Non avevamo sbagliato invitando alla cautela sui sondaggi elettorali ed avvertendo su possibili sorprese, sia per la massa di indecisi fra le varie liste, sia, soprattutto, per la possibilità di un forte astensionismo.
Mi sembra un doveroso atto di onestà intellettuale dichiarare le proprie simpatie politiche. Chi scrive queste righe per lavoro fa lo storico e, come ogni altro operatore delle scienze sociali, ha il dovere di non far prevalere le proprie opinioni politiche sull’analisi : la ricerca della verità non deve essere disturbata da finalità di altro genere ed il militante politico deve aspettare dietro la porta del laboratorio di analisi. Ciò non di meno, è inevitabile che quelle idee accompagnino l’analista anche dietro quella porta e, per quanti sforzi egli faccia per vigilare le proprie propensioni, è probabile che, pur inconsapevolmente, possa esserne condizionato. Non foss’altro perché siamo tutti un po’ inclini a scambiare i desideri per realtà. Ed allora chi ci legge ha diritto di avere tutte le coordinate necessarie per filtrare criticamente il testo e, fra queste anche la collocazione politica.
Dunque dichiaro senza reticenze che alle prossime elezioni europee voterò per la lista comunista. Non ho nessuna difficoltà a riconoscere laicamente le molte debolezze di essa: l’insufficiente analisi politica, la pochezza della proposta per far fronte alla crisi, il vecchio vizio dirigista espresso dalla composizione delle liste al bilancino, senza nessun coinvolgimento della base, il riflesso identitario, la mancanza di una seria riflessione sui motivi che hanno portato al disastro dell’anno scorso… Tutte cose vere e se ne potrebbero aggiungere altre. Ma, se anche non vi fossero altri motivi per farlo, c’è una ragione a favore del voto comunista che contrappesa tutte le altre: questa è l’unica area politica che metta in discussione i fondamenti capitalistici del sistema. Probabilmente una pregiudiziale ancora troppo ideologica, priva di una traduzione politica credibile, ma pur sempre una discriminante fondamentale. Dalla crisi del 1989 la sinistra è uscita rimuovendo definitivamente e senza riserve la propria origine anticapitalistica. Questo ha prodotto la trasformazione dei partiti socialisti (ed in Italia del Pci) in partiti liberali-liberisti che si candidavano alla gestione dei processi di globalizzazione avendo come unico discrimine dalla destra un generico afflato socialeggiante ed un minimo di attenzione in più all’area del lavoro dipendente che ne costituiva ancora gran parte dell’insediamento elettorale. A venti anni i risultati non sembrano entusiasmanti: la sinistra è al governo – con molti affanni- in pochi paesi, la sua base sociale si è erosa e dispersa, l’offensiva culturale della destra non ha conosciuto limiti, i processi di privatizzazione stanno intaccando i più elementari diritti umani…
In questi anni, la bandiera anticapitalista è stata poco più di un richiamo propagandistico e se ne comprende il motivo: nell’era del liberismo trionfante le possibilità di svolgere una efficace azione politica di segno anticapitalistico erano ridotte all’assoluta marginalità. La spettacolare avanzata della Cina e dell’India era vantata come la garanzia che “la globalizzazione funziona”, i livelli di consumo nelle metropoli occidentali non calavano ma crescevano, quel che dimostrava come i vincoli di una contrattazione sindacale troppo rigida erano inutili ed anzi dannosi, perché il mercato bastava a sé stesso producendo maggiore soddisfazione dei bisogni sociali attraverso la produzione di sempre maggiori quote di ricchezza. Le vele della sinistra antagonista erano inevitabilmente afflosciate dalla grande bonaccia culturale di quegli anni.
Poi, dall’estate del 2007, con la crisi dei mutui, la rutilante corazza ideologica del neo liberismo ha iniziato a non brillare più come prima ed a mostrare più di una fenditura: i successo economico cinese ed indiano presentava molti aspetti discutibili e produceva effetti imprevisti ed indesiderati, ma, soprattutto, si scopriva che il benessere ed il livello di consumi era garantito da una crescita senza freni del debito pubblico e privato e che era arrivato il momento della verifica. La bolla aveva incontrato lo spillo che l’aveva fatta esplodere. Da quel momento molte certezze sono crollate e l’effimero ottimismo di queste settimane sulla “ripresa già iniziata” non sembra sedurre nessuno.
