“Il segreto di Piazza Fontana” di P. Cucchiarelli: analisi del testo

Il libro di Cucchiarelli, è il risultato di oltre dieci ani di lavoro. Il libro è diviso in tre parti narrative: la prima sostanzialmente dedicata ad un attento scandaglio di perizie, verbali, rapporti di polizia giudiziaria e stampa d’epoca; la seconda in cui l’autore avanza una sua ipotesi di come sia andata la vicenda della strage; la terza, nella quale si rileggono i casi Feltrinelli e Calabresi alla luce delle risultanze precedenti.

La prima parte costituisce un lavoro assolutamente prezioso che fa riemergere tanti particolari passati ormai nel dimenticatoio dopo la lunga serie di inchieste giudiziarie e parlamentari che anno accumulato molte migliaia di documenti per oltre 1 milione di pagine. Diverse riflessioni sul tema dell’esplosivo aprono la strada a sviluppi investigativi di notevole rilievo che maturano in particolare nella terza parte, quella in cui si parla di Calabresi e Feltrinelli. La parte più debole, lo diciamo subito, ci pare la seconda che propone una spiegazione della vicenda che qui di seguito riassumiamo in breve.

il-segreto-di-piazza-fontana1- L’ipotesi di Cucchiarelli

La strage fu ideata al gruppo veneto di Ordine Nuovo; la bomba fu preparata dai finti anarchici –in realtà fascisti- e consegnata a Valpreda da provocatori di cui egli si sarebbe ingenuamente fidato. All’anarchico venne raccontato che la bomba serviva ad un attentato dimostrativo e che era azionata da un timer a due ore, in modo da esplodere a banca chiusa, senza fare vittime. Invece, il timer aveva una corsa di soli 60 minuti per esplodere a banca ancora aperta.  Valpreda, prese effettivamente il taxi di Rolandi e depose la borsa con la prima bomba, e ripartì con lo stesso taxi.  Un fascista piazzò a fianco a quella di Valpreda, un’altra borsa con una seconda bomba azionata a miccia. Essa fece esplodere prima la bomba di Valpreda e ne raddoppiò la potenza. A collocare il secondo ordigno sarebbe un sosia di Valpreda (forse il fascista Claudio Orsi) giunto sul posto con un altro taxi e ripartito, probabilmente, con una Giulia rossa guidata dal fascista Nestore Crocesi. Contemporaneamente, altri giovani anarchici avrebbero collocato altre due bombe che però non esplosero probabilmente grazie all’intervento di Pinelli che le avrebbe segnalate alla polizia. Il ferroviere, per non tradire i compagni autori dei due falliti attentati, avrebbe poi fornito un alibi falso.

L’ipotesi di Cucchiarelli sottolinea come anche la corte catanzarese di primo grado che condannò Freda e Ventura, assolse Valpreda solo per insufficienza di prove, lasciando dunque aperta la porta all’ipotesi di una partecipazione mista di fascisti ed anarchici alla strage. All’epoca si parlò di una ipotesi “Val-Freda” che oggi in qualche modo torna nell’inchiesta di Cucchiarelli, pur con una variante decisiva: la strage resta puramente fascista, nella sua ideazione, come nello schema dell’istruttoria Salvini, e gli anarchici, primo fra tutti Valpreda, avrebbero partecipato materialmente alla sua realizzazione, ma solo perchè ingannati. Insomma una ipotesi che si colloca a tre quarti di strada dall’ipotesi Val-Freda e ad un quarto da quella di Salvini. Come si sa, questa ipotesi di ricostruzione ha suscitato reazioni piuttosto vivaci a sinistra, dove è parso inammissibile rimettere in discussione “la pista anarchica” che sembrava definitivamente sepolta. Ma, a differenza della storia sacra, di per sè immutabile, la storiografia scientifica non conosce verità intangibili, per cui, in presenza di documenti nuovi ed importanti, non si può reagire con una scrollata di spalle ma occorre entrare nel merito delle proposte di revisione e farlo con tutta la laicità necessaria. Entriamo dunque nel merito dei punti su cui siamo in dissenso.

