L’intervento degli Stati Uniti in Siria e il confronto con la Russia per il nuovo ordine internazionale.

Cari lettori, rinnovo le scuse per la mia prolungata assenza dal sito, ma sono costretto ad un periodo di riposo prolungato. Ringrazio i tanti che mi hanno scritto in questi giorni, state sicuri che mi rimetterò in fretta, ma intanto grazie anche a Lorenzo Adorni, di cui oggi vi invito alla lettura. A presto! A.G.

“Ha attraversato diverse linee per me”. Dopo le forti critiche alla politica delle “linee rosse” di Obama, il commento di Trump al presunto bombardamento chimico Khan Shaykhun, ad opera dell’esercito siriano, suona da subito come un cambio di strategia. 
La linea guida della nuova amministrazione si manifesta anche nella dichiarazione dell’Ambasciatrice Haley al Consiglio di Sicurezza: “Quando le Nazioni Unite falliscono costantemente nel loro dovere di attuare azioni collettive, ci sono momenti in cui gli stati sono costretti ad intraprendere azioni proprie”.

È la formalizzazione del risultato del recente scontro politico interno all’amministrazione americana: la politica dell’“America First” è appena stata seppellita. Ottima come slogan da campagna elettorale, molto meno utile per definire una vera e propria dottrina di politica estera: come sarebbe possibile concepire la potenza statunitense, imbrigliata in sé stessa, quando la globalizzazione e il contesto internazionale offrono l’occasione di una leadership globale, seppur con un ruolo di primus inter pares? Si tratta di prospettive inconciliabili.

La logica dell’“America First” è inadattabile anche con i sei fronti caldi aperti, assai lontani da una soluzione: Mar Cinese meridionale, Nord Corea, Afghanistan, Iraq, Yemen e la stessa Siria. Il giorno in cui riporre l’Hard Power statunitense nel cassetto è ancora distante. Breve è invece il passo che compie Trump dalle dichiarazioni all’intervento militare.

Lasciamo da parte la “teoria” della reazione impulsiva. Quest’azione bellica è stata determinata più da strategie politico diplomatiche che dall’effettiva aspettativa di limitare le atrocità della guerra civile siriana.

Il nodo fondamentale è uno solo: chi porterà le potenze regionali e globali fuori dal conflitto siriano, potrà aspirare ad avere un ruolo guida, all’interno della comunità internazionale, nel prossimo decennio. A Washington questo è ben chiaro. Per l’amministrazione statunitense è quindi indispensabile recuperare un posto fra gli attori che contano. Al punto da arrivare a sgomitare per farsi spazio e sedersi al tavolo siriano. Assicurarsi la possibilità di esercitare un’influenza politica, nella soluzione della crisi, è un aspetto imprescindibile e irrinunciabile. Ridimensionando le iniziative diplomatiche russe di Astana a un ruolo secondario.

Riconquistato un posto al tavolo, il secondo passo è dettare le regole. Concorrere a determinare gli elementi su cui tracciare la strada da percorrere per portare la Siria fuori dalla guerra civile. Le potenze coinvolte, Stati Uniti in primis, sono consapevoli del fatto che alcune delle scelte politiche e diplomatiche che determineranno la risoluzione del conflitto siriano, potrebbero consolidarsi come prassi all’interno della comunità internazionale, trovando applicazione in diversi scenari futuri. Nuovi approcci e nuovi pilastri che potrebbero gettare le basi per la creazione di un nuovo ordine internazionale. Per Washington è quindi fondamentale, non solo sedersi al tavolo delle trattative, ma contribuire a determinarne le linee guida dell’azione politica e diplomatica.

Tra i diversi aspetti, tre risultano essere i pilastri politico diplomatici oggi individuabili.

Il primo è il tentativo di definire il modo di condurre la guerra non interstatale e le relative modalità di contenimento dell’uso della violenza. Nella guerra civile siriana le grandi potenze hanno fallito nel tentativo di contenere l’uso incontrollato della violenza. La guerra ha perso l’ordine e i vincoli tipici dei conflitti interstatali. Il divieto di ricorso alle armi chimiche è quindi il punto di partenza, ma non il punto di arrivo. L’obbiettivo è giungere al contestuale divieto di impiego di altre armi devastanti, come barili bomba o armi termobariche. Definendo inoltre i vincoli alla conduzione di azioni militari nei contesti urbani più popolosi, limitando il coinvolgimento delle infrastrutture civili, come scuole e ospedali, regolarmente presi di mira durante il conflitto. Sono i primi passi di un’azione indirizzata a ristabilire norme limitanti l’uso della violenza incontrollata, settaria e indiscriminata, rivolta nei confronti dei civili siriani.
Sul piano della comunità internazionale si tratta, in via generale, della volontà delle grandi potenze di definire il modo di condurre le nuove guerre non interstatali, alla luce dei conflitti odierni fra stati e attori non statuali. L’obbiettivo è ridurre il rischio che ogni conflitto di questa tipologia possa tradursi in un tentativo di annientamento reciproco e delle rispettive popolazioni.