Sappiamo che il peggio della crisi deve ancora venire. Forse sarà un fenomeno diluito nel tempo, forse si trascinerà in forme striscianti ed occulte, ma sappiamo i essere molto lontani di un punto di equilibrio. E questa sinistra “compatibilista” scopre definitivamente la sua inutilità:al liberismo basta la destra ed i risultati elettorali di questi anni lo hanno dimostrato sia quando la sinistra ha perso –per l’erosione del suo blocco sociale- sia quando ha vinto ed è stata costretta a politiche del tutto indistinguibili da quelle della destra.
Oggi il vento forte della crisi si è alzato ed inizia nuovamente a gonfiare le vele della sinistra. Beninteso, le vele sono ancora troppo logore e gli alberi troppo fragili e proprio la violenza di quel vento minaccia di spazzare via tutto in breve. Occorrerà cambiare le vele mettendone di nuove e robuste e rafforzare gli alberi sostituendone anche qualcuno, ma, se vogliamo che la sinistra riprenda il mare aperto non possiamo permettere che affondi l’unico battello che, con tutti i suoi limiti, ha la struttura adatta a farlo. I comunisti da soli certamente no basteranno all’impresa, dovranno riuscire a collegarsi efficacemente all’area del precariato, ai giovani dei centri sociali, al sindacalismo radicale oltre che a quello confederale, agli intellettuali liberal-democratici, alle aree del lavoro autonomo rovinate dalla crisi. Occorrerà procedere a formare un nuovo blocco sociale quel che implica nuove alleanze politiche e grande coraggio intellettuale, ma, se alla sconfitta ormai certa dell’ “inutile voto” al Pd si accompagnasse il definitivo naufragio dei comunisti, tutto sarebbe infinitamente più difficile. Ed il vento della crisi potrebbe gonfiare le vele di un populismo aggressivo e reazionario.
A BERLUSCONI NON BASTA VINCERE. DEVE STRAVINCERE. ALTRIMENTI PERDE.
Se il Pdl dovesse avere il 40,3% dei voti che molti sondaggi gli attribuiscono, registrerebbe una avanzata del 3% secco. Berlusconi potrebbe cantare vittoria, ma in realtà avrebbe perso.
Dopo la vittoria a valanga dell’anno scorso, il Pdl è passato di successo in successo conquistando Roma, l’Abruzzo, la Sardegna, è riuscito a conquistare quasi tutta la Rai, ha votato il federalismo fiscale ecc. Ma il vento potrebbe cambiare molto prima di quanto non si pensi: la crisi economica è tutt’altro che risolta, il banco di prova sarà fra settembre e gennaio, quando il pessimo ricordo del governo Prodi (che sin qui è stato il migliore atout di Berlusconi) sarà scolorito.
l'aula della Camera dei Deputati
Dopo pochi mesi si voterà per le regionali e i risultati potrebbero essere assai meno favorevoli di oggi, tenendo anche conto che le elezioni amministrative solitamente sono meno favorevoli alle liste berlusconiane.
L’armonia della coalizione sarebbe messa a dura prova da una Lega che, ottenuto il federalismo fiscale, potrebbe non essere più tanto interessata a seguire l’alleato lungo questa discesa. Né è detto che l’amalgama fra gli ex di Fi e gli ex di An sia molto ben riuscito.
Ragionevolmente tutto questo non basterebbe né a far saltare la coalizione né a mandare prematuramente in crisi la legislatura, ma potrebbe avviare una fase di logoramento –come nella legislatura 2001-06- durante la quale la sinistra potrebbe riorganizzarsi. Berlusconi non nasconde le sue aspirazioni di salire al Colle appena possibile, essendo scarsamente plausibile un nuovo quinquennio come Presidente del Consiglio dopo il 2013, quando sarà assai prossimo agli 80 anni. Non c’è dubbio che con l’attuale Parlamento avrebbe ottime probabilità di farcela, ma, come si sa, il mandato di Napolitano scade nel 2013, dopo la fine della legislatura e –per quanto il Pd si stia liquefacendo- nessuno può garantire che il prossimo Parlamento abbia ancora una maggioranza di questo tipo. Di qui la forte tentazione di cogliere un pretesto qualsiasi ed andare ad elezioni politiche, sin quando dura il favore dell’elettorato, magari nel 2010.