2- Valpreda ed il taxi.

Cucchiarelli assume che Rolandi, pur fra errori e contraddizioni, sia stato un teste “fragile ma genuino” (p.191), magari un po’ strattonato da carabinieri e polizia che ne avrebbero forzato la deposizione. Per cui il suo passeggero era effettivamente Valpreda. Resta, però, da spiegare perchè il ballerino abbia ritenuto di prendere un taxi per un percorso di qualche decina di metri, per poi riprenderlo per un percorso di altri 150 metri. Anche il più sprovveduto ragazzino avrebbe compreso che la cosa non sarebbe passata inosservata e che, all’indomani di un attentato, pur senza vittime come l’ipotetico Valpreda del racconto avrebbe pensato,  era evidente che c’era l’elevato rischio di un testimone che potesse indicarlo alla polizia.

La prima spiegazione di quel comportamento irrazionale fu quella dei postumi del morbo di Burger di cui aveva precedentemente sofferto. Ma la cosa non resse a lungo: Valpreda aveva un’auto sua, per cui non si capisce che bisogno avesse di un taxi e perchè dovesse prenderlo quando era quasi arrivato a destinazione. Per quanto riguarda il morbo di Burger, ne era guarito al punto di riprendere a ballare e lo stesso Rolandi, nel suo ultimo verbale, sosterrà di averlo visto scendere dalla sua auto “con passo bersaglieresco” (p. 192), il che –se pure il suo passeggero fosse stato effettivamente Valpreda- non va molto d’accordo con l’idea di un uomo che solo pochi minuti prima aveva dovuto prendere un taxi per degli improvvisi crampi.

Personalmente posso attestare che, in una sera del 1999, ho  percorso a piedi con Valpreda tutta via Moscova, sino alla libreria Utopia, e l’ho visto camminare normalmente senza segno di sofferenza o soste. E parliamo di un Vapreda più vecchio di trenta anni.

Il libro suggerisce un’altra ipotesi sulla base di una testimonianza (Mister X di cui parleremo): qualcuno avrebbe detto a Valpreda di prendere il taxi per ridurre al minimo la presenza in piazza, dove avrebbe potuto essere riconosciuto, dandogli anche 50.000 lire (p.183). Bel modo di non farsi notare! E l’anarchico se la sarebbe bevuta, senza sospettare nulla. Avendo conosciuto Valpreda, posso dire che in molte cose era un ingenuo, ma non un imbecille. Ancor meno convince che questo possa essere compatibile con un Rolandi “teste fragile ma genuino”: volendo incastrare qualcuno, si ha cura di predisporre una serie di falsi testimoni e non ci si può affidare ad un teste occasionale, come un taxista qualsiasi, che magari potrebbe non farci caso, non saper riconoscere il suo passeggero o aver paura di andare alla polizia. Dunque, o il passeggero (chiunque esso fosse) ha preso quel taxi di testa sua, e dunque i fascisti non potevano prevederlo e tanto meno calcolarne gli effetti, o lo ha preso su indicazione di qualcuno che, probabilmente, era d’accordo con il taxista. Si noti, peraltro, che nessun altro teste (impiegati, uscieri, clienti della banca) ha mai riconosciuto il ballerino anarchico fra le persone che erano entrate nel salone poco prima dello scoppio. Se questo è spiegabile in un primo momento, quando Valpreda avrebbe potuto esser confuso con un cliente qualsiasi, che non aveva attirato alcuna attenzione, è però meno spiegabile dopo il riconoscimento di Rolandi e quando la foto di Valpreda era comparsa su giornali e Tv. Possibile che a nessuno fra i superstiti dell’attentato sia rivenuto in mente quel volto? Eppure Valpreda, per età, vestiario , modo di pettinarsi ecc. non era omogeneo ai frequentatori di quella banca, in massima parte piccoli impresari agricoli lodigiani o brianzoli. A questo si aggiungano le note vicende che portarono la corte a non accettare la sua deposizione (le ritrattazioni, la vicenda della foto mostratagli prima, ecc.) e si capirà che ce n’è abbastanza per dubitare seriamente della sua “genuinità”.