L’imposizione di limiti non è solo una questione strettamente etica, volta a creare l’utopica aspettativa di un loro rispetto. L’imposizione di limiti è funzionale alla definizione di una soglia oltre la quale le azioni di diplomatiche, a sostegno dei regimi accusati di violazioni, non sarebbero più sostenibili e accettabili da parte dell’intera comunità internazionale. Definendo al contempo nuovi margini di legittimazione degli interventi militari. Si tratterebbe della formalizzazione del superamento del principio di non ingerenza interna.

Il secondo pilastro risiede nella necessità di favorire la conservazione delle entità statali nell’attuale contesto internazionale, come elemento di garanzia della comunità internazionale stessa e come fattore di contrapposizione al caos. Da questo punto di vista, nel teatro siriano sono due gli elementi interdipendenti in gioco: il futuro dello stato e l’assetto politico interno del paese.

L’integrità territoriale della Siria è un elemento su cui le parole di Tillerson e Lavrov descrivono uno scenario di convergenza. Il principio è chiaro, le modalità di attuazione non ancora. Troppo strettamente legate al complessivo assetto politico post conflitto della Siria. Aspetto irrisolto. L’esercito siriano sembra capace di riconquistare solo parzialmente il territorio perso. Talvolta risulta incapace di consolidare le proprie posizioni, nonostante il supporto militare russo. Da sei anni è sotto scacco da parte di instabili schieramenti, formati da una miscela esplosiva di eserciti regolari, milizie, gruppi terroristici e ISIS. Tutte le formazioni in conflitto sono influenzate da potenze regionali, quando non globali. Con le future mosse politiche l’amministrazione americana cercherà di limitare il ruolo dell’Iran nella definizione dell’assetto politico della Siria futura. Circostanza che la Russia potrebbe non accettare, senza una contropartita. La chiave di volta, risiede nel futuro che il dittatore siriano e la componente Alawita potranno mantenere.

Oggi Assad non può più essere considerato un interlocutore da parte dell’Unione Europea e dei paesi occidentali in generale. Domani non potrà più esserlo nemmeno per la Russia, nel momento in cui la Russia stessa tenterà di consolidare il suo ruolo di attore strategico nel Medio Oriente. Le dichiarazioni di Tillerson mostrano un’amministrazione statunitense ferma nella richiesta di rimozione, ma disposta ad attendere il tempo necessario per predisporre una successione ordinata e non caotica alla guida del paese.

Gli Stati Uniti, alla luce dei fallimenti libici, iracheni e afghani, sembrerebbero fissare, con una rinnovata buona dose di realismo, il fattore dell’integrità territoriale dello stato e la sopravvivenza dell’entità statale, come valore preminente. Da parte di Washington sembrerebbe emergere una nuova strategia sul piano internazionale, un nuovo modus operandi per affrontare il fattore delicato che lega la rimozione di dittatori impresentabili da un lato e la necessità di conservazione dell’entità statale dall’altro. Continuando a promuovere operazioni di “regime change”, ma in un contesto ordinato, in modo tale da non lasciare spazi all’emergere di nuove guerre civili o stati falliti. È il tentativo di lasciarsi alle spalle le catastrofi dell’era Bush, così come i vuoti politici e la mancanza di realismo dell’era Obama.

Nel momento in cui si vuole evitare la diffusione di instabilità, destabilizzazione e caos, evitare la creazione di entità statali deboli, o nuovi stati falliti, è una prerogativa irrinunciabile nel contesto internazionale odierno.

Il terzo e ultimo aspetto è la lotta al terrorismo, quale fattore di destabilizzazione della comunità internazionale. Stati Uniti e Russia sembrano convergere anche su questo punto. Il quale però risulta difficilmente raggiungibile. Molto probabilmente non assisteremo a nessuna vittoria definitiva sulle milizie dello stato islamico. Nonostante l’ISIS controlli un territorio, l’ISIS stesso è, e rimane, un attore non statuale. In conseguenza di ciò, il suo modo di condurre il conflitto non lo porterà a intraprendere nessuna battaglia decisiva. Nessun territorio per l’ISIS è indispensabile. Non ci sarà l’assedio “finale”, vinto il quale si potrà parlare di sconfitta chiara e definitiva. Questa milizia terroristica transnazionale, se messa alle strette, eviterà lo scontro insostenibile. Preferendo scomparire dal teatro siriano, per poi ricomparire altrove. A distanza di un tempo oggi non calcolabile.

