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Catalogna: un referendum senza garanzie democratiche

da Barcellona, Steven Forti, ricercatore presso l’Instituto de Historia Contemporanea dell’Universidade Nova de Lisboa e presso il CEFID dell’Universitat Autònoma de Barcelona

Dalla grande manifestazione della Diada, che lo scorso 11 settembre ha invaso pacificamente le strade di Barcellona, è passato poco più di un mese. Un mese intenso in cui molte cose sono successe. O almeno questa è stata l’apparenza. In realtà, se guardiamo il tutto da una certa distanza, ben poco è cambiato: il fondo della questione rimane lo stesso. E anche le posizioni di quelli che sono ormai, dichiaratamente e pubblicamente, i due “avversari”, il governo regionale catalano guidato da Artur Mas e il governo spagnolo guidato da Mariano Rajoy, non sono cambiate affatto.

Da Edimburgo a Barcellona

Il 18 settembre si è votato in Scozia. Un referendum con una domanda secca – “La Scozia dovrebbe essere un Paese indipendente?” –, concordato con largo anticipo con il governo di Londra e convocato dallo stesso Cameron, in cui il no all’indipendenza ha vinto con il 55,3%.

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Referendum scozzese: una lezione capita a rovescio.

Come era prevedibile, il referendum scozzese ha tenuto banco sui giornali per diversi giorni; quello che non era prevedibile è stata la valanga di sciocchezze che abbiamo letto. Tutti -o quasi- hanno constatato che, con la decisione di Londra di ammettere il referendum  -riconoscendo implicitamente il diritto all’autodecisione degli scozzesi- hanno “sdoganato” il principio per tutti gli altri. E l’esito, che ha bocciato la proposta indipendentista, rafforza questa tendenza, perché lo Stato centrale può sempre pensare di vincere il referendum e, con questo, rilegittimarsi agli occhi dei suoi cittadini. Pertanto, non ci sarebbe motivo di rifiutare la proposta referendaria, anche per gli altri stati nelle stesse condizioni. Ad esempio, per Madrid sarà ora più difficile opporsi alla richiesta dei catalani. Sin qui non c’è ragione di dissentire: il senso di quello che è accaduto va sicuramente in questo senso. I guai cominciano dopo.

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Che succede nella Ue, se la Scozia esce dalla Gran Bretagna?

Milano, 14 settembre. Nei prossimi giorni sarò assente. I pezzi che usciranno questa settimana sono stati scritti dunque il 14 settembre e potrebbero risentire di alcuni cambiamenti delle situazioni in corso.

Giovedì dovrebbe aver luogo l’atteso referendum per l’indipendenza scozzese ed i sondaggi propendono per un furioso testa a testa. Vedremo come finirà. Se dovesse affermarsi con nettezza la tesi unionista (con uno scarto di almeno 8-10 punti percentuali) la questione sarebbe chiusa. Ma se la tesi indipendentista dovesse essere sconfitta per pochi voti, il problema sarebbe destinato a riproporsi dopo breve tempo e, pertanto si aprirebbe un periodo molto complesso di grande instabilità. Ma qui facciamo l’ipotesi che, per poco o per molto, vincano i si all’indipendenza: quali conseguenze avrebbe la cosa?

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Cosa c’entra il Veneto con la Crimea? C’entra, c’entra…

Chiarisco subito: Veneto e Crimea hanno ben poco in comune, a parte il fatto di essere regioni europee, e non ci sono fili diretti fra la crisi di Crimea e lo sgangherato tentativo dei separatisti veneti (che, a giudicare dalla dichiarazione del loro capo, “Sono prigioniero di guerra”, più che altro, esigono un immediato tso). Ma c’è un problema che le accomuna, così come la Catalogna, la Scozia, la Bretagna, paesi Baschi… Sono tutti casi in cui si invoca l’autodeterminazione dei popoli per sancire secessioni. In qualche caso (Scozia, Catalogna, Euzkadi) per proclamare un nuovo Stato indipendente, in altri caso per passare ad un altro Stato sovrano (Crimea), in altri, come il Veneto, non si capisce bene per cosa.  Ma il punto è questo: chi è il titolare del diritto di autodeterminazione? Il Popolo, ovvio. Ma cosa definisce “il popolo”?

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