Questo consentirebbe di arrivare alla scadenza delle presidenziali con un Parlamento a maggioranza di destra. Peraltro, elezioni ravvicinate coglierebbero la sinistra in piena fase di rimescolamento delle carte dando a Berlusconi la possibilità di imporre alla Lega un patto leonino o escluderla senza troppi problemi dalla coalizione. E questo consentirebbe di mettere mano alla riforma della Costituzione senza dover fare i conti con le bizze leghiste in tema di riforma del potere giudiziario.
Dunque, oltre che spianare la strada verso il Quirinale, questa strategia consentirebbe a Berlusconi di trasformare durevolmente il paese ed i suoi assetti istituzionali.
Ma tutto questo è possibile solo a condizione di ottenere un successo senza precedenti. Il leader della destra ha bisogno di portare a casa un risultato che renda la Lega ininfluente in caso di elezioni politiche: fra il 43 ed il 45%. Il ragionamento è molto semplice: se il Pdl da solo raggiungesse il 44%, questo significherebbe che non ci sarebbe coalizione in grado di sfidarlo: ipotizzando la lista comunista fra il 3 ed il 4% e Storace intorno al 2%, più un 2% alle liste di dispersione, una eventuale coalizione Pd-Lega-Udc-Di Pietro-Vendola-Radicali partirebbe da un ipotetico 47-48%, ma che credibilità avrebbe un simile minestrone? Il semplice confronto fra un caravanserraglio del genere e un singolo partito dotato –bene o male- di una sua linea politica e di una sua coesione costituirebbe per il Pdl un vantaggio non rimontabile.
Immaginiamo, invece, che il Pdl si attesti sul 40 e la Lega sul 10: complessivamente, la coalizione avrebbe un incremento del 5%, ma, essendo vincenti i due partiti, le rivalità interne si acuirebbero. Per di più, la Lega mostra una notevole aggressività e non sembra volersi accontentare del 10. E segnali di nervosismo vengono già ora: la mossa di Berlusconi sulla riduzione dei parlamentari (tema caro da sempre alla Lega) appare con ogni evidenza come una mossa per arginare l’offensiva leghista e passare al contrattacco. La stessa decisione di sostenere il referendum elettorale depone sul tentativo di stringere la Lega nell’angolo e distruggerne il potere di interdizione.
Dunque, un “misero” 40 o 41% non metterebbe affatto al sicuro il Cavaliere, che potrebbe tentare la carta delle elezioni anticipate nel 2010 ma a prezzo di dover concedere moltissimo alla Lega o esporsi al rischio di una sconfitta contro un cartello Pd-Udc-Di Pietro, con la Lega da sola.
E, dunque, la manovra sarebbe fallita.
A due settimane dal voto sembra che le elezioni europee non debbano riservare sorprese:
– il PdL avanza di qualcosa rispetto alle politiche ma non stravince e si attesta intorno al 40%;
– il Pd cala fortemente (6-7% in meno rispetto alle politiche) ma non tracolla e si porta oltre la soglia del 25% che ne segnerebbe la disfatta;
– la Lega guadagna un punto o un punto e mezzo e supera il 10;
– l’Udc resta più o meno intorno al suo 6% perdendo o conquistando qualcosa;
– unico a registrare un consistente balzo in avanti è Di Pietro che dovrebbe attestarsi fra l’8 ed il 9 (dal 4,5% di partenza);
– Rifondazione è sul bilico del 4%, mentre questo risultato sembra precluso all’avventuroso cartello elettorale vendoliano;
Un risultato un po’ grigio, ideale per tenere il sistema politico nella sua stagnante instabilità (se ci passate l’ossimoro). Ma la partita è davvero così decisa?
