mera utilità, estrinseci alla sua natura. Il corso storico e lo sviluppo del pensiero ha invece favorito l’affermarsi di una visione decisamente più edificante, quando non trionfalistica, dell’evoluzione degli ordinamenti giuridici occidentali, la quale interpretava il fenomeno per negazioni assolute e distingueva esclusivamente tra nemici esterni e promotori. In questo articolo cercherò invece di mostrare quanto l’intuizione schmittiana, contrariamente alla sua fortuna, avesse colto una tendenza effettivamente in atto e come anche il comportamento di politica e società civile italiane in occasione della discussione sulle unioni civili possa essere spiegato partendo da quella diagnosi.
L’apporto rovinoso dell’impegno parlamentare attorno alla Cirinnà non è da ricercare nel contenuto del disegno di legge, che personalmente giudico anzi troppo povero, quanto nel grado di bassezza e ipocrisia con cui è stato condotto il dibattito politico da parte dell’intero arco parlamentare. Nessuno escluso: se gli oppositori alla legge si sono distinti principalmente per il fondamentalismo delle loro posizioni sul tema, non certo maggior sfoggio di virtù è provenuto dai propugnatori, che hanno spesso condiviso con i primi la spregiudicatezza del calcolo politico e li hanno infine superati nell’ostentazione del disprezzo verso i principi della discussione parlamentare.
Della finezza intellettuale dei vari Giovanardi ed Adinolfi si era già fatta lunga esperienza, ha invece quasi del sorprendente il “candore” con cui anche quelle forze politiche ed elettori che sventolano con più frequenza le bandiere della legalità e della democrazia hanno invitato a mettere da parte la questione sulla correttezza dei mezzi e a concentrarsi unicamente sull’approvazione della legge.
In particolare, si sono lette un po’ ovunque reazioni di sdegno verso la scelta del Movimento 5 Stelle di votare contro il cosiddetto super-canguro. Buona parte dell’opinione pubblica e dei mezzi d’informazione ha cioè sposato la tesi per cui, visto che era in ballo una “legge di civiltà” ed inoltre gli avversari giocavano sporco con gli emendamenti, perdersi in questioni di principio, quali la democraticità o la costituzionalità del canguro (sic!), era segno di immaturità politica o, peggio ancora, di un vero e proprio tradimento. Piano di metodo e di merito si sono confusi a tal punto che il semplice rifiuto del super-canguro da parte 5 Stelle, i quali però confermavano il loro pieno sostegno alla legge, è stato interpretato, più o meno in malafede, come un’opposizione tout court alle unioni civili.
Il rischio maggiore che la discussione pubblica sul DDL Cirinnà porta con sé è che essa possa aver contribuito a creare una coscienza condivisa dell’inopportunità dei principi del parlamentarismo. Strumenti come il super-canguro, il canguro, la ghigliottina non sono certo nuovi alla scena politica italiana. Ciò che è invece nuovo è il fatto che, mentre fino ad ora questi strumenti venivano utilizzati con un certo pudore dai partiti, i quali almeno ufficialmente in qualche modo si rammaricavano di esser stati costretti a ricorrervi, e incontravano tendenzialmente ostilità o indifferenza da parte dell’opinione pubblica, in questa occasione invece il super-canguro sembra aver riscosso un ampio e fanatico sostegno. Potrebbe dunque accadere in futuro che si faccia leva sul ricordo dell’impasse causato dal rifiuto del super-canguro per promuovere e legittimare un atteggiamento “decisionista” dell’esecutivo finalizzato ad aggirare i “tempi lunghi del Parlamento”, dipingendolo appunto come decisore inefficace e luogo dell’intrigo e dell’immobilismo.
Ora, non serve scomodare Kant o Montesquieu per capire quanto un’argomentazione che pretende di screditare l’osservanza della regole procedurali per via della bontà dei contenuti possa essere pericolosa e autoritaria. Dovrebbe essere infatti piuttosto chiaro che all’interno di una società pluralista, o che vorrebbe essere tale, l’intesa tra i sostenitori delle varie opinioni può avvenire soprattutto sulle regole della discussione e non sui contenuti. Nella fattispecie concordo nel riconoscere le unioni civili un doveroso atto di civiltà, ma non si può certo pretendere che con questo argomento si possano convincere gli avversari ad accettare una procedura decisionale di dubbia legalità e di manifesta scorrettezza! Chi a parti inverse accetterebbe una stretta dei diritti degli omosessuali in nome della sopravvivenza dell’Europa cristiana? Porre i contenuti al di sopra delle forme è l’inizio della negazione della discussione pubblica e parlamentare, nonché in seconda battuta dello stato di diritto, e risulta incomprensibile il costume mentale che si sta affermando, per cui se una legge verso cui si è contrari viene approvata con le procedure sopraelencate, siamo in presenza di un colpo di stato, se invece la legge è di gradimento, allora la “prassi sbrigativa” è ben accetta.
Logiche di questo tipo, come accennato, rivelano lo sviluppo di un comune sentire, purtroppo non limitato al nostro contesto nazionale, che ignora o mal tollera i principi costitutivi dell’istituzione parlamentare, che assume particolare evidenza se si considerano le opposte provenienze politiche degli attacchi. Se ad esempio ci siamo fino ad ora concentrati sull’irragionevolezza delle critiche al Movimento 5 Stelle in relazione al suo rifiuto del super-canguro, è altrettanto possibile riscontrare nella cronaca delle ultime settimane posizioni anti-parlamentariste espresse proprio dai pentastellati, prima fra tutte la proposta di introduzione del vincolo di mandato (di cui il Professor Giannuli si è già diffusamente occupato in “M5S: supercanguro, candidati sindaci e multe” e “M5s: eletti e sanzioni”).
