La tesi del “doppio Stato” non è una barzelletta
Il 30 maggio 2009, Marco Clementi ha pubblicato sul quotidiano Liberazione un articolo in cui ritorna sul dibattito sul “doppio Stato” in corso in questo periodo. Questo l’articolo in risposta apparso, sempre su Liberazione, di Aldo Giannuli.
Si sta facendo molta confusione a proposito del “doppio Stato”, sovrapponendo superficialmente significati ed usi dell’espressione. Il termine, come categoria teorica, venne elaborato da Ernst Fraenkel in riferimento alla Germania nazista, venne poi ripreso e usato in senso più generale da autori come Wolfe o, più recentemente, Klitsche de la Grange. Altri (De Felice ed il sottoscritto) hanno svolto una riflessione teorica in riferimento al caso italiano, peraltro con esiti divergenti. Altri ancora (Casarrubbea, De Lutiis, Tranfaglia, Ginsborg ecc.) la hanno utilizzata incidentalmente e con sfumature molto diverse. Infine esiste un uso da caffè dello sport per il quale il doppio Stato, come dice Pier Luigi Battista, è “la chiave per svelare ogni segreto”, il racconto cospirazionista della nostra storia repubblicana, nella quale ci sarebbero stati due apparati statali: uno visibile e legale l’altro coperto e criminale che muoveva i suoi burattini sul teatrino di una finta democrazia. Dello stesso avviso mi pare Marco Clementi (“Liberazione” 30 maggio). Ognuno è libero di scegliersi gli obiettivi della propria polemica e, se si vuol restare sul piano del bar dello sport, lo si può benissimo fare; l’importante è dirlo. Se invece si vuole polemizzare ad un altro livello, occorre mettersi all’altezza dal punto di vista delle conoscenze.
Ad esempio, tanto il lavoro di De Felice che il mio, pur divaricando fortemente, muovono dallo stesso rifiuto di complottismi e dietrologie come strumenti di interpretazione idonei, in particolare in un caso complesso come quello italiano, segnato dalla compresenza di una democrazia vera e vitale con gravi patologie politiche come lo stragismo, la forte corruzione politica, i tentativi di colpo di Stato, ecc. La teoria del “doppio Stato” segnala questa tensione che non vi sarebbe, se la democrazia fosse solo una finzione teatrale, come Battista e Clementi fanno dire ai loro antagonisti. Dunque, essa è il tentativo di superare ogni complottismo per trovare sul piano sistemico una spiegazione dell’accaduto.
Peraltro, non ho mai pensato, detto o scritto che il “doppio Stato” coincida con una qualche organizzazione, istituzionale (come i servizi segreti) o privata (come la P2), legale o illegale, perché esso non è un soggetto ma un processo. Lo Stato duale non consiste neppure in una doppia rete istituzionale, una legale, l’altra segreta e illegale o in una immaginaria “cupola” politico-criminale che tutto dirige e tutto manovra. Semmai è uno stato di fatto nel quale cupole grandi e piccole di politici corrotti, mafiosi, ufficiali sleali, finanzieri corsari ecc possono trovare spazio. E mi sembra di ricordare che in Italia non siano mancati e non manchino né politici corrotti, né ufficiali sleali, né mafiosi, né finanzieri corsari. O vi risulta diversamente? Peraltro, a differenza di De Felice, non credo che il doppio Stato coincida con la doppia lealtà allo stato italiano ed agli Usa. Insomma un organismo come la P2 o il “noto servizio” possono esistere (e sono esistiti), così come comportamenti servili nei confronti degli Usa di interi settori di apparati istituzionali possono verificarsi ( e si sono verificati), ma non vanno scambiati per la sostanza del fenomeno, che va al di là di tutto questo.
A questo proposito conviene essere chiari sino in fondo. Fra i militanti della sinistra è serpeggiato in questi anni un mito autoconsolatorio, per il quale le sconfitte politiche subite si spiegano proprio con l’esistenza del “doppio Stato”, inteso, appunto, come apparati occulti e sovranità limitata dagli Usa. Insomma: se gli altri non avessero giocato sporco, la sinistra avrebbe vinto da un pezzo e sarebbe stata la naturale classe dirigente del paese. Questo è un grave errore che ostacola la formazione di un giudizio storico obiettivo. La sinistra non ha mai superato il 45% dell’elettorato non perché glielo abbiano impedito Gelli, De Lorenzo o Sindona, ma perché non è riuscita a costruire il consenso e la rete di alleanze necessarie e, quando è stata ad un passo dal riuscirvi (fra il 1976 ed il 1979) ha fatto la scelta della solidarietà nazionale, che si è rivelata disastrosa. Avremo modo di discutere in altra occasione le ragioni della sconfitta epocale della sinistra italiana, ma intanto sgomberiamo il campo da questo mito costruito su un uso improprio della teoria del “doppio Stato”.
La rilevanza del tema è un’altra: il giudizio sul funzionamento della nostra democrazia. Quello che è inseparabile dalla fenomenologia dello Stato duale è il funzionamento extra o anti-ordinamentale di alcuni apparati istituzionali. Dunque, non un doppio apparato, ma un modo duplice di funzionare dello stesso apparato. Quello che, mi sembra, ha ricevuto abbondantissime conferme da quel che è emerso sia in sede giudiziaria che parlamentare o storiografica: non si è trattato dell’occasionale devianza di un certo numero di funzionari, alti ufficiali o ministri (quel che accade in ogni epoca ed in ogni paese), ma di disfunzioni sistemiche, per cui la nostra è una democrazia vera, che poggia su un solido consenso popolare, ma presenta delle patologie che vanno analizzate. La democrazia non è l’Immacolata Concezione, per cui può benissimo subire dei processi degenerativi. Saperli riconoscere è il primo passo. La teoria del doppio Stato cerca di fornire un contributo in questo senso, può darsi che sia errata o insufficiente, discutiamone, ma, per cortesia, non fermiamoci agli slogan e cerchiamo di leggere i libri prima di parlarne.
Aldo Giannuli, 4 giugno 2009, Liberazione, pp. 13