A noi sembra che le cose siano molto più fluide e che molto si deciderà negli ultimi giorni –forse nelle ultime ore- prima del voto. In primo luogo è da capire quanti italiani andranno effettivamente a votare e come si distribuirà l’eventuale diserzione delle urne. La campagna elettorale è fredda è noiosa e questo non sembra spingere gli italiani verso un appuntamento elettorale che, per di più, non hanno mai amato troppo.
Sinora il tema più seguito è stato quello dell’esuberanza sessuale dell’attempato capo del PdL, anagrammando il cui nome si ricava “Viso senil lubrico: ci si può divertire ma, insomma, non è cosa su cui possano prendere corpo flussi elettorali particolarmente consistenti. E nemmeno la sentenza Mills ci sembra stia producendo chissà quali mareggiate nell’opinione pubblica.
Solo il 40% degli italiani (stando agli stessi sondaggi) sa che ci sono delle elezioni, quando e per cosa, né le acque sono agitate dalla stitica campagna del Pd.
In queste condizioni, pensare ad una astensione intorno al 30-35% sembra una ipotesi tutt’altro che campata in aria. E non è detto che la cosa colpirebbe il solo Pd. Ad esempio, il diffuso senso di “partita vinta” potrebbe indurre molti elettori del PdL a una giornata di sano riposo al mare. Il risultato finale sarebbe quello di una flessione dei due partiti maggiori a tutto vantaggio delle liste intermedie (Udc, Lega, Idv e Rifondazione).
D’altro canto il Pdl deve vigilare i suoi confini elettorali che rischiano un doppio smottamento: verso la Lega e verso l’Udc. Gli uomini di Bossi sono all’attacco e sono i naturali beneficiari di campagne come quelle sulla sicurezza e l’immigrazione così imprudentemente cavalcate da PdL e Pd. D’altra parte, l’ottimismo berlusconiano sulla crisi potrebbe spingere verso la Lega una parte non piccola di quei lavoratori autonomi che sin qui hanno costituito la “diga” di Forza Italia. E la sentenza Mills potrebbe aiutare i più indecisi a decidere per Bossi, il cui successo potrebbe andare anche ben al di là del 10%.
Ancora più forte l’insidia Udc: il “fattore Veronica” in sé conta poco, ma potrebbe diventare il mantello del “travaso” dal PdL all’Udc, alimentato da una Comunione e Liberazione poco soddisfatta del trattamento riservato a Formigoni e da altre simili questioni. E Cl è fra le poche organizzazioni in grado di far ballare un 2-3% di voti nel giro di una settimana.
Sull’altro versante, Casini può sperare nell’arrivo di parte del voto della “margherita” scontento del Pd. Oggi l’Udc ha un bacino elettorale potenziale che può raggiungere anche il 15%, anche se ciò non vuol dire che questo accadrà. Probabilmente il risultato effettivo resterà molto al di sotto di questa soglia, ma resta da capire quanto al di sotto: l’esito finale potrebbe scostarsi significativamente da quel 6-6,5% che quasi tutti i sondaggi prevedono.
Anche l’Idv potrebbe dare sorprese, sia in senso negativo (raccogliendo molto meno del suo elettorato potenziale) sia in senso positivo, mietendo ulteriori consensi in casa Pd e rosicchiandone altri a Rifondazione ed anche alla Lega.
La lista di Rifondazione e dei comunisti italiani può sperare in una serie di flussi elettorali in entrata (ex voto “utile” al Pd, ripensamento di astenuti ed elettori di Sinistra Critica e del partito di Ferrando), ma deve guardarsi dalla concorrenza dipietrista sinora debolmente contrastata da Ferrero.
Insomma: qui abbiamo circa quattro o cinque milioni di italiani che non sanno se andranno a votare ed altri tre o quattro indecisi fra le formazioni maggiori e quelle minori. Naturalmente è assolutamente poco probabile che tutti questi flussi alla fine si attivino effettivamente; è ragionevole supporre che una buona parte di questi indecisi tornerà al voto precedente e che una parte dei flussi si incroceranno compensandosi a vicenda. Ma se anche la metà di questo bacino di incerti si muovesse, si tratterebbe di una massa pari a circa il 9-10% che potrebbe alterare sensibilmente il risultato determinando scenari politici oggi poco immaginabili. Conviene essere molto prudenti nelle previsioni…