Il vincolo di mandato, nonostante venga propagandato come passo verso la democrazia diretta, rappresenta in realtà una negazione, di fatto e di principio, non solo del parlamentarismo, ma anche della stessa democrazia, e non può che condurre o alla burocratizzazione o alla privatizzazione di quest’ultima. L’assenza di vincolo di mandato trova infatti il suo senso nella volontà di rendere il parlamentare rappresentante non solo dei propri elettori, ma della Nazione intera. Egli dunque dovrebbe, idealmente si intende, agire non in base all’interesse di un particolare gruppo sociale, ma essere invece espressione della volontà generale. Se invece il parlamentare è giuridicamente vincolato al rispetto di uno specifico programma elettorale, è evidente che egli non potrà più essere il rappresentante dell’intera Nazione, ma solo di coloro che si riconoscono in quel programma, tanto è vero che di negozio privato si è parlato proprio nel tentativo (maldestro) di dare legittimità giuridica alla proposta, e sarà inoltre tenuto a rispettare tale programma anche quando riterrà che tale osservanza vada a danno del bene comune. L’effetto in questo caso sarebbe doppio: da un lato il Parlamento cesserebbe di essere il luogo di un’autentica discussione, essendo la linea politica dei vari membri dell’assemblea decisa in anticipo dal loro obbligo di fedeltà ad un programma già definito prima dell’inizio della legislatura o comunque ridefinito al di fuori dell’aula; ma ciò comporterebbe al contempo la sua trasformazione in una sorta di assemblea degli stati generali, con la conseguenza paradossale che non vi sarebbe più un organo di rappresentanza del popolo sovrano, ma solo un organo di mediazione tra i vari gruppi di interesse della società civile.
Sicuramente mi si obietterà che la situazione sopra descritta come l’effetto del vincolo di mandato sia già la fotografia della realtà parlamentare, per cui tanto vale rendere gli onorevoli responsabili di fronte ai proprio elettori, piuttosto che continuare a permettergli di essere rappresentanti solo di se stessi. Tale obiezioni resta però non valida non tanto per la sua premessa, difficilmente confutabile, quanto per la sua conclusione, in quanto il vincolo di mandato non è uno strumento in grado di garantire un’effettiva funzione di controllo degli elettori sui propri parlamentari di riferimento. Come già rilevato dal Professor Giannuli, non è innanzitutto chiaro chi e come dovrebbe esercitare tale funzione di controllo; la soluzione può o avere carattere istituzionale, ossia sarebbero i partiti stessi, o un’improbabile commissione parlamentare, a vigilare sul rispetto del vincolo, oppure si può ipotizzare un qualche diritto di iniziativa diretta per i cittadini. Per la prima ipotesi ritengo che il Professore abbia già esaurientemente mostrato come il vincolo di mandato si rovescerebbe in un potere di ricatto dei partiti sui propri parlamentari e delle maggioranze sulle minoranze, portando a ciò che ho indicato come burocratizzazione dell’attività parlamentare; non andrebbe tanto meglio se, invece, la funzione di controllo fosse direttamente svolta dai cittadini, ammesso che si possano effettivamente risolvere problemi pratici quali l’individuazione degli elettori di riferimento per ciascun parlamentare (e qui rimando ancora agli articoli del Professore). Ma ammettiamo pure per amor di discussione che tali difficoltà siano in qualche modo arginabili, quali soggetti sociali sarebbero favoriti nella possibilità di esercizio del potere di revoca? Ritengo più che probabile che a poter far valere i propri diritti di rappresentanza sarebbero essenzialmente coloro che dispongono dei mezzi economici per sostenere le complicate cause contro i parlamentari “infedeli”: quanto è infatti plausibile che dei comuni cittadini impieghino soldi e tempo per condurre una battaglia, dall’esito per altro per niente scontato, per la revoca di un mandato? Dunque il vincolo si tradurrebbe in uno strumento in mano a lobby, corporazioni, grandi banche ecc. e in sostanza avremmo più che altro a che fare con una forma di controllo del potere economico-sociale su quello politico. Non esattamente il non plus ultra della democrazia, che si fonda sul principio diametralmente opposto.
Ad oltre novant’anni dalla prima edizione de «La situazione storico-spirituale del parlamentarismo odierno» vediamo quindi come le considerazioni espresse dal giurista di Plettenberg stiano addirittura acquisendo maggior evidenza e consistenza, le quali dovrebbero spingerci ad una messa in discussione, radicale e soprattutto di ampio respiro, dei paradigmi politici e retorici attuali. Quanto al nostro tema, occorre innanzitutto ricordare, usando le parole di Schmitt, che «Se il Parlamento passa dall’essere un’istituzione di evidente verità a strumento semplicemente tecnico-pratico, allora è sufficiente, non necessariamente attraverso una dittatura manifesta, che venga via facti mostrato che si può procedere anche diversamente, e il Parlamento è così archiviato.»
Lucio Mamone
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ilBuonPeppe
Se accettiamo il vincolo di mandato, tanto vale che in Parlamento vada un solo rappresentante per ciascun partito e che il loro voto sia pesato in base ai voti ottenuti alle elezioni.
Sarebbe tutto molto più semplice, economico e senza il pericolo di incappare in qualche “traditore”.
Lucio Mamone
Caro Buon Peppe,
bella osservazione! Quella che lei ha rappresentato in tutta la sua paradossalità sarebbe in effetti un esito piuttosto “logico” della soluzione “istituzionale” al vincolo di mandato (ossia che a vigilare sul rispetto del mandato siano i partiti stessi). Si potrebbe ipotizzare un controllo diretto da parte dei cittadini, ma in questo caso delle due l’una: o si rinuncia alla democrazia, perché ciascun partito rappresenta solo i propri elettori e dunque il parlamento non rappresenta più il popolo in quanto tale, oppure, se deve essere il popolo e non privati cittadini ad esercitare il potere di controllo e revoca, il vincolo non può essere più legato al programma politico, anzi non vi dovrebbero più essere né programmi politici né partiti, ma solo singoli rappresentanti sottoposti ciascuno singolarmente al giudizio del popolo (per referendum, acclamazione, ostracismo, si scelga cosa si preferisce…).
