Perché Sciascia è caduto nel dimenticatoio?
A novembre scorso è caduto il 25° anniversario della morte di Leonardo Sciascia: pochissimi e freddi i ricordi, così come era stato 5 anni fa per il ventennale. Nelle librerie si fa fatica a trovare i suoi libri. Raro che il suo nome ricompaia in trasmissioni televisive o che siano dati i film tratti dalle sue opere.
In parte questo è da attribuire ai meccanismi perversi dell’industria culturale degli ultimi anni: un autore defunto ormai non interessa un editore, che, a meno che l’autore non sia nei testi scolastici, punta al “nuovo Manzoni” da lanciare ogni anno, e dal quale si spera il grande boom –sin che dura-.
E’ la logica con la quale una ventina di anni fa si affacciò un nuovo grande astro della nostra letteratura: Susanna Tamaro (sic!!). Mentre moltissimi autori di notevole livello del Novecento finiscono dimenticati: da Montale a Morselli, da Bacchelli a Moravia e Morante (ma in questo ultimo casi non è un danno) da Bufalino a Fortini, da Brancati a Volponi, da Calvino appunto a Sciascia.
C’è anche una precisa ragione di strategie editoriali: la Sellerio, ad esempio, attualmente si rivolge ai lettori con Camilleri, per cui Sciascia gli toglierebbe spazio. In fondo, se Camilleri è “il nuovo Sciascia” che ce ne facciamo di quello vecchio? Camilleri merita e molto, ma perché non rilanciare Sciascia con una promozione accoppiata? Quindi in parte questo è il tritacarne editoriale a produrlo. Ma nel caso di Sciascia c’è qualcosa di più preciso.
Si ricorderà che, nel 1987 Sciascia scrisse un famoso articolo: “I professionisti dell’antimafia”, che provocò una polemica furibonda, nella quale fu investito da dissensi ed autentici insulti, soprattutto da parte di Repubblica, ma anche di altre testate e difeso dal solo Corriere che aveva pubblicato il pezzo. La storia è oggi ricostruita puntualmente, anche sulla base di quattro lettere inedite di Sciascia, da Nico Perrone “La profezia di Sciascia” edizioni Archinto, Milano 2015, che ricorda come il titolo, per la verità, era ingannevole (non lo aveva scelto l’autore, ma era, come di consueto, un redazionale) mentre l’articolo si occupava solo marginalmente della nomina di Borsellino a capo della procura di Marsala, che fu il cuore della polemica. Come si ricorderà, nell’articolo, Sciascia esprimeva dissenso nei confronti del Csm che aveva preferito il meno anziano (professionalmente) Borsellino, a due suoi colleghi, sulla base di un diverso criterio, come la sua particolare competenza in materia di processi di Mafia (esperienza professionale che, invece, mancava agli altri due) e, anche se la Procura marsalese non di sola Mafia avrebbe dovuto occuparsi, questa era una scelta che il Csm poteva fare legittimamente, perché non c’era una norma che lo impedisse stabilendo come unico criterio l’anzianità, tanto è vero che gli altri due non proposero ricorso al Tar.
Ma, al vecchio gentiluomo garantista, questo parve una scelta discutibile e lo scrisse, magari con un certo candore (politicamente Sciascia, che era letterato finissimo, era un ingenuo), dato che, con ogni probabilità, il criterio dei processi di Mafia era solo il trasparente velo che copriva gli accordi di corrente ed il consueto mercato nel Csm. Anche se va detto che, nel merito, la scelta non era stata affatto infelice, perché la scelta era caduta su un magistrato di grande livello.
Peraltro, Sciascia non diceva nulla di negativo su Borsellino, faceva solo una questione di correttezza e, se vogliamo, di stile.
La reazione fu assolutamente spropositata e Sciascia aggredito in modo incivile, gli si diede persino del “quacquaraquà” e quasi del complice di Mafia. Sciascia ne fu colto di sorpresa, ma tanta ingiustificata violenza verbale (che, a distanza di 28 anni dovrebbe procurare qualche rossore a chi sostenne quella controversia usando certe parole) c’erano due cose che Sciascia non considerava.