2- Il sosia.

Il punto più debole della ricostruzione è quello relativo alla contemporanea presenza sul luogo del delitto sia di Valpreda che di un suo sosia (Caludio Orsi o Nino Sottosanti che fosse). Un sosia si utilizza per creare la sensazione che una persona sia in un determinato posto in un certo momento, ma, se il “capro espiatorio” è presente in persona nel luogo e nel momento voluto, il sosia a che serve? Anzi è un impiccio, sia perchè potrebbe essere notato dalla vittima della macchinazione, sia perchè dopo bisogna darsi da fare per farne sparire le tracce. E, infatti, lo stesso Cucchiarelli (170-1) dice che si dovettero fare “giochi di prestigio” per occultare la presenza del sosia e del secondo taxi per non far nascere sospetti. Ed, allora, perchè creare questa inutile companella? Questa è la prova migliore che Valpreda, in quel pomeriggio, a Piazza Fontana non c’era. Oppure possiamo provare la strada inversa: c’era Valpreda ma non il sosia che non serviva a nulla se non a complicare le cose. Ma se il sosia non serve, non serve neppure il secondo taxi: peraltro avendo la possibilità di andare sul posto con un’auto privata, per quale motivo prendere un taxi a rischio che il taxista possa diventare un teste? Effettivamente, c’è un secondo taxista, tale Pierino Bartomioli (p. 167) che segnalò uno strano passeggero, ma la cosa non ebbe particolari sviluppi ed ancora oggi l’indicazione non appare molto precisa e suscettibile di particolari sviluppi. Anche qui: un secondo taxi appare più come un inutile impiccio di cui ci si dovrà liberare dopo.

3- – La doppia bomba.

C’erano due bombe? Perchè? Effettivamente l’esame dei reperti pone problemi da risolvere (i frammenti delle borse che avrebbero contenuto gli ordigni, la “doratura” della parte esterna delle cassette metalliche ecc.), però: che bisogno c’era di duplicare anche i meccanismo dell’inganno? Pensiamo alla Banca dell’Agricoltura: se abbiamo dato a Valpreda un ordigno con il timer truccato in modo che esploda 1 ora prima di quanto non sembri, che bisogno c’è di andare a mettere un’altra bomba che funzioni da attivatore? Basterebbe il timer. O, al contrario, che bisogno c’è del timer truccato se abbiamo deciso di far saltare tutto in aria con una seconda bomba che deve solo potenziare l’esplosione? Ancora meno convince che questa seconda bomba sia azionata a miccia: occorre accendere la miccia sul posto col rischio di farsi notare, poi qualcuno potrebbe scorgerne il fumo. Per la verità il libro riporta la dichiarazione di un teste ad un giornale del tempo, che dichiara di aver effettivamente visto del fumo uscire da una borsa, ma non si capisce come mai abbia trovato la cosa normale e non l’abbia segnalata al personale. In fondo, nessuno di noi, vedendo del fumo da una borsa o da sotto un tavolo penserebbe che ciò sia normale e, anche senza pensare necessariamente ad una bomba, cercherebbe di capire cosa sta andando a fuoco. Non si tratterà di una suggestione ex post di un teste shockato dal fatto? In ogni caso: non c’era alcuna garanzia che la cosa passasse inosservata e, dunque, non si capisce come mai gli attentatori, che potevano benissimo predisporre un’altro detonatore con timer abbiano scelto una strada così insicura.

4- Doppio tutto.

Secondo la ricostruzione di Cucchiarelli, non solo a piazza Fontana, ma anche in altri luoghi degli attentati di quella giornata ci sarebbero state due borse e due bombe. In alcuni posti (come all’Altare della Patria) non sarebbe stato possibile affiancare la seconda borsa (quella cattiva) per cui la strage sarebbe stata mancata.