GherardoMaffei
Ma il giovane studioso da lei segnalato professore, di Carl Schmitt avrà mai letto il suo libro del 1921 intitolato la Dittatura ? In pratica fu la legittimazione teorica del totalitarismo. Ma meglio sarebbe che studi il libro di Carl Schmitt scritto nel 1934, periodo in cui aderì al nazionalsocialismo, intitolato :” Stato, Movimento,Popolo”. Nel troiaio odierno,che satura il parlamento italiano, di femmine isteriche, dimostrando così l’inutilità dello stesso,non ricordo il nome dell’Uomo di Stato del novecento italiano, che definì il parlamento un “aula sorda e grigia da trasformare in un bivacco di manipoli di miliziani”. Oggi comandano questo disgraziato paese (ma tutta la porcilaia-occidente) una ristretta cricca di politici camerieri dei banchieri,il parlamento non serve a nulla.Amen.
Aldo Giannuli
se conosco bene Lucio di Schmitt avrà letto anche la lista della spesa e le lettere alla fidanzata ed avrà concluso che era troppo poco teutonico
Lucio Mamone
hanno pubblicato le lettere alla fidanzata?!!!
Aldo Giannuli
si e te le sei perse… vergogna!!!
Lucio Mamone
Gentile Maffei,
il caso vuole che proprio “La Dittatura” sia uno dei testi di Schmitt a cui mi sono dedicato più intensamente. L’opera è una legittimazione del totalitarismo? Personalmente direi di no: in esso mi pare che Schmitt cerchi di isolare una definizione giuridica di dittatura, ossia governo che agisce in assenza di costituzione (o perché sospesa o perché non ancora promulgata), dall’uso generico ed essenzialmente propagandistico che se ne fa nel linguaggio politico (lei forse ricorderà come Schmitt si richiami in un paio di passaggi, con allusione evidentemente polemico verso i propri contemporanei, a Barère che affermava “on parle sans cesse de dictature”). Ciò porta ad un’ulteriore differenziazione che è quella fra dittatura, appunto, in senso giuridico e dittatura in senso filosofico. Ora un sistema totalitario può ricadere nella categoria di dittatura in senso filosofico, ma non certo in quella in senso giuridico, proprio perché la dittatura in questa seconda accezione non può essere sistema, non può essere Rechtsordnung (come invece i totalitarismi novecenteschi erano), ma è proprio un governo temporaneo in assenza di diritto (sarebbe da chiarire il senso di questa “assenza”, ma in questo momento possiamo andare oltre). Se la mia ricostruzione è giusta, “La Dittatura” non può essere una legittimazione del totalitarismo perché semplicemente non se ne occupa. Eventualmente mi dica pure in cosa non si ritrova.
Quanto alla sua posizione sull’ormai inevitabile inutilità del parlamento, è una questione che certamente merita considerazione, in questi casi però si deve anche passare a valutare le alternative.
GherardoMaffei
@Mamone, chiedo venia in effetti aveva sotto valutato il suo retro terra culturale, non pensavo che un giovane studioso, avesse il coraggio intellettuale di leggere un autore “maledetto” come Schmitt.Vige oggi giorno in occidente, una squallida “dittatura” del pensiero unico, dove solo osare citare scrittori, filosofi, tematiche inerenti al nazionalsocialismo, comporta di fatto, da parte delle mafie accademiche, cricche editoriali,puttane del giornalismo omologato da terza pagina, una vera e propria messa al bando,una impossibilità di continuare tale ricerca. Se lei per onestà intellettuale continuerà su questa strada,sappia che verrà criminalizzato, renderanno la sua ricerca e la sua vita di studioso impossibile.Le alternative ci sono basterà studiare altri autori “maledetti”, vi è una vasta gamma di saggistica da approfondire,non voglio montare in cattedra, io non sono nessuno,tuttavia mi arrogo la pretesa di segnalarle alcuni di costoro: Nicolas Gomez D’Avilla,gli italiani Carlo Costamagna,il contemporaneo Costanzo Preve, il barone “nero” Julius Evola. Cordialità.
Herr Lampe
Sì sbaglia di grosso caro Maffei. Evola no, ma ormai Schmitt si porta molto. Anzi, direi proprio che è à la page da diversi anni.
Certo, bisogna saperlo abbinare con gusto. Una sottigliezza non alla portata di tutti. C’è stata però recentemente una rubrica ad hoc su Vanity Fair che la potrà aiutare ad abbinare Schmitt con i suoi capi preferiti.
(Non pensi da questa risposta che le aprirò la porta quando verrà a propormi la Torre di guardia, caro il mio testimone di Evola)
GherardoMaffei
@Herr Lampe. Allora mi definirò come un “evolomane”, va bene così? Comunque i testimoni di Geova, durante il Terzo Reich o finivano nei lager, oppure se maschi in età di leva, rifiutando di andare in guerra (sono pacifisti accaniti) veniva a loro mozzata la testa.Dal tono come ne parla mi sembra di capire che lei, non solo apre le porte di casa su a questi menagrami ,ma quasi quasi …è un nostalgico della mannaia o ghigliottina.
Lucio Mamone
Caro Maffei e lieber Herr Lampe,
ringrazio innanzitutto Maffei per i consigli letterari. Verso Schmitt c’è effettivamente un atteggiamento generalmente disomogeneo: ogni tanto si fa studiare, ogni tanto lo si nomina a studiosi del diritto e ci si sente rispondere “non lo conosco” o “eh però Schmitt è pericoloso” (riferisco ovviamente esperienze personali dirette). Per cui parlerei di riabilitazione parziale, per quanto nelle facoltà venga ancora di gran lunga preferito il rivale Kelsen, nonostante il corso storico, soprattutto recente, abbia a mio avviso mostrato la maggior plausibilità e ricchezza delle teorie schmittiane.
Herr Lampe
Scusi Maffei, quasi mi dimenticavo.
Il termine “evolomane” suona molto bene. Se è d’accordo lo segnaliamo per la prossima edizione del DSM.
Per il resto immagino lei sia un erede spirituale della Vandea e non vorrei parlare di corda in casa dell’appeso (o era impiccato?).
Lorenzo
Ormai di Schmitt parlano tutti. L’importante è utilizzarlo in maniera decontestualizzata e/o parcellizzata, come fa Mamone quando ne coglie un singolo spunto e lo volge in grido l’allarme per le istituzioni demoplutocratiche in crisi.
La strada opposta sarebbe quella di scorgere nello scritto del ’23 un momento di costruzione dell’opposizione fra liberalismo e democrazia, valorizzare le componenti totalizzanti inerenti alla seconda e magari proclamare – collo Schmitt degli anni 30 – l’assoluta omogeneità del popolo con se stesso e con il suo Führer. Sarebbe una strada filologicamente corretta ma non c’è pericolo che un giovane studioso sia interessato a percorrerla.
Bisogna anche dire che le infinite ambiguità e doppi sensi di Schmitt ne incoraggiano i recuperi ad hoc.
Herr Lampe
Caro Manone, su Kelsen ha indubbiamente ragione. È ancora un must. Del resto anche io, durante gli attacchi di insonnia, non trovo rimedio migliore. Forse, e dico forse, solo Rawls eguaglia il suo potere soporifero.
Lucio Mamone
Caro Lorenzo,
ma se il giovane studioso vuole scrivere un articolo sul ddl Cirinnà e il mandato imperativo, a quali tesi di Schmitt dovrebbe riferirsi? A quelle di “Terra e mare”? Non ritengo poi Schmitt ambiguo, era semplicemente un genio dotato di insuperabile capacità analitica che gli permetteva di parlare con assoluta pertinenza anche di concetti e ideologie che non condivideva affatto. Pertanto non credo che si debba citare Schmitt solo con l’intenzione di finire a fare l’apologia del Führerprinzip, anche perché così si affermerebbe quel costume per cui ognuno può citare solo gli autori della sua parrocchia (Schmitt solo per i nazisti, Marx solo per i socialisti ecc.). Con discorsi di questo tipo si finisce per dar ragione a quelli non vogliono sentir nominare Schmitt perché “pericoloso” e, a ben vedere, si fa un bel torto a Schmitt stesso, il quale voleva essere considerato innanzitutto uno scienziato del diritto e non un ideologo (per quanto la sua dottrina non manchi certo di spunti normativi, principalmente emergenti negativamente attraverso la componente critica). Infine, se vogliamo anche fare i pignoli, ne “La situazione storico politica del parlamentarismo odierno” Schmitt si occupa sì del contrasto tra liberalismo, di cui a suo dire il parlamentarismo fa parte, e democrazia di massa, ma per fare la critica di quest’ultima e non, in questa sede, del liberalismo. Detto tutto ciò, non capisco in che cosa consista la mia colpa di decontestualizzazione, dato che non mi sembra di aver scritto da nessuna parte che Schmitt si stracciasse le vesti al pensiero della fine del parlamentarismo. Però il libro sul tema l’ha fatto e, fino a prova contraria, mi sembra dica quello che in estrema sintesi ho riportato.
Lorenzo
Caro Mamone, non voleva essere una critica personale. E’ un fatto che autori come Nietzsche e Schmitt vengano solitamente ripresi colle pinze.
Dissento dalla sua valutazione del pensatore come uno scenziato giuridico con un orizzonte prescrittivo prevalentemente critico e negativo. Questa è la versione purgata costruita dalla Schmitt-Literatur di regime. Schmitt fu anzitutto uno Jungkonservative e come tale un mitofante votato alla rifondazione di integrità olistiche, oscillanti fra legittimazione sacrale e fermenti vitalistici, su una linea di continuità rispetto alla miglior cultura voelkisch a lui contemporanea.
Ma qui esuliamo dal tema dell’articolo. Cordiali saluti.
leopoldo
Ciao momone, sono d’accordo con te, aggiungerei che una qualsiasi forza di governo dovrebbe legiferare a favore dell’inclusione sociale nello Stato degli elementi che possono trovarsi al margine o esterni, evitando danni come il reato penale di clandestinità a fronte di milioni di profughi per decenni. La legge sulle unioni civili e adozioni pasticcia su entrambi gli argomenti i quali dovrebbero stare separati ed avere ciascuno il proprio corpus legislativo, mentre nella confusione l’ipocresia trova coerenza e giustificazione allontanando i soggetti sociali, l’elettorato, dal dibattito politico rappresentativo. Penso che la mancanza di una visione organica degli elementi che compongono la società a favore di una visione specialistica di alcuni soggetti che appartengono ad alcune cominità del insieme indebolisce lo Stato in tutti i suoi organi, impoverisce l’idioma poiché spesso mancano definizioni per descrivere azioni ed eventi, né consegue una scarsa comprensione etica e una aumento a dismisura del disagio e dell’ingiustizia sociale; è vero che non tutti si possono accontentare, ma la funzione principale dello Stato e del parlamento che è la mediazione tra le parti viene a mancare, sopratutto come dici, se la base delle argomentazioni è ipocrità. quindi di che parlano quelli lì?-:-(
Lucio Mamone
Caro Leopoldo,
concordo con lei nel ricondurre il nostro tema specifico ad una più generale perdita di capacità di comprensione ed espressione in seno alle nostre società. Sicuramente il rifiuto di pensare in termini organici, come sostiene lei, gioca il suo importante ruolo, e interpreterei il fenomeno non come semplice trionfo dello specialismo, ma come colonizzazione di alcuni linguaggi specialistici (marketing, economico-neoclassico ecc.) su tutti gli altri. Di qui la difficoltà del nostro tempo di pensare il politico, che non deriva solo dalla reticenza a pensare in termini generali, ma anche dalla perdita di consapevolezza circa la particolarità della realtà politica (quindi anche del suo specialismo). Per cui questa l’attuale parcellizzazione del sapere è l’effetto di una forma degenere di specializzazione che non riesce a pensare né il generale né, in alcuni i casi, il particolare.