L’ISIS permane un fattore dirompente sullo scenario internazionale. A partire dal totale disconoscimento di ogni istituto politico e diplomatico, fino a giungere alle attività di cancellazione di interi stati e relativi confini dalla carta geografica. Per entrambe le potenze mondiali, il terrorismo è un fattore che potrà essere sconfitto solo nel medio periodo, da tenere quindi in considerazione ancora per lungo tempo.

Concludendo possiamo osservare come l’intervento militare e diplomatico americano potrebbe concorrere a determinare una via di uscita al conflitto siriano, determinando al tempo stesso, cambiamenti significativi per l’intera comunità internazionale. Tuttavia, esistono due condizioni che potrebbero trasformarlo in un colossale fallimento. La prima è che l’intervento militare del 4 aprile scorso resti fine a sé stesso. Un caso unico. Non replicato di fronte al nuovo uso di armi chimiche o a nuove violazioni del diritto internazionale. Con una conseguente perdita di credibilità per l’amministrazione statunitense. La seconda è che Washington non intraprenda un’azione diplomatica valida, capace di ridefinire le carte in mano agli attori del tavolo siriano. Questo scenario vedrebbe la nuova amministrazione americana incapace di individuare un nuovo ruolo per gli Stati Uniti, in un contesto internazionale multipolare.

In entrambi questi due casi assisteremmo ad un’accelerazione dello scivolamento della comunità internazionale verso il caos. Entreremmo in un mondo multipolare, in cui i tentativi di alcune delle potenze globali di determinare un nuovo ordine internazionale risulterebbero non solo vani, ma potrebbero portare a risultati diametralmente opposti alle aspettative. Accelerando le crisi invece che contenerle. Risultando ininfluenti, se non controproducenti, rispetto l’unico obbiettivo fondamentale realmente condivisibile al giorno d’oggi fra le grandi potenze: il contenimento dell’instabilità e del caos.

Lorenzo Adorni

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Aldo Giannuli

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Comments (39)

  • Non si capisce bene se la lettura del sig. Adorni voglia essere un’analisi oggettiva, un auspicio personale o una via di mezzo fra i due.

    Siccome ogni pacifismo è assoggettamento allo status quo (leggi: al vincitore di turno) e ogni rottura del medesimo passa attraverso crisi più o meno laceranti (come ogni marxista sa o dovrebbe sapere alla perfezione), l’adesione o meno agli auspici dell’autore presuppone un giudizio preciso sull’impero del male, pardon a stelle e strisce, e sul dominio plutocratico che le sue multinazionali d’assalto impongono al resto del mondo.

    E’ significativo che su un blog che si vuole di sinistra si auspichi che la patria del turbocapitalismo si riprenda, e impunemente, da 20 anni di guerre di rapina che hanno sconvolto intere regioni del mondo. I sinistri di 50 anni fa inneggiavano a Ho Chi Min e a Che Guevara, quelli odierni agitano le bandierine a stelle e strsce.

    • @Lorenzo.
      Intanto Ho Chi Min e Che Guevara erano esempi vittoriosi.
      Sui destri di 50 anni fa mi sto convincendo che venivano agitati, per lo più a loro insaputa.
      Se avesse letto attentamente questo blog, saprebbe che a queste latitudini PD significa partito di destra, a causa delle sue politiche.
      Ultima. Boxer non è solo il nome di un motore molto piatto .. e delle bandiere se ne può fare anche un uso personale alternativo ..

      • @Lorenzo – quiz
        I giovani di destra estrema, quando il ricordo della sconfitta bellica era più vivo, agitavano ideologicamente la bandiera:
        a) rossa con falce e martello;
        b) bianca;
        c) gialla e ballavano spensierati;
        d) di blu, bianco e rosso in vario modo colorata?

        • Eh eh, l’osservazione è interessante e il discorso sarebbe lungo, ma c’entra poco con quel che scrivevo. Non volevo dire che i destri siano meglio dei sinistri, volevo rimpiangere la sinistra di un tempo e denunciare l’abisso in un cui è sprofondata.

    • Tenerone Dolcissimo

      Non ti stupire
      Io che sono di destra giorni fa ero ad una manifestazione tappezzata di bandiere rosse e non erano del PD anzi ….

        • Tenerone Dolcissimo

          Non e’ questione del nemico del mio nemico.
          Non solamente questo almeno
          Gli è che da una parte si sono saldati i ceti parassitari della sinistra ed i ceti parassitari della destra
          Dall’altra per reazione i ceti produttivi della destra ed i ceti produttivi della sinistra

    • L’articolo cerca di porre l’accento su aspetti non presi in considerazione nei recenti articoli sull’intervento statunitense. Mettendo da parte le analisi che vorrebbero le azioni di politica estera statunitense sotto scacco del carattere di Trump.
      Forse le problematiche sono un po’ più complesse. Cerchiamo di prendere in considerazione alcuni punti.
      Poi ognuno è libero di avere le sue opinioni.