Non si capisce perchè i fascisti avrebbero dovuto complicarsi la vita in questo modo. Se l’obiettivo era quello di seminare altre bombe analoghe per dare la sensazione di un vasto piano eversivo, c’erano altri cento modi meno macchinosi e , soprattutto, meno rischiosi:
– si sarebbe potuto dare ai giovani anarchici ingannati bombe truccate come quella che sarebbe stata data a Valpreda
– si sarebbe potuto dare agli anarchici bombe-petardo e poi collocarne altre, in altri luoghi aventi le stesse caratteristiche (borsa, cassette, timer eccetera) ma con ben altro potenziale
– si sarebbe potuto farne trovare altre ancora destinate a non esplodere (come quella del “modello Comit su cui si sofferma utilmente il libro).
Ogni raddoppio (di uomini e di cose) porta con sè un raddoppio di rischi di essere identificato o lasciare tracce, di avere un incidente  o che qualcosa non funzioni in  modo sincronizzato (e, infatti, stando a “Mister X” all’Altare della Patria non fu possibile collocare le seconde bombe). Dunque, non si capisce quale vantaggio veniva ai fascisti da un piano che avrebbe fatto impazzire anche Pico della Mirandola.

5- Due parole su Russomanno

Il nome di Russomanno richiama alla memoria una vicenda di cui ho detto nel mio libro “Bombe a inchiostro” che qui sintetizzo:
Il 5 marzo era comparsa sul “Corriere della Sera” una intervista di Giorgio Zicari a Serafino Di Luia che dichiarava:

<< Merlino  è stato mandato fra gli anarchici e la persona che lo ha plagiato è la stessa che fece affiggere il primo manifesto cinese in Italia… A Milano c’era gente disposta a pagare per far mettere delle bombe e la proposta venne fatta anche a Lotta di Popolo>>

L’allusione al capo dello Uaarr Federico Umberto D’Amato era  trasparente.
Queste dichiarazioni provocarono forte preoccupazione al Viminale, come dimostra questo appunto interno dello stesso 5 marzo:

<< Nel quadro dei tentativi che la stampa dell’estrema sinistra compie quotidianamente di spostare la responsabilità dei più gravi attentati dai gruppi anarchico-contestativi a quelli neo fascisti o, comunque, di attribuire a questi ultimi la reale direzione delle ondate terroristiche, è da collocare la vicenda di Serafino Di Luia, del quale il “Corriere della Sera” pubblica oggi un’intervista. E’ infatti ovvio che dai giornali comunisti le notizie concernenti estremisti presunti attentatori rimbalzano anche agli altri quotidiani d’informazione, che ne sfruttano l’attualità.>>

Il maldestro tentativo odorava di panico  e la cosa diviene evidente leggendo un appunto di pochi giorni dopo:

<<  Il Questore di Bolzano comunica che i fratelli Bruno e Serafino Di Luia, …dopo l’intervista concessa al giornalista Zicari del “Corriere della Sera”, si sarebbero recati prima a Monaco di Baviera e poi in Austria, dove dimorano. Detti fratelli hanno incaricato un loro conoscente di prendere contatti con la Polizia italiana del Brennero (dott. Ruggieri) per far sapere che, qualora non perseguiti da alcun ordine di cattura o circolare di ricerca, sarebbero disposti a venire in territorio italiano per incontrarsi con qualche funzionario di Ps al quale intenderebbero fare rivelazioni interessanti sui recenti attentati dinamitardi commessi a Milano e anche su quelli della famosa “notte dei treni”. I fratelli Di Luia, com’è noto, allo stato attuale non sono ricercati dall’Ag.
Si potrebbe accedere alla loro proposta invitandoli a presentarsi all’Ufficio di Ps del Brennero dove potrebbero recarsi ad attenderli il V. Questore dott. Provenza, Dirigente l’Ufficio politico della Questura di Roma, ed il V. Questore dott. Russomanno di questa Divisione. >>

Russomanno si recava al Brennero il 10 aprile successivo3. Sfortunatamente, non sappiamo cosa si siano detti perchè la relazione di servizio che certamente Russomanno ha fatto è risultata introvabile. Visto che era così ben disposto a parlare, magari avrebbe potuto darci quella relazione che abbiamo inutilmente cercato nelle carte del Viminale e che ci piacerebbe tanto leggere.