Ps: “di che cosa parlano quelli lì?” Di cose che spesso ignorano, ma non per discutere i problemi in aula, ma, bene che vada, per conquistare e fidelizzare elettori. La negazione di qualsiasi principio di discussione.
Tenerone Dolcissimo
Dove vige l’uninominale (esempio migliore UK) il vincolo di mandato esiste de facto. Non e’ salutare per un candidato e deputato in decadenza andare casa per casa (lì lo fanno) a chiedere la rielezione ad elettori dopo averglielo messo in (bip) per 4 o 5 anni.
Roberto B.
E’ interessante, perché in un certo senso, su scala inferiore e con diversa modalità, si realizza in questo modo quel controllo diretto da parte dei cittadini che il M5S vorrebbe attuare tramite la Rete.
Tenerone Dolcissimo
Non solo con la rete. I cinquestelle sono gli unici ad andare ancora per strada a contattare la gen te
Giovanni Talpone
L’analisi di Mamone, pur interessante, mi sembra troppo unilaterale. A parte che l’incazzatura verso il M5S è venuta più dall’ennesimo intervento a gamba tesa di Grillo a favore della Destra, come da sua abitudine, che dal rifiuto del Supercanguro, l’analisi è mancante su due punti:
– dal punto di vista dell’organizzazione dei lavori parlamentari, come si supera il problema di un ostruzionismo “assoluto”, dall’iscrizione di migliaia di interventi alla presentazione di migliaia di emendamenti? Si riconosce alle minoranze un sostanziale diritto di veto o no?
– più in generale, la crisi del parlamentarismo mi sembra venga più da una società impoverita, deculturalizzata, atomizzata e manipolata dai media che da qualche meccanismo istituzionale: la democrazia richiede un certo egualitarismo all’accesso a un’istruzione di qualità, e anche l’esistenza di “corpi intermedi” (per esempio, i tanto vituperati partiti “pesanti”) che medino fra esigenze generali e complessità delle scelte da compiere.
Lucio Mamone
Caro Talpone,
penso che anche nelle sue obiezioni siamo su posizioni più simili di quanto sembra. Anche le uscite di Grillo, e di qualche esponente, sono state effettivamente fonti di malumori, ma direi principalmente proprio tra gli elettori 5 stelle. Mi sembra invece che il coro di critiche esterne si sia fatto martellante a partire (e sul punto) del rifiuto del super-canguro. E se questo rifiuto è stata una scelta giusta, l’atteggiamento ambiguo di Grillo invece è stato sicuramente una scelta assai infelice. Del resto nell’articolo ho scritto come da questa discussione non ne sia uscito pulito nessuno. A proposito invece delle altre due questioni che sollevava:
Come superare l’ostruzionismo? Penso che, parlando in generale, il vero difetto di funzionalità del nostro Parlamento risieda in gran parte al bicameralismo perfetto, ma evidentemente ciò non riguarda il nostro caso. La mia impressione è però che l’ “ostruzionismo percepito” superi quello reale e ciò è dovuto a due ragioni: la prima, che è un po’ il tema dell’articolo, consiste in questa forma mentale di decisionismo quasi assoluto, per cui diventa democratico esclusivamente il prendere le decisioni, mentre qualunque ponderazione e contrappeso diventa fonte di disturbo; la seconda ragione invece è dovuta al fatto che i partiti utilizzino la scusante dell’ostruzionismo degli altri per giustificare le proprie incapacità e fratture interne. Pensi proprio alla Cirinnà, dove il problema originario non era l’ostruzionismo delle opposizioni, ma il fatto che il PD era spaccato, l’altro partito di maggioranza (l’ NCD) era contrario e solo parte dell’opposizione (SEL e 5 stelle) volevano votare la legge. In una situazione del genere l’ostruzionismo diventa sì efficace, ma sostanzialmente perché la maggioranza non c’è, per cui sarebbe il caso di constatare come i propugnatori del super-canguro fossero in fin dei conti i difensori, almeno per questo caso, di un bizzarro principio minoritario. Del resto non mi sembra che in questi settant’anni di storia repubblicana le maggioranze parlamentari siano state ostaggio delle minoranze, ma che l’immobilismo si sia sempre generato dalle fratture interne alle prime.
D’accordissimo con lei, la crisi “pratica” del parlamentarismo si inscrive all’interno di un movimento intellettuale regressivo della società nel suo complesso. Le prese di posizione che ho presentato sono un sintomo dell’impoverimento della cultura politica del nostro paese, dovuto in buona parte a sua volta, come ho scritto in un commento precedente, alla colonizzazione linguistica da parte dei linguaggi aziendali di tutti le altre forme di discorso sull’organizzazione della comunità.
Tenerone Dolcissimo
Intendo dire che il vincolo di mandato è una catena che non puo’ esistere ufficialmente, perché renderebbe impossibile la vita politica, ma deve esistere nei fatti mediante un controllo dell’elettorato, controllo che nel sistema proporzionale e’ assai labile e in quello condito dal controllo del premier -come porcellum ed italicum- del tutto inesistente.
Se manca questo controllo e, quindi, un vincolo sostanziale gli eletti possono fare quello che vogliono senza pagare dazio.
Lucio Mamone
Caro Tenerone,
sono d’accordissimo con lei nell’impostazione: il controllo degli elettori sugli eletti è un fatto che dipende (e deve dipendere) dagli elementi sostanziali della cultura politica di un paese. Il vincolo di mandato invece è la risposta sbagliata a questo importante problema. Non mi ritrovo invece invece nella sua preferenza per il maggioritario, poiché in primo luogo credo che il proporzionale offra delle possibilità di controllo, su tutti il voto di preferenza, in secondo luogo perché il collegio uninominale tende ad incoraggiare negli eletti la difesa di interessi particolari e locali, invece che nazionali. Certo, la cosa ha pro e contro, ma a mio avviso gli inconvenienti prevalgono.