  • Caro Lorenzo,
    Lei scrive: “Concludendo possiamo osservare come l’intervento militare e diplomatico americano potrebbe concorrere a determinare una via di uscita al conflitto siriano, determinando al tempo stesso, cambiamenti significativi per l’intera comunità internazionale”. Mi domando se l’ingenuità possa non avere limiti.
    Mi spiego. La guerra in Siria è stata concepita negli USA allo scopo di smembrarla in pezzi. Dapprima si ambiva a creare addirittura un Kurdistan che comprendesse Aleppo ed avesse uno sbocco sul Mediterraneo, magari nella provincia di Hatay. Ora che i turchi si sono accorti del fine occulto, a Washington ci si accontenta del piano B, usando Israele via Giordania come sbocco al mare nel nuovo stato. Per far ciò occorre però sottrarre ad Assad il controllo di Deir Ez-zor, centro nevralgico, insieme alle cittadine irachene di Rutba ed Al Qaim, in mano o quasi a Daesh, per rendere possibile la suddetta contiguità fra Kurdistan e Giordania. I “cattivi” di Daesh fungono da pulitori del territorio allo scopo di spianare la strada ai “buoni” curdi e cioè al nuovo protettorato USA. Tale protettorato sarà la base di lancio nei prossimi mesi dell’attacco, magari col pretesto di inseguire Daesh, all’autonomia dell’attuale Repubblica dell’Azerbaijan e forse alla secessione del Kurdistan turco e dell’Azerbaijan iraniano, per accorparli al nuovo protettorato americano.
    Dall’Afghanistan l’esercito USA entrerà in Turkmenistan.
    L’obbiettivo è di chiudere tutti i nuovi cantieri ferroviari tesi a collegare l’Iran alla rete russa e cinese.
    L’ammasso di truppe e armamenti USA nei Paesi Baltici, Polonia, Romania e Ucraina, da una parte, e in Corea del Sud e Giappone, dall’altra, è teso a tener impegnati militarmente Russi e Cinesi contro i vassalli dell’Impero, mentre quest’ultimo colpirà direttamente nel teatro Caspico, per accerchiare l’Iran ed impedire con missili a corto raggio eventuali cantieri.
    Scopo finale: mantenere esclusivo il diritto a emettere dollari a fronte di nulla.

    • @M
      .. e tutto sto casotto para nucleare dal Baltico alla Corea per quattro traversine e due binari?
      Avvisi chi di dovere, che sono a disposione per la bisogna fior fiore di manager delle FS e di Alitalia .. e chissà che non ci scappi pure un Nobel.

      • Gaz, sei un mito, però:
        Ci crederesti che i bolscevichi in Turkmenistan combatterono contro i ferrovieri dello zar che con la “rivoluzione” (ebraica) si erano visti licenziati da un giorno all’altro e di conseguenza erano passati alla lotta armata per riavere il loro lavoro? Ci crederesti che la vittoria dei bolscevichi fu laggiù determinata dagli abili trucchi degli inglesi e che da allora ogni ipotesi di connessione ferroviaria con la Persia e l’Afghanistan è fuori discussione, pena la guerra da parte degli anglosassoni? La parola Heartland ti dice qualcosa? Eppure gli iraniani, che in grande maggioranza hanno profondo disprezzo degli americani e della loro non cultura, giustamente se ne infischiano e sono pronti al confronto sul terreno ora che sanno di poter contare sull’alleanza di russi, cinesi, siriani, libanesi, azeri, kazaki, turkmeni, uzbeki e, addirittura, turchi, indiani e pakistani, cioè tutti quelli che desiderano commerciare avvalendosi delle nuove ferrovie a doppio binario iraniane che faranno della logistica container multi-modale (nave, treno, autocarro) il loro principale business, prima ancora degli idrocarburi. Il porto di Bandar Abbas sta infatti per essere collegato con le reti ferroviarie russa e cinese.
        Ti faccio una provocazione alla Gaz: pensi che chi ha occupato l’Afghanistan lo abbia fatto per prendere Bin Laden?

        • @M
          In più si narra qui oggettivamente dello stesso mito, sibbene in modo diverso.
          Sapevo dell’allergia di quei pirati/piranas alle cose vantaggiose altrui e non mi meraviglia affatto quanto riporti, che per mia curiosità approfondirò.
          Purtroppo il post sull’appalto a Donald è andato fuori posto.
          Penso che in Afghanistan siano andati per far turismo

          • Eppur si muove la locomotiva.
            FS sta costuendo due linee interne AV: Teheran – Hamedan e Qom – Arak.
            Da Wikipedia:
            Azerbaijan
            The Nakhchivan-Tabriz service connects Nakhchivan_(city) with Tabriz and crosses from the Jolfa border. The route used to be a part of Tehran-Moscow railway line which is closed right now due to Azerbaijan-Armenia conflicts.
            There is a railway from Baku to the border city of Astara. From there you can walk through the border to Iran. The railway is going to be joined to Tehran via Rasht and Zanjan.
            Turkmenistan
            There is a daily service between Mashad and Sarakhs border every day. The train does not go further because of the gauge changes. At the other side of the border there is train to Merv and Ashgabat.
            Another railway from Gorgan is currently built up to the Inche Borun border which will continue to Turkmenistan and Kazakhstan.