6- La parte migliore del libro

La parte migliore è certamente la terza dove si rinviene un filo investigativo molto importante che porta da piazza Fontana (ma in realtà anche da prima, da episodi come l’attentato all’Alpen Express nella stazione di Verona nel 1967) sino a Feltrinelli, Calabresi e anche oltre. La pista è quella del traffico di esplosivo e di armi che va dall’Olanda a Venezia-Trieste per poi sfioccare fra gli ustascia croati e l’Eoka cipriota di Grivas. Rilevantissime sono le pagine sull’attentato alla scuola slovena. Questo flusso di armi ed esplosivi è passato per alcuni Nasco ed ha incontra personaggi importanti. Ad esempio molto ci piacerebbe sapere del viaggio a Trieste del commissario Calabresi pochi giorni prima di morire. Anche qui Russomanno se la cava con pochi monosillabi di assenso senza dire le troppe cose che certamente sa, ma non ha mai detto. Nè a noi nè ai magistrati. Cucchiarelli individua correttamente anelli che erano sfuggiti ad altri e sui quali avremo modo di tornare e (anche se qui e lì si rende opportuna qualche rettifica di tiro) apre lo spazio ad ipotesi investigative assai rilevanti che potrebbero portare ancora più in là, sino a Brescia e (perchè no?) sino a Bologna. Forse è un peccato che questa parte venga alla fine del libro, dopo 170 pagine di minuzioso lavoro sui reperti che mettono a dura prova la pazienza del lettore non specialistico e dopo altre trecento dedicate ala parte meno riuscita. D’altra parte l’ovvia eco suscitata dalla ricomparsa di Valpreda, tutto rischia di essere messo in ombra da questo ingombrante ed azzardato scoop.

8- Una questione di metodo: falsi riscontri, echi ed effetto di trascinamento.

Sia il magistrato che lo storico conoscono la classica insidia dell’eco: io dichiaro alla polizia che che Marco era in piazza alle 16, poi, nel corso di una perquisizione ad Armando –che non mi conosce e che non conosco- viene trovata una lettera di Claudio, nel  frattempo deceduto, che dice che Marco era in piazza alle 16: la mia affermazione è riscontrata. E invece no: io avevo detto la cosa a Giovanni che  lo aveva ripetuto a a Maria –che io non so nemmeno che esista- che, a sua volta lo disse a Claudio: dunque la fonte sono sempre io e la lettera di Claudio non è un riscontro ma un’eco delle mie affermazioni, anche se magari Claudio ne ha scritto come se avesse assistito di persona alla permanenza di Marco in piazza quel giorno.

Molte volte accade che una cosa sia scambiata per l’altra. Per evitare questo rischio, è necessario fare due cose:
a- critica della provenienza (la fonte che consideriamo era effettivamente in grado di conoscere quel particolare direttamente? ad es. Se quel giorno Marco era a Milano e Claudio a Palermo è evidente che Claudio può averlo saputo solo da una terza persona, dobbiamo scoprire da chi)

b- conseguentemente, ricostruzione dei flussi informativi ( da chi lo ha saputo Claudio? Scopriamo che fu Maria. E Maria come lo seppe? Da Aldo. Ergo la fonte è sempre e solo una. Niente riscontro).

Ovviamente, se la catena si interrompe  e non è possibile risalire a chi conosca il fatto per “conoscenza diretta” l’elemento indiziario, pur da considerare comunque, avrà un valore molto più basso. Questo suppone che dobbiamo essere in grado di conoscere la fonte da cui ci viene la notizia. Un disturbo simile all’eco è “l’effetto di trascinamento”: in occasione di casi particolari, caratterizzati da un evento particolarmente traumatico  (una rapina, un attentato, scontri di piazza ecc.) e dalla presenza di una notevole quantità di testimoni,  l’elemento suggestivo può giocare un ruolo accentuato. Ad esempio, se un teste dichiarerà (magari sbagliando) che alla guida dell’auto con cui sono fuggiti i rapinatori c’era una donna, è probabile che altri due o tre testi sosterranno non solo che c’era una donna, ma di aver osservato che era bionda e con una sigaretta fra le labbra. Non necessariamente si tratta di persone in malafede o di mitomani, è possibile che il primo teste abbia avuto la sensazione di aver visto una donna, magari perché il guidatore aveva capelli lunghi e magari un aspetto efebico, gli altri ne subiranno la suggestione ed, in perfetta buona fede, aggiungeranno altri particolari: bionda, magari perchè così si presenta nel loro ricordo alterato, col la sigaretta fra le labbra perchè, magari, al “ricordo” si sovrappone l’immagine di un film. E così via. Anche per questo, le testimonianze vanno sempre vagliate comparativamente e confrontate con i reperti.

9: In particolare: l’utilizzabilità di mister X

Un pilastro rilevante dell’ipotesi di Cucchiarelli è la testimonianza all’autore di “Mister X”, questo dirigente della destra extraparlamentare del tempo, indottosi a parlare solo ora, ma nell’ombra dell’anonimato. Ricordo che una ventina di anni fa Claudio Gatti pubblicò un libro intitolato “Resti fra noi” costruito sulle testimoniante di diversi agenti della Cia operativi a Roma in epoche diverse ed identificati come “Mister one”, “Mister two”, “Mister three”… Ovviamente la cosa sollevò molta ilarità: chi erano? Cosa avevano effettivamente detto? Chi ci garantiva che esistessero davvero e tutti, avessero le qualifiche attribuite ed avessero detto effettivamente tutte le cose attribuitegli? E se anche uno solo fosse stato inventato dall’autore? E gli stessi intervistati avrebbero potuto riconoscersi nel rispettivo numero? E se le loro dichiarazioni fossero state manipolate, mischiate, interpolate? Se anche uno di essi avesse riconosciuto la sua intervista e gli eventuali errori o falsi contenuti, non potendo farsi identificare, di conseguenza, non avrebbe potuto smentire o rettificare nulla. Dunque, quel libro non ha alcun valore documentario ed, infatti, nessuna persona seria lo cita.

In questo caso abbiamo una sola intervista anonima e, peraltro, si intreccia con una serie di altre interviste e documenti. Peraltro, conosco personalmente Paolo Cucchiarelli, lo stimo e ne so la correttezza professionale, per cui non ho dubbi che  abbia effettivamente intervistato “mister X”. Ma questo non basta. In primo luogo perchè altri che non conoscono l’autore e la sua serietà professionale potrebbero avere gli stessi dubbi che avevo io nei confronti di Gatti. In secondo luogo perchè, pur conoscendo la pignoleria di Paolo e la sua correttezza, non posso escludere che il racconto di “Mister X” possa essere stato riportato erroneamente o anche in modo da produrre, pur involontariamente, fraintendimenti in chi legge e ”Mister X” non può rettificare o spiegare.

In terzo luogo, e questo è il punto più importante, perchè se non so chi è non riesco a fare quelle operazioni di “Critica della provenienza” di cui dicevo prima. Anzi non sono neanche in grado di capire sino in fondo le informazioni che ricevo da questa fonte. Insomma, un conto è se “Mister X” è un dirigente di On come Pino Rauti, un altro conto è se si tratta di Delle Chiaie che dirigeva An ed odiava quelli di On, un altro ancora è se si tratta di un gregario o di un ex passato a sinistra. Ciascuno potrebbe avere moventi diversi, dunque, conoscere l’identità della fonte è premessa necessaria per decodificare correttamente il suo messaggio. Soprattutto occorre stabilire se la fonte ci sta dicendo  qualcosa di cui sa per averle conosciute direttamente in prima persona o se riferisca un “de relato”. Nel nostro caso è poco probabile che l’intervistato possa  ammettere di conoscere le cose per conoscenza diretta, perchè così ammetterebbe una sua partecipazione personale alla strage, dunque, probabilmente dirà di averle apprese da altri e magari di seconda o terza mano. Ma, in questo caso, che valore avrebbe la sua testimonianza? Dovremmo, o stabilire la partecipazione diretta dell’uomo ai fatti narrati –quel che non è possibile fare senza sapere di chi si tratta- ,o risalire alle sue fonti sino ad arrivare a chi conosceva i fatti direttamente, ma anche in questo caso, se non sappiamo di chi si tratta, il tentativo non può neanche partire.