La prima era il suo allontanamento dal Pci, che provocò una reazione di forte antipatia, anche da parte di chi lo aveva precedentemente sostenuto. Nel 1979 Sciascia disse che, nei giorni del rapimento di Moro, Berlinguer gli avrebbe confidato (non sappiamo con quali precise parole) di temere che dietro le Br ci fossero i cecoslovacchi (cosa peraltro scritta nell’immediatezza del fatto da “Op”), Berlinguer aveva dato querela, Sciascia aveva chiesto la testimonianza del suo amico Guttuso, che era presente al colloquio e che invece, da militante comunista, lo smentì. Seguì la rottura personale fra i due intellettuali siciliani, perché lo scrittore di Racalmuto ritenne che più forte della disciplina di partito avrebbe dovuto essere il senso dell’onore (dicevamo, appunto, che egli era un ingenuo). Poi, Sciascia accettò la candidatura dei radicali tanto per il Parlamento Nazionale quanto per quello europeo (1979) e proprio nel momento di massima acutezza dello scontro fra Pannella ed il Pci. La cosa venne considerata come un tradimento dai comunisti che lo avevano eletto consigliere comunale a Palermo quattro anni prima. Il rispetto laico dell’altrui dissenso non è mai stata la migliore qualità del Pci e non lo fu neanche in quella occasione.
Dunque, nella seconda metà degli anni ottanta, mentre il Pci affrontava la sua peggiore stagione, Repubblica, diretta da Scalfari, puntava le sue carte proprio sul Pci –che ci si augurava diventasse un partico liberale, come poi accadde effettivamente- nella sua battaglia contro Craxi ed Andreotti. E per la proprietà transitiva, Sciascia, “nemico” del Pci, lo divenne anche del giornale di piazza Indipendenza. E questo era il primo fattore che sfuggì all’autore di “A ciascuno il suo”; il secondo fu che non percepì la nascita di quella autentica sciagura nazionale che fu il “partito dei magistrati”. La cosa divenne evidente qualche anno dopo con “Mani pulite”, ma quando Sciascia scrisse quello sfortunato articolo, la convergenza della sinistra verso la magistratura era già iniziata, proprio sul terreno della Mafia e grazie alla figura atipica di Falcone, scambiata per emblematica dell’intera categoria che presentava (e presenta) ben altre caratteristiche. La posizione di Sciascia era nel merito non condivisibile (almeno per quel che mi riguarda), perché la nomina di Borsellino poteva benissimo andare, ma non c’è dubbio che avesse diritto di esprimere quel, peraltro garbato e limitatissimo dissenso.
Di colpo ci si dimenticò di quello che Sciascia aveva fatto per oltre un ventennio (a partire dal “Giorno della civetta”) per far capire all’Italia che la Mafia esisteva davvero, mentre ancora troppi giornali ed autorità di governo si affannavano a negarlo, come fosse fatta e come stesse cambiando. Sciascia e Pantaleone furono decisivi anche per sradicare l’idea che la Mafia fosse solo una manifestazione di arretratezza, che sarebbe stata debellata con la modernizzazione dell’Isola, perché si stava modernizzando anch’essa. Ci aveva dimostrato (con “Il contesto” e poi “Todo Modo”) come il potere stesso si stesse criminalizzando ed assumendo forme di tipo mafioso, come la Mafia stesse risalendo la penisola invadendola (con “La Palma va a Nord”, che riletto oggi ci appare una predizione straordinaria di quel che ora vediamo nei comuni del nord). Tutto questo non contò più nulla: la sofisticata scrittura neo illuminista e laica di Sciascia non era più adatta nell’epoca del populismo giudiziario. Ormai bisognava scegliere: o con i magistrati o contro ed a nessuno veniva in mente che magistrati e classe politica erano solo due facce della stessa medaglia, due pezzi della stessa classe dirigente che si stavano azzuffando per ragioni di potere. E l’immagine di Falcone, ormai assassinato dalla Mafia, era usata come simbolo improprio di una categoria assai lontana dalla sua tensione morale.
Tutto questo Perrone lo ricostruisce molto bene e con la sua consueta penna veloce e gradevole, ma credo servirà ad assai poco, perché il libro sta avendo vita grama e pochissime e striminzite recensioni. La damnatio memoriae di Sciascia persiste.
Per il pochissimo che può servire, ve lo segnalo.
Aldo Giannuli
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Domenico Di Russo
Caro Giannuli,
ai miei ragazzi di seconda media sto facendo leggere “Il giorno della civetta”, che ha il merito di saper appassionare anche i più piccoli, i quali l’hanno trovata una delle letture più stimolanti fatte finora a scuola e, dato che i ragazzi non si fanno troppi problemi a essere schietti quando qualcosa non gli piace, gli credo. A quelli di terza media, per l’estate, ho consigliato “Il contesto”. È poco ma è sempre meglio di niente.