            Come si dice, l’appetito viene mangiando ..

          • … Ed il cambio di scartamento (standard-russo-standard) potrà essere superato grazie ai nuovi carri ad assetto variabile cinesi. Buon appetito!

    • Grazie M per aver ricordato Deir Ez-zor. Questa città allo stremo, rifornita solo dal cielo, ora pure tagliata in due grazie a bombardamenti americani che hanno tolto difese fondamentali consentendo l’avanzata di Daesh sul corridoio che univa città ad aeroporto, e che tuttavia resiste strenuamente, eroicamente, all’assedio. Centomila uomini che nessuno ricorda, anzi, centomila uomini scomodi, da eliminare. Centomila uomini e due soli giornalisti stranieri, quelli di Anna news, che infatti sono appena stati oggetto di attentato (http://anna-news.info/дейр-эз-зор-игил-охотится-за-военкорам/): non è comodo, infatti, avere giornalisti in zone di guerra che non siano la Goracci. Grazie ancora e
      Ciao!
      Paolo

  • Caro Lorenzo,
    concordo con i primi due interventi. Su Siria ho lavorato un po’ in questi ultimi mesi, con due contributi di cui ti invito a prendere lettura
    https://byebyeunclesam.wordpress.com/2017/03/06/siria-e-donbass-lo-stato-dellarte/
    https://byebyeunclesam.wordpress.com/2017/03/27/gli-yankee-e-la-mossa-del-cavallo-qualcuno-a-washington-usa-il-cervello/
    e con rassegne periodiche di articoli e analisi, perlopiù in russo (ma anche in inglese, basti leggere, ogni tanto, anche southfront.org e veteranstoday.com)
    Frasi come ” La prima è che l’intervento militare del 4 aprile scorso resti fine a sé stesso. Un caso unico. Non replicato di fronte al nuovo uso di armi chimiche o a nuove violazioni del diritto internazionale”, riflettono l’assunto – che si vorrebbe scontato – che le armi chimiche le ha usate Assad. Peccato che non le ha usate lui. Chi lo afferma, ha anche le prove – documentate, visto che la penuria di attori li fa comparire in diverse scene in momenti diversi con ruoli diversi! – che le immagini e i video dei white helmets siano dei fake, chi invece afferma il contrario, finora non ha ancora prodotto uno straccio di prova, producendosi in un avvertimento simil-mafioso che non ha toccato la pista di decollo e con un’ora di preavviso per lasciar lì solo i Mig e i Sukhoi in riparazione, costato al contribuente americano 94 milioni di dollari (mai come gli oltre trecento del programma di suppostoni di cui abbiamo visto recente manifestazione in Afghanistan; azione, peraltro, tesa a far saltare una rete di tunnel creata negli anni Ottanta dalla stessa CIA sfruttando caverne naturali preesistenti).
    Ma la seconda tesi è anche peggiore della prima. Scrivi: ” un’accelerazione dello scivolamento della comunità internazionale verso il caos. Entreremmo in un mondo multipolare, in cui i tentativi di alcune delle potenze globali di determinare un nuovo ordine internazionale risulterebbero non solo vani, ma potrebbero portare a risultati diametralmente opposti alle aspettative. ” Gli USA è da almeno dieci anni che, nel mondo, fallita la loro linea di egemonia, sono passati al “Muoia Sansone con tutti i Filistei” o, come dicono loro, al “creative chaos”. Yugoslavia, Libia, Siria, Yemen, Ucraina, un domani, perché no, Turchia… devo andare avanti?
    In sintesi, Lorenzo, mi dispiace, ti prego di non volermene, ma mi hai fatto venire in mente un mio tema di I superiore di “attualità”. Avevo praticamente ricopiato un articolo della Repubblica, che arrivava in casa, sui recenti fatti di Cecoslovacchia e su Havel (non era ancora caduto il muro ma mancava poco). Lo ritrovai per caso cinque anni dopo, obbligato a far ordine in camera, lo rilessi e mi vergognai come un bambino: neanche VOA avrebbe saputo fare di meglio (non ci vuole molto, in effetti). In altre parole, nell’analisi dei fatti internazionali, andrei quantomeno più cauto nel formulare conclusioni che esprimono, di fatto, il mainstream diffuso da una sola delle parti in causa, sapendo peraltro che la maggioranza del Pianeta che abitiamo non la pensa così (i BRICS ma non solo).
    Un caro saluto.
    Paolo

    • Io tutte queste analisi a favore di Trump e degli Stati Uniti, relativamente all’intervento in Siria, non le ho trovate e di conseguenza nemmeno lette.
      Mi chiedo come si faccia a parlare di mainstream su questa specifica vicenda.
      Anzi ho letto molte critiche di segno opposto.

      • Quindi Trump ha vinto le elezioni per opera dello SS … interessante. Per inciso, mainstream è un pacchetto “all in” (come ormai va di moda dire in qualsiasi campo), che contiene il messaggio principale e, apparentemente, la sua negazione. Un giornalista che seguo sin dai tempi in cui si calava col deltaplano col suo bassotto Nando, ha coniato questo termine, che può piacere o meno, ma che è tuttavia azzeccato, in questo senso: “savianesimo”:
        “Ci si costruisce un piedistallo sostenendo cause di grande consenso, mafia, F-35, possibilmente sottraendole, grazie alla maggiore dovizia di trombe mediatiche, a chi le ha fin lì condotte con competenza e sincerità d’intenti e, completato il basamento, ci si erge sopra come busti del Pincio e si assestano al volgo e all’inclita adoranti le mazzate vere. Tipo: Assad è una belva sanguinaria e i ribelli siriani si immolano per i diritti umani e la democrazia. Senza questi savianei i nazionicidi e sociocidi sarebbero di più ardua realizzazione.” (http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2013/07/il-divino-p4-e-altri-mazzapicchi.html) Vedi, dopo quasi 4 anni dò ancora ragione a Grimaldi e alla sua intuizione. Ci sono molti modi di dire “signorsì” e “comandi”: il savianesimo è uno dei più subdoli e peggiori: “Timeo Danaos, et dona ferentes”, diceva un tale prima di finire immortalato nei Musei Vaticani da una riproduzione d’Autore che vale da sola l’intero biglietto d’ingresso (mi son sempre chiesto quanto è dovuto stare fermo il drago mentre lo scultore scalpellava…). E, si badi, la verità a questo livello non è, non può essere, una questione di gusti. Se i cosiddetti “elmetti bianchi” a due settimane di distanza non hanno ancora prodotto nulla di diverso dai filmati fake apparsi sui social e subito svergognati fotogramma dopo fotogramma (si sarebbe detto un tempo), se gli USA si rifiutano di andare sul “luogo del delitto” come parte di una commissione d’inchiesta indipendente e se invece, come traspare dal tuo articolo, ma non solo, è stato un coro pressoché unanime, è passato il messaggio che l’attacco chimico è stato fatto da Assad, vuol dire che il “mainstream”, il messaggio principale, è passato.
        Ciao!
        Paolo

  • Il problema non è Assad. Il problema è chi garantisce gli Alawiti e i sunniti che lo hanno appoggiato in questi anni dalla loro eliminazione fisica cui tendono le forze di Al Qaeda, Al Nursa e Isis e che mai darebbero garanzie di una convivenza pacifica con gli Alawiti e i sunniti di cui sopra. Quindi Assad garantisce tutto questo e la sua detronizzazione sarebbe l’inizio del maggior regolamento di conti in medio oriente dalla prima guerra mondiale ad oggi.

  • O. T.
    Theresa May, Primo Ministro Inglese, dapprima ha ripetuto ai quattro venti di non volere le elezioni anticipate, poi ha tentennato, infine, con i sondaggi in poppa, le ha fissate per l’8 giugno.
    §§§
    Quando certi regali piovono dall’alto è da maleducati non accettarli.
    Posso assicurare di non essere il suo consigliere politico sulla Brexit.

  • Capirne di politologia italiana non implica capirne di geopolitica. Come dimostra ampiamente questo articolo.
    Leggere affermazioni come, per esempio, quella secondo cui gli Usa concordano sul mantenimento dell’unità siriana, ignorando completamente che da anni finanziano ed armano i separatisti curdi (hanno perfino mandato truppe speciali fra loro, e costruito una base militare nel Kurdistan siriano), implica che si può anche smettere di leggere il resto dell’analisi. Credo che sarebbe un bene se ciascuno si limitasse a parlare di quello che e sa e conosce. Per leggere analisi di questo tipo c’è già “Repubblica”.

    @Orazio: mi incuriosisce il fatto che tutti citino sempre gli alawiti, ma nessuno nomini mai i cristiani, che pure sono il 10% della popolazione siriana, che sono anch’essi messi di fronte all’alternativa “convertiti o muori”, e che mica per caso sostengono il “regime” di Assad.

      • Ciccillo delle Triglie

        Mbe Sig. Adorni mi sembra abbastanza chiaro quello che scrive Dall’Orto. Comunque colgo l’occasione per farle i complimenti per la grafica del suo blog,molto ben fatto,ma non so se sono goffo io ma non ho trovato sul blog suddetto una suo biografia con riferimenti a suoi studi accademici o meno in materia di ” politica internazionale, cyberwarfare, terrorismo intelligence e questioni militari”. Perchè non completa il blog con tali importanti riferimenti? Mi permetto da fruitore di blog di darLe questo consiglio,cosa ne pensa?