Tenerone Dolcissimo
Due brevi obiezioni
1) UK, Francia e USA votano con l’uninominale. Non mi pare che lì gli interessi particolari prevalgano su qeulli nazionali.
2) Il proporzionale non offre vincoli forti come dimostrano eletti che hanno rinunciato all’elezione per far andare in parlamento illustri trombati in cambio della presidenza di qualche ente tanto lucroso quanto inutile.
david arboit
Nei rapporti tra persone, oppure nei rapporti tra genitori e figli, oppure ancora tra insegnanti e studenti, c’è un momento in cui è smaccatamente evidente che la dialettica diventa un esercizio puramente retorico, un menare il can per l’aia, un esercizio di potere, un puro esercizio muscolar dialettico, un sabotaggio. Che fare? Se si lavora insieme per sciogliere un nodo e appare evidente che c’è chi vuole aggrovigliarlo invece che scioglierlo, il colpo di spada è un gesto di buon senso necessario per fare in modo che si giunga a una decisione, che qualcuno si prenda la responsabilità di decidere. Solo in casi estremi ha senso il “sabotaggio” delle procedure del sistema decisionale parlamentare.
Il vincolo di mandato è un elemento di un sistema istituzionale complesso nel quadro del quale deve essere valutato, tenendo conto sia della costituzione materiale sia della costituzione formale. Possono coesistere vincolo di mandato e capacità e libertà di mediazione? Forse sì. Forse in qualche modo coesistono già di fatto. Magari ci fosse qualcuno oggi capace di proporre una discussione seria sullo stato della democrazia oggi e in particolare facendo il un focus su quelle competenze democratiche del cittadino che impediscono di trasformare la democrazia in un simulacro.
Quello che indigna della politica oggi è che vive solo soltanto nella dimensione temporale del presente, non ha passato e non ha futuro e non comprende che passato e futuro sono ciò che da senso al presente, che rende possibile leggere e chiarire il presente. Ma questa malattia non è solo della politica, e il cuore di un mutamento antropologico profondo che investe tutte le dimensioni dell’esistenza.
Lucio Mamone
Caro Arboit,
certamente la situazione politica attuale richiederebbe eccome un bel colpo di spada. Non credo però che il vincolo di mandato lo possa essere. Al contrario esso finirebbe per alimentare i processi degenerativi in atto (privatizzazione, burocratizzazione ed esautorazione della politica, egemonia dell’economico, ecc.). La sua introduzione non sarebbe dunque, a mio parere, una rottura, ma un atto di continuità. E ciò sarebbe ancor più vero proprio tenendo in considerazione ciò che ricorda lei al termine del suo intervento: la politica non è il regno dell’eterno presente, come oggi erroneamente si tende a credere. Si tende cioè a pensare il mandato imperativo applicato esclusivamente ai partiti attuali (e ciò sarebbe già fonte di problemi), ma non si considera che uno strumento del genere sarebbe un’ottima opportunità per i poteri economici, i quali potrebberocreare partiti di difesa dei loro interessi, magari dietro il paravento propagandistico di due tre battaglie di interesse generale, e del tutto controllabili dall’esterno.
L'Anarchico Danzante
la scelta di coinvolgere il teorico per eccellenza del decisionismo politico e dello stato d’eccezione in un articolo che vorrebbe ergersi a difensore delle procedure parlamentari ha qualcosa di paradossale e di estremamente ironico. per quanto riguarda l’ennesima occasione mancata del non partito del m5s, mi pare la questione sia un’altra. Le esternazioni di grillo a tre giorni dalla votazione ovviamente non sono state casuali; il punto è che il m5s si è nascosto dietro a petizioni di principio, – ovviamente condivisibili- per nascondere l’ambiguità di essere un non partito che si professa oltre la dicotomia classica di destra e sinistra, e che tenta sui grandi temi di districarsi tra una chiara componente di elettorato proveniente dalla sinistrae altrettanta importante parte populista e in certi casi perfino xenofoba. il risultato è una vittoria per renzi, che placa i cattolici, rassicura il vaticano e incassa perfino un ulteriore seppur ingiusta delegittimazione dei 5s. lo status quo è salvo.
il comportamento e le dichiarazioni di alcuni esponenti del movimento mi ricordano la massima: “fiat iustitia, pereat mundus”. Qui non è nemmeno necessario scomodare carl schmitt per accorgersi di come in crisi e non solo in italia, non siano solo i parlamenti, sempre più esautorati, ma proprio il concetto stesso di rappresentanza. nel dubbio però sarebbe bello se il m5s diventasse qualcosa di meglio di un non partito incapace perfino di distinguere la differenza tra tattica e strategia e finendo sempre per essere, in un modo o nell’altro, l’unica vera stampella di Renzi.
Lucio Mamone
Caro Anarchico Danzante,
quella di coniare espressioni per dare un’unità concettuale al pensiero degli intellettuali e alle epoche storiche è un’attività assai utile, e direi in certa misura persino necessaria, ma se si resta troppo affezionati ad esse si rischia di smarrire degli aspetti anche semplici, come ad esempio il fatto che per Schmitt lo stato d’eccezione rappresenta appunto… L’eccezione. Anche la decisione viene in realtà concepita prevalentemente come complementare alla norma e ne può sancire la rottura solo, per dirla come Bodin, “se la necessità è urgente”. Per cui il senso del decisionismo schmittiano non è quello di mostrare l’irrilevanza della norma (che giurista sarebbe?!), ma quello di determinare i confini di validità di questa e quindi quando e come può essere negata.
Il punto dell’articolo a proposito della questione del super-canguro è proprio questo, ossia, sebbene in determinate circostanze la rottura definitiva con la norma sia legittima e auspicabile, non ci si può improvvisare napoleoni da quattro soldi e aggirare “strategicamente” la regola ogni qual volta essa non risulta favorevole. Quindi bene ha fatto il M5S a rifiutare il super-canguro, dopodiché che lo si critichi pure per tutto il resto (uscite di Grillo, atteggiamenti ambigui, scarsa identità politica ecc.).
