Capirete che il 7 novembre ho un tema obbligato: la Rivoluzione Russa. Ed ho scelto di scrivere sul suo principale artefice. In questo quasi trentennio post Urss, Lenin è stato sottoposto ad un’ autentica criminalizzazione, sostenendo che sia stato lui chi ha edificato il totalitarismo sovietico, che Stalin ne ha solo proseguito l’opera e lo si è accusato d’ogni nefandezza.
Oggi Pietro Ingrao compie cento anni, una buona occasione per un bilancio storiografico della sua azione politica e della corrente ideologica che ne è derivata. Le due cose, Ingrao ed ingraismo, infatti non si identificano perfettamente, come sempre accade fra la scuola ed il caposcuola, ma in questo caso c’è una particolare integrazione dei due termini.
Cappuccino, brioche e intelligence n°42
Come era prevedibile, sta calando gradualmente una coltre di silenzio sul caso Datagate: i leader europei faranno finta ancora per un po’ di lamentarsi, si improvviseranno improbabili protocolli di garanzia della privacy, Obama prometterà misure draconiane, ma tutto riprenderà come prima. In attesa della prossima puntata. Già, perché il problema resta tutto in piedi con le sue cause non toccate minimamente e prima o poi spunterà un altro interessato a risollevare la questione magari attraverso un nuovo “pentito di Cia” o di Nsa. E’ singolare come nessuno si sia posto il problema del perché i servizi europei abbiano docilmente collaborato con l’agenzia americana nello spionaggio di altri europei.
Al tempo della guerra fredda, la sinistra (e quella legata al Pci ed all’Urss in particolare) leggeva la realtà mondiale attraverso lenti rigidamente bipolari: di qua ci sono l’Urss con i suoi alleati ed i paesi del Terzo mondo in lotta contro l’imperialismo americano, dall’altra parte ci sono gli Stati uniti ed i paesi capitalisti. Ovvio che i primi avessero sempre ragione ed i secondi sempre torto ed era facile “leggere” la realtà internazionale alla luce di questa “analisi di classe” (sic!). Ogni intervento americano era un’aggressione contro cui mobilitarsi, mentre ogni intervento sovietico (compresi quelli in Ungheria, Cecoslovacchia, Afghanistan) era necessitato dall’esigenza di contrastare un qualche piano imperialista.
Tre anni fa venne assegnato ad Obama un premio Nobel per la pace, non per quel che aveva fatto, ma per quel che avrebbe fatto: un Nobel alle intenzioni. Oggi il prestigioso premio è assegnato alla Ue, per il suo ruolo di pace: un Nobel alla Memoria. Non ci vuol molto a capire che si tratta di un pietoso puntello ad una istituzione che traballa assai e che, se pure sopravvivesse, non si capisce che ruolo potrebbe avere e, di conseguenza che futuro. Se oggi facessimo un referendum in tutti i paesi membri sulla prosecuzione della Ue i Si al suo scioglimento sarebbero una valanga (e badate che sarei fortemente tentato di votare No o al massimo di astenermi: dunque, non lo dico con compiacimento). La Reale Accademia Svedese ha sempre fatto operazioni politiche con il suo premio, questo è fuori discussione: in qualche caso condivisibili (ad esempio il Nobel per la pace a Desmond Tutu) altre un po’ meno (vi ricordate il Nobel per la Pace a “mezzadria” fra Kiessinger e Le Duc Tho?).
Spesso si sente: “Ma visto che sono così in crisi, gli americani non potrebbero tagliare le spese militari?”. In effetti, il bilancio degli Usa devolve un po’ più del 19% alle spese militari, ma si tratta di una stima inferiore alla realtà, perchè una parte considerevole delle spese militari è “spalmata” su altre voci del bilancio (esattamente come fanno i cinesi): ad esempio è noto che buona parte delle spese per Ricerca & Sviluppo
(58 miliardi di dollari) è destinata in gran parte (40 miliardi di dollari) a progetti di interesse militare, così come lo è una parte dei fondi per “missioni umanitarie” (5% circa del bilancio). Inoltre, frazioni limitate ma non trascurabili delle voci di spesa per i trasporti, telecomunicazioni, ecc. hanno impiego militare.