    • @Giovanni dall’Orto.
      Assad figlio non era per nulla interessato ad avere il caos in casa.
      In Siria c’era una tradizione di tolleranza rispetto religioso.
      Troppi interessi esterni e troppo potenti per essere concentrati su un piccolo territorio

  • Auguri Aldo!
    Le mosse di Trump potrebbero essere anche solo mediatiche. Ha attaccato un aeroporto siriano con 59 missili, di cui 23 sul bersaglio. Come percentuale di successi, non è un gran che. E gli altri 36, che fine hanno fatto? Inoltre, pare che i siriani abbiano spostato i loro aerei prima dell’attacco. Avvertiti da russi avvertiti dagli americani? La bomba che dovrebbe spaventare i nordcoreani è stata tirata sull’Afghanistan. Qui, come in Siria, ci ha rimesso la pelle solo qualche disgraziato locale che, per la cosiddetta opinione pubblica, conta molto meno degli agnellini pasquali di Berlusconi e Boldrini. Atto di forza o ammissione di impotenza?

    P.S. Lorenzo, per favore, non prendere esempio dai documenti dell’ISPI, che in omaggio al Pensiero Unico, non distinguono più fra dati di fatto, analisi, scenari ipotetici, auspici e proposte politiche.

    • Non ho letto nulla dell’Ispi su questa vicenda, a parte una analisi in “dieci punti” che fra l’altro dice un po’ l’opposto di quello che si dice qui.
      Comunque ritengo l’ispi un validissimo centro studi. Come le classifiche annuali confermano orami da tempo.

      • Non mi riferivo all’argomento ma al metodo espositivo. Ho citato l’ISPI perché effettivamente è uno dei migliori pensatoi italiani e non solo. E quindi, la mia critica va proprio al mainstream intellettuale dominante, che mescola una grande capacità di raccogliere dati e fatti con modelli previsionali falsamente neutrali e con vere e proprie proposte politiche presentate con il linguaggio dell’oggettività scientifica.

  • “Dunque, la Cina sta cercando di uscire dalla sfera valutaria del dollaro e sta facendolo dopo che per anni ha diversificato le proprie esportazioni creando nel mondo mercati di sbocco alternativi che oggi possono sopportare l’assorbimento di quelle merci che evidentemente i cinesi non sono più disposti a cedere agli USA semplicemente perché non vogliono più essere pagati in dollari.
    Ciò detto, guardiamo la cartina geografica e focalizziamo la Corea del Nord: si trova nel crocevia tra Cina, Giappone e sud-est asiatico (e Russia…), cioè precisamente il serbatoio di merci che rischiano di prendere altre direzioni, considerando che la Cina potrebbe fare da apri-pista per altri Paesi limitrofi, dischiudendo anche ad essi nuovi mercati di sbocco alternativi a quello americano.
    Ecco quindi la miscela esplosiva: la necessità per l’America di difendere i “cassonetti della spazzatura” dove collocare dollari in cambio di merci.”

    https://albertomicalizzi1.wordpress.com/2017/04/14/perche-una-guerra-nel-pacifico/

  • Esportare bombe&democrazia è una boiata pazzesca.
    Molto meglio esportare solo le bombe.
    Secondo me la miglior bomba è quella alla crema.
    Ecco la ricetta:

    Setacciare la farina sulla spianatoia, aggiungere un pizzico di sale e lo zucchero. Formare una fontana e versare al centro le uova, l’olio ed il lievito sciolto in poco latte. Impastare il tutto, aggiungendo se necessario altro latte, fino ad ottenere un composto setoso e senza grumi.
    Formare con l’impasto delle palline di circa 4cm, disporle su una teglia imburrata e infarinata, coprirle con un canovaccio e lasciarle lievitare fino a quando avranno radoppiato il volume.
    Preriscaldare il forno a 170°C e infornare per circa 40 minuti.
    Preparare la crema pasticcera
    In una casseruola dal fondo spesso portare a ebollizione il latte con la scorza grattugiata del limone. Togliere dal fuoco.
    Montare in una terrina i tuorli con lo zucchero e incorporare la fecola di patate setacciata, un cucchiaio alla volta. Versare su questo composto il latte caldo, mescolando bene con la frusta.
    Trasferire il tutto nella casseruola del latte e portare ad ebollizione. Abbassare la fiamma e, mescolando in continuazione, lasciare sobbollire per circa 2 minuti.
    Farcire le bombe
    Versare la crema in una tasca da pasticcere con bocchetta piccola e liscia e farcite le bombe.
    Spolverizzare le bombe con dello zucchero a granelli o a velo e servire ancora calde.
    Tratto da allrecipes.it

  • L’interpretazione delle ragioni dell’attacco missilistico sinceramente non mi convincono molto. A me sembra più la resa di un presidente alle pulsioni di una parte della classe dirigente americana che sta cercando di assorbirlo dal momento stesso in cui è stato eletto.