Roberto B.
Primo: se si dimentica che il Movimento 5 stelle è un “non partito” che auspica che il processo decisionale avvenga attraverso la consultazione diretta dei cittadini, oggi possibile grazie a strumenti che ai tempi di Schmitt non erano neppure immaginabili, si finisce nell’equivoco di fondo in cui incorre l’autore di questo peraltro pregevole articolo.
Per i distratti o per chi non va mai sul Blog di Grillo (che tuttavia è sempre più estraneo alla sua direzione e gestione, tanto da dover chiedere ospitalità ai giornali nemici per esternare le sue opinioni. Ma questo è un’altro film), faccio osservare che c’è un’icona che rimanda ad uno specifico link “Partecipa alla scrittura delle leggi del M5S”.
Quindi, viene subito a cadere l’obiezione su “chi e come dovrebbe esercitare tale funzione di controllo”: sono gli stessi cittadini, attraverso la Rete, che partecipano alla formazione delle leggi e consultati indicano la direzione da seguire di volta in volta.
Naturalmente si aprono poi voragini di incertezza su alcune importanti questioni, prima fra tutte quella su chi gestisce gli strumenti tecnici e su come garantire la democrazia diretta dalle manipolazioni attuate tramite interventi ad hoc sui programmi software. Ma rinunciare sarebbe come non uscire di casa per evitare il rischio di essere rapinati.
Secondo punto: il programma presentato alle elezioni è qualcosa che è ben conosciuto e, si spera, accettato e condiviso da chi si presenta sotto un certo simbolo. Ed è certo che chi viene poi eletto rappresenta anzitutto coloro che lo hanno votato in quanto favorevoli a quel programma: e dov’è lo scandalo ed il vulnus alla democrazia? Altre forse politiche presentano il proprio programma, più o meno diverso, e dalla dialettica parlamentare e dai rapporti di forza si giunge a leggi e decreti che per definizione non potranno mai essere completamente approvati da tutti i cittadini.
Inoltre, anche il programma nel M5S non nasce per caso, dalla mente di pochi ma buoni che si riuniscono nelle segrete stanze e decidono, ma viene proposto e validato attraverso un processo di consultazione online dei cittadini, come ben sa il prof. Giannuli autore della consultazione sulla legge elettorale.
Naturalmente, i programmi dovrebbero limitarsi ai punti essenziali dell’azione di governo, stabilendo più principi che punti specifici: il vero ostruzionismo sarebbe quello attuato da esempi tipo quell’abominio del “programma dei 100 punti di Prodi”, un non programma fatto apposta non per governare, ma per andare al potere.
Terzo punto: per contrastare l’ostruzionismo estremo ed evitare che immobilizzi il Parlamento, è chiaro che bisogna intervenire sui regolamenti parlamentari. Se davvero lo si vuole, gli strumenti si trovano. Banalmente, ad esempio, si potrebbe stabilire un numero massimo di emendamenti che ciascuna forza parlamentare può presentare a ciascun articolo di una legge in discussione.
Ma bisognerebbe anche limitare in qualche modo il ricorso alla fiducia, che obbliga ad accettare un provvedimento a scatola chiusa. Dovrebbe essere inaccettabile persino per i proponenti di quella legge, se fossero persone intellettualmente oneste.
Aldo Giannuli
unica obiezione: il M5s E’ un partito
Roberto B.
Sono d’accordo, ma in questo momento è essenziale prendere le distanze, in qualche modo, da una situazione politica ormai troppo inquinata. Preferiamo chiamarlo partito? Non cambia la sostanza
Lucio Mamone
Caro Roberto B.,
a titolo di curiosità: è proprio sicuro che Schmitt non potesse nemmeno immaginare l’approdo odierno delle forme di interazione della politica? Legga questo passaggio della “Dottrina della costituzione”: “Si può immaginare che un giorno, attraverso ingegnose invenzioni, ciascuno, senza lasciare la propria abitazione, possa esprimere attraverso un apparato le proprie opinioni sulle questioni politiche e che tutte queste opinioni vengano registrate automaticamente da una centrale, dove rimarrebbe solo da conteggiarle. Ciò non sarebbe in alcun modo una democrazia particolarmente intensiva, ma la prova del fatto che lo stato e la sfera pubblica sarebbero interamente privatizzati. Ciò non sarebbe l’opinione pubblica, perché l’opinione, concorde in tal modo, di milioni di individui privati non da luogo all’opinione pubblica, il risultato è solo una somma di opinioni private.” A proposito invece delle questioni che lei pone:
1) In primo luogo ritengo fuorviante impostare la questione del vincolo di mandato partendo dalla considerazione della natura del M5S, dato che qui non è più in discussione un articolo del suo statuto, ma una futura legge dello Stato, la quale dovrà dunque valere per tutti i partiti. In secondo luogo, giudico positivi alcune soluzioni dei 5 stelle per il coinvolgimento dei cittadini, come ad esempio la possibilità da lei citata di partecipare alla stesura delle proposte di legge. Queste soluzioni rappresentano effettivamente un buono modo per introdurre elementi di democrazia diretta in un sistema rappresentativo. Questo giudizio positivo però non vale per il vincolo di mandato e ciò per diversi motivi; oltre a quanto già detto, rispondendo proprio ad una sua obiezione, aggiungo qui solo un altro motivo: attivisti ed elettori non sono lo stesso soggetto e dunque non è detto che ne coincidano le volontà, per cui, se non si vuole proprio accettare il principio per cui il parlamentare deve agire come rappresentante del popolo intero, credo si debba quantomeno riconoscere che il suo operato debba tener conto anche di coloro che non partecipano alle votazioni on-line (e che costituiscono, per inciso, la maggioranza dell’elettorato).
2) Nella realizzazione di un programma elettorale intervengono fattori che ne possono modificare il contenuto come la necessità di mediazione parlamentare o l’insorgenza di un nuovo problema, senza considerare che, come ha affermato lei stesso, il programma non può mai essere esaustivo, neanche verso quei punti che esplicitamente menziona (altrimenti dovremmo immaginare che ciascun punto di un programma elettorale sia un disegno di legge). Volendoci richiamare a Schmitt, ogni norma richiede per essere applicata di una decisione e la decisione non può essere definitivamente prescritta dalla norma. Pertanto anche nella realizzazione dei programmi elettorali è impossibile eliminare ogni residuo di arbitrarietà. Che l’arbitro sia il partito (o il movimento, o come si preferisce chiamarlo) o il popolo, sorgono comunque quelle contraddizioni, a mio avviso insolubili, che ho elencato nell’articolo. Concludo con un paio di domande: è plausibile immaginare una o più consultazioni on-line per ciascuna votazione parlamentare? Che autorità avrebbe una consultazione a cui partecipassero poche centinaia di attivisti?
3) Sul terzo punto sono sostanzialmente d’accordo con lei.
Paolo Federico
Il M5s è un movimento a guida dall’alto ed è bene che sia così, poiché qualsiasi altra organizzazione lo renderebbe simile ad un partito.
Il vincolo di mandato non può riguardare l’istituzione parlamentare, ma può e deve essere vincolante per il movimento e a tale scopo le espulsioni sono fondamentali.
Questo meccanismo selettivo deve essere perfezionato affinché si venga a formare una classe dirigente che possa definirsi a pieno titolo tale, figure che possano incarnare l’idea stessa di stato e di diritto anche quando esse tornino, per così dire, alla loro vita privata.
Aldo Giannuli
lasciando perdere tutto il resto: come si concilia la democrazia diretta con la guida dall’alto?
Lorenzo
Bè… schmittianamente, la democrazia diretta potrebbe essere il mito-forza destinato ad aggregare consenso attorno a un sistema antidemocratico. Mai sentito parlare di Vaihinger e della teoria della Fiktion?
Senza quella non si capiscono gli scritti giovanili del buon Carl.
Paolo Federico
E come si concilia lo specialismo della politica con la democrazia?
E come si conciliano i tanti appelli anche su questo blog sulla necessità di formare una élite dirigente con la democrazia?
Comunque la si rivolti è chiaro a tutti, magari in modo inconsapevole, che è lo stato che informa il popolo e non il contrario.
E comunque la prego non lasci perdere tutto il resto, dica pure.
Herr Lampe
Per la verità mi pare ne parlasse già Rousseau.
Per dire.
Lucio Mamone
Gentile Paolo Federico,
mi pare di capire che lei propenda per un vincolo di mandato inserito nello statuto del M5S e dunque valido solo per i suoi parlamentari. Inoltre mi sembra che per lei la funzione di controllo debba essere esercitata dai vertici del Movimento. Stando così le cose però, il vincolo di mandato non è altro che la legittimazione formale della già presente pratiche delle epurazioni. Naturalmente la cosa può essere accolta positivamente, ma personalmente mi lascia perplesso.
Lorenzo
La vita istituzionale degli ultimi 30 anni è un’unica grande conferma delle dottrine schmittiane. Non solo la critica alle istituzioni parlamentari, ma l’opposizione fra democrazia e liberalismo e la natura plutocratica della democrazia liberale, che si rovescia nello strapotere delle inderekte Gewalten (potestates indirectae) che si sostituiscono al potere politico amministrandolo nei fatti senza assumersene la responsabilità.
Per non parlare delle sue prognosi più profonde: quella attinente agli sbocchi polemologici cui conduce ogni progetto di affratellamento universale (“Abramo avava due figli: Caino e Abele”) e quella attinente alla pervasività del ‘politico’, ed alla conseguente sua diluzione, anziché scomparsa, man mano che si indebolisce l’edificio dello jus publicum aeuropaeum (le sovranità nazionali), culminante nella guerra civile mondiale permanente.
In una prospettiva più vasta è tutto l’occidente che va percorrendo il tragitto di decadenza antivisto dal pensiero nazionalsocialista negli anni 30: denatalità, inaridimento culturale, massificazione, disinteresse verso la politica, dominio della finanza sradicata, importazione di allogeni.
Di tutto questo Mamone riprende il pezzettino che gli serve per lanciare un grido di allarme su un aspetto specifico. Un’operazione non errata ma altamente selettiva.
Lucio Mamone
Caro Lorenzo,
nazionalsocialismo a parte, concordo con lei. La rimozione nevrotica del contenuto polemico della politica rappresenta uno dei grandi temi del nostro tempo. Ma non si preoccupi: non è improbabile che ne torneremo a discutere in questa sede (con obbligati riferimenti al nostro comune amico tedesco).
io
Credo che andrebbe anche ponderata la posizione di coloro che sono leader o fondatori del partito. Fatta eccezione per il responsabile politico del PD, che peraltro é anche capo del Governo, quel tanto di extraparlamenterismo che non guasta, tutte le guide politiche dei partiti sono esterne all’istituzione parlamentare. Salvini, Berlusconi, Grillo-Casaleggio, per un motivo o per un altro, non sono all’interno dell’istituzione. Non so in quanti altri Paesi ci siano leader politici, che messi insieme rappresentano quantitativamente la maggioranza relativa, che agiscano al di fuori dell’istituzione di rappresentanza politica. E’ un fattore da non sottovalutare, seppur forse congiunturale
Lucio Mamone
Gentile io,
effettivamente quello da lei indicato è un punto di tensione con il principio parlamentarista. Però, e mi trovo ancora una volta d’accordo con lei, non è detto che suddetta tensione debba dar luogo necessariamente ad una contraddizione. Per cui è sicuramente un aspetto da limitare nei suoi possibili esiti dannosi, ma la conciliazione è da un punto di vista teorico possibile.