Peraltro, è del tutto evidente che una simile testimonianza non sarebbe neanche presa in considerazione in sede processuale o di inchiesta parlamentare. Ed anche in sede storiografica,  il riconoscimento del valore di una testimonianza del genere non sarebbe accettata da nessuno storico. Può darsi che io subisca la deformazione professionale che mi viene dall’essere storico, consulente giudiziario e di commissioni parlamentari di inchiesta, ma non posso accettare una testimonianza del genere che, personalmente, non avrei neppure riportato nel libro. Dunque, per questa serie di ragioni, la testimonianza di “Mister X” possiamo considerarla tam quam non esset.

10: errori ed imprecisioni, il caso Raptis.

Anche il libro più curato porta con sè una serie di errori, svarioni, sviste ed imprecisioni. Nel mio libro (“Abuso Pubblico della storia” ne infilo tre madornali: a p. 187 sembra che l’India sia tutt’ora impegnata  nella guerriglia tamil nello Sri Lanka (in realtà se ne è ritirata  già nel 1990), a p 253 faccio uno svarione per cui sembra che l’Inkhata sia una nazionalità distinta da quella degli Zulu (di cui è, invece, il partito politico) e, peggio di tutto, parlo di 44 anni continui di pace in Europa dal 1748 al 1792 (dimenticando la guerra dei sette anni dal 1756 al 1763, mentre quel periodo riguarda la sola italia): la stanchezza di fine lavoro, la fretta, un ricordo errato e non controllato sono sempre in agguato e quando un libro ha un numero di errori che non supera il 5% del numero delle pagine può ritenersi un libro molto curato. Purtroppo è così. Dunque, ammettendo le mie pecche, non voglio fare la lezione a nessuno, Peraltro il libro di Cucchiarelli ha un numero contenuto di errori o imprecisioni (al di sotto del fatidico 5%), ma se per alcune cose si può passare la mano leggera (ad esempio, nel capitolo sulla guerra fra cordate politico-informative ed in quello sulla crisi diplomatica con la Grecia, potrei segnalare diverse imprecisioni), su un punto mi tocca segnalare un curioso pasticcio che tocca un personaggio che proprio non lo merita. A p.  472-3 si riprende il discorso che riguarda il contatto fra Michel Raptis e Pino Pinelli, riciclando cose scritte a suo tempo da Marcello del Bosco sulla base di informazioni molto approssimative e infondate per cui Raptis sembrerenbbe un provocatore a servizio del colonnelli greci. Poi  se ne riparla a p 586 utilizzando documenti che ho trovato io nell’archivio della via Appia ma usandoli in modo non del tutto esatto. Poi a p 678, in una nota, si danno informazioni biografiche su Raptis dalle quali è possibile desumere che non fosse un provocatore. Avendo conosciuto e bene Michel Raptis mi corre l’obbligo di precisare il punto evitando che possa essere infangata la memoria di un personaggio di grande valore politico ed intellettuale che ha rappresentato cose significative nella sinistra europea. Raptis (Pablo il suo nome di battaglia) non era assolutamente un agente dei colonnelli greci ma un loro fiero oppositore, aveva partecipato alla Resistenza e, nel 1969, stava lavorando con Andreas Papandreu allo sfortunato tentativo di costituire un esercito di liberazione dai colonnelli greci. La notizia del suo passaggio milanese venne catturata impropriamente negli ambienti del Pci milanese (dove forti erano ancora gli echi stalinisti per cui la parola trotskijsta era una bestemmia che autorizzava i peggiori sospetti) e si tradusse nel pasticcio del libro di Del Bosco. Ma a distanza di trenta anni certe confusioni non sono più consentite (comunque, più avanti, pubblicherò un cenno biografico di Pablo).

Aldo Giannuli, 12 giugno ’09

La risposta di Paolo Cucchiarelli alla scheda di Aldo Giannuli.

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Aldo Giannuli

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