    Da quando c’è stata la “svolta” dell’attacco missilistico anche quell’immenso conglomerato di balle cosmiche del Russiagate è passato – almeno temporaneamente – in sordina, forse anche perché adesso si scopre (da fonti non certo filo-russe come la CNN e il WaPo) che i membri dello staff Trump erano effettivamente spiati da servizi americani (FBI che intercettava Carter Page già a luglio 2016) e stranieri (la conferma data dalla CNN che il GHCQ e altri servizi europei hanno passato a quelli statunitensi diverse intercettazioni di membri dello staff Trump, colti – durante operazioni di intelligence di routine – in conversazione con individui di nazionalità russa controllati dai servizi. In fondo il platinato non era proprio lontano dal vero quando sosteneva che “Obama gli avesse fatto mettere le microspie nella Trump Tower”. Era rimasto indietro di 30 anni sui metodi di spionaggio…).

    Concordo invece sul fatto che gli USA abbiano intenzione di sedersi al tavolo delle trattative sulla Siria anche a costo di sgomitare, ma questo è un obiettivo che stanno perseguendo già da mesi (prima di Trump) con mezzi ben più incisivi che non un attacco missilistico dalla minima efficacia.
    Gli USA hanno consolidato basi aeree nella Siria nord-orientale, a prevalenza curda, hanno incrementato considerevolmente il numero di soldati sul campo (si parla di almeno un migliaio) e stanno supportando l’avanzata delle SDF su Raqqa, con risultati che proprio in questi giorni mostrano segni di maturazione.
    Se riusciranno a sedersi ad un tavolo negoziale sarà prevalentemente grazie al fatto che saranno riusciti di fatto a spaccare in due la Siria, occupando la metà ad est dell’Eufrate tramite “simpatizzanti”. E lo hanno fatto, se non con il consenso, almeno con l’acquiescenza della Russia.
    L’attacco missilistico non ha aggiunto alcunché a quanto già ottenuto, mentre al contrario ha causato aspre e reali frizioni con Mosca, con il risultato della sospensione del Deconfliction Protocol, che ha spinto gli USA a ridurre i voli militari sui cieli siriani (cioè: ha prodotto effetti tangibili).

    La mia impressione è che l’attacco con i Tomahawk non sia parte di una strategia lucida e coerente, ma che sia invece la manifestazione dell’esplodere di tensioni, pressioni e lotte intestine che vanno avanti da mesi, lasciate deflagrare alla prima occasione utile, con una fretta di per sé sospetta.

    A Washington ci sono individui e gruppi di pressione che non si accontentano di una soluzione diplomatica della crisi siriana, ma che sono invece determinati ad ottenere una vittoria inequivocabile sulla Russia, e a ripristinare, sul piano dell’immagine e su quello dei fatti, il ruolo di predominio statunitense in Medio Oriente e nel mondo.
    Si veda ad esempio l’articolo pubblicato sul WaPo dal sempreverde Robert Kagan e intitolato “It’ll take more than a missile strike to clean up Obama’s mess in Syria”.

  • Non mi è molto chiaro perché la permanenza di Assad sia un argomento ormai non negoziabile per gli Usa o per la Ue.

    Magari mi sbaglio, ma queste questioni si discutono diplomaticamente dopo che una delle parti in causa riesce a imporre la propria volontà.

    Visto che in questo caso nessuno lo ha fatto al 100% (men che meno Ue e Usa) la prospettiva di rimuovere Assad sarebbe percepita come una resa russa. O mi sbaglio?

    Per quanto riguarda il principio di divieto all’uso di armi chimiche mi trova d’accordo: il carattere strumentale della pretesa sarebbe evidente anche senza pensare a Falluja.

    Buon lavoro e perdoni tutti, siamo dei ragazzacci.

    • Secondo me la condizione dell’abbandono del potere da parte di Assad non è negoziabile per certi elementi della classe dirigente americana perché la sua permanenza, nella storia degli ultimi 25 anni, rappresenterebbe un precedente unico di regime change che fallisce per la resistenza del soggetto da deporre, anche grazie al supporto di Paesi che si configurano come avversari geopolitici degli USA a livello regionale e globale.
      Sarebbe cioè la prima volta dalla caduta dell’URSS che qualcuno dice “no” agli Stati Uniti riuscendo a negare la loro volontà e il loro unilateralismo. E come impero in fase di ridimensionamento hanno una terribile paura di apparire deboli.

      Allo stesso tempo, probabilmente gli USA preferirebbero poter installare un governo mite e arrendevole che sia loro “amico” (che nella loro lingua vuol dire “subordinato”).

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