Un caro saluto
Domenico
victorserge
ho letto il libro giusto tre giorni fà.
un libro piccolo, ma denso; un pò caro forse, però vale come quei vini che sono un pò cari, ma ne valgono la pena.
quindi comprate il libro.
saluti
victor serge
Tepozzino
Gentile Professore,
mi congratulo con questa sua iniziativa assolutamente meritoria, specialmente oggi che tanti segnali ci avvertono che l’Italia è investita (e sempre di più lo sarà nei prossimi mesi) da stupefacenti inchieste giornalistico-giudiziarie, funzionali a distrarre l’opinione pubblica dalla più feroce crisi economica degli ultimi cento anni (le cui cause sono per lo più esogene) e ritagliare comodi capri espiatori, dietro cui occultare il fallimento dell’intera classe dirigente e la svendita del restante patrimonio pubblico italiano.
La lettura o rilettura di Sciascia sarebbe un potente e benefico antidoto, poiché consentirebbe, facendo uso della ragione critica, di diffidare della lettura unanime del fatti che ci verrà propinata . Se mi permette però vorrei segnalarLe che Sciascia nell’intervento effettuato su La Stampa del 6 agosto 1988 (dopo un anno e mezzo dal famoso articolo apparso sul Corriere della Sera) chiariva in forma autentica il senso della sua polemica in ordine alla promozione di Borsellino ed era che “Il Consiglio superiore della Magistratura si era sottratto alla regola vigente (anzianità ndr) senza stabilirne un’altra. Se l’avesse da quel momento stabilita, il caso del dottor Falcone (sopravanzato per anzianità dal Dott. Meli ndr), con tutto quel che oggi importa, non ci sarebbe stato. Adottando un criterio per promuovere Borsellino e tornando invece alla vecchia regola per non promuovere Falcone, ecco il nodo che presto o tardi doveva venire al pettine. La situazione di oggi, insomma, non l’ho inventata io con quel mio articolo sul Corriere: c’era, e non poteva che esplodere. Io non ho fatto che avvertirla, e tempestivamente. Ed è vero che non mi piacciono le tensioni, di solito destinate a cadere: io voglio, da parte dello stato, decisione, fermezza, intelligenza, concordia tra i diversi organismi della pubblica amministrazione preposti a combattere la mafia”.
La posizione di Sciascia era che la mafia (come del resto il terrorismo) una democrazia la combatte con il diritto (non quello eccezionale,derogatorio, sospensivo delle garanzie costituzionali, ma quello ordinario, che dovrebbe valere per tutti). Anche qui le riporto un passo dall’articolo apparso sul Corriere della Sera del 26 gennaio 1987 “…ma la democrazia non è impotente a combattere la mafia. Ha anzi tra le mani lo strumento che la tirannia non ha: il diritto, la legge uguale per tutti, la bilancia della giustizia. Se al simbolo della bilancia si sostituisse quello delle manette – come alcuni fanatici dell’antimafia in cuor loro desiderano- saremmo perduti irrimediabilmente, come nemmeno il fascismo c’è riuscito”.
Ho tratto questi passi, da un suo piccolo ma grandissimo libro che raccoglie gli interventi apparsi sui giornali a partire dal 1979, libricino immenso già dal titolo: “A futura memoria (se la memoria ha un futuro)”.
fortebraccio
egr.prof,o sciascia era complice,o come dice lei, un emerito ingenuo,da come trattava l argomento mafia,mostrandola come un fenomeno prettamente ,siciliano,locale e non per quello che era,e che in realta, è:un connubio di interessi,politici economici,nazionali ed internazionali,che usano i mafiosi a loro piacimento!
Roberto B.
Ho letto ed apprezzato Sciascia quando avevo più o meno 17anni, nel ’64 o ’65.
Leggendo l’articolo della Stampa del 6 agosto 1988, segnalato da Tepozzino, la frase che più colpisce e che credo illustri al meglio la personalità di Sciascia, è la seguente:
“Io ho dovuto fare i conti da trent’anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia e ora con coloro che non vedono altro che mafia.” .
Paradigma di un ceto politico che si schiera di quà e di là, non in base a rispettabili convinzioni personali, ma a seconda delle convenienze del momento. Ed è così che nascono i Berlusconi ed i Renzi, che non si preoccupano minimamente delle idee della loro base, perchè sanno bene che anche quelli più critici tra di loro sono pronti a vendere le proprie coscienze per il classico piatto di lenticchie. E chi non si adegua, viene prontamente emarginato e sostituito in base al principio che “tutti siamo importanti, ma nessuno è indispensabile”.
Gerardo
Grazie per la segnalazione. Ricordo che ad una lezione di Letteratura contemporanea alla Statale di Milano con Turchetta (di quindici anni fa) si parlava della capacità degli scrittori di preservare la loro memoria. In qualche modo è lo stesso scrittore che dovrebbe curare la propria immagine per i posteri. In quella lezione il confronto era tra Cassola (che aveva fallito in questo intento) e Calvino, che invece era stato abile nel predisporre il proprio lavoro in modo tale che perdurasse negli anni a venire. Ora credo che viviamo altri tempi, l’editoria è mutata rapidissimamente, e in generale la letteratura non stia passando un gran momento.
Caruto
Nel 1975 Sciascia venne eletto come indipendente nella lista del PCI al Consiglio Comunale di Palermo; si dimise nel 1977.
Su Wikipedia leggo: “La sua contrarietà al compromesso storico e il rifiuto per certe forme di estremismo lo portano infatti a scontri molto duri con la dirigenza del Partito comunista.” Io opterei per una versione piu’ cruda: il compromesso storico in Sicilia voleva dire realpolitik con la DC peggiore che c’era in Italia.
Suggerirei di leggere “Gli zii di Sicilia” del 1958 e subito dopo “Candido, ovvero Un sogno fatto in Sicilia” del 1977: stessa ambientazione storica (Sicilia del dopoguerra), lettura politica completamente diversa; come se avesse maturato un giudizio politico sulla sinistra (PCI, PSI, Sindacato) e lo avesse voluto trasporre in forma di racconto.
Personalmente ho gradito molto il libro del 1958 e molto poco quello del 1977, ma nella sostanza se la tesi del libro del 1977 la si attualizzasse, appunto, al 1977, Sciascia aveva ragione da vendere.
La “Verita’” e’ roba preziosa e fragile, molto adatta alla ricerca scientifica ed alla speculazione intellettuale; quando si fa politica, in genere, si usa il machete e si combatte in maniera collettiva ed organizzata e Sciascia non era tipo da intrupparsi e da impugnare il machete: il personaggio era cervello fine ed appassionato, difficile da manipolare; “neo-illuminista” e’ definizione molto adatta.
Detto questo, penso che la ricostruzione proposta da Perrone (per come leggo nell’intervento di Giannuli) debba essere integrata: il Corriere che pubblica “I professionisti dell’Antimafia” era diretto dal piduista Ostellino e nel 1987 stava montando l’onda lunga che avrebbe portato prima ad attaccare in maniera crescente Falcone e Borsellino e poi al massacro fisico dei due. Vedi l’intervista di Borsellino a Bolzoni e Lodato della primavera 1988 nella quale denuncia la progressiva marginalizzazione di Falcone a Palermo: per quella intervista Borsellino, messo sotto inchiesta, fu chiamato a discolparsi davanti il CSM .
Ridurre tutto a Scalfari che punta sul PCI e sui magistrati per far fuori l’accoppiata DC-PSI con argomenti anti-mafiosi mi sembra fuorviante. Solo per la cronaca: Scalfari aveva appoggiato De Mita agli inizi degli anni ’80 e proprio alla fine di quel decennio stava maturando la sua sconfitta ad opera di quei sant’uomini di Andreotti, Craxi, Forlani che avrebbe dato vita al CAF (1989-1992).
Se invece lo si inquadra all’interno di un ragionamento piu’ vasto allora si deve dire che il ceto dirigente italiano (tutto) avrebbe prima o poi cercato di liberarsi di un rompicoglioni come Sciascia. Gli avvenimenti successivi (il successo dei soldi e delle imprese criminali in tutta Italia) ne sarebbe la prova.
Meglio allora richiamare “Il ritorno del Principe” di Scarpinato che sulla scia di una tradizione che va da Manzoni, a Prezzolini, a De Roberto, a Gramsci, parla delle caratteristiche Feudali e Corporative del ceto dirigente italiano: tutti quelli che hanno responsabilita’ di decisione vengono selezionati darwinianamente da quell’ambiente che ha esattamente quelle caratteristiche.
L’ex magistrato Tinti puo’ testimoniare per la magistratura, il Prof. Giannuli per l’Accademia, ecc. ecc.
Che ci fa qui, allora, uno come Sciascia che invoca lo Stato di Diritto, dove le regole sono (dovrebbero essere) uguali per tutti?
Aldo Giannuli
al di là di ogni altra cponsiderazione: Ostellino non è mai stato della P2, Lei confonde con Di Bella.
Caruto
Allora e’ un mio errore.
Pero’, e qui chiedo lumi, il mio ricordo e’ quello di un Corriere che alla fine degli anni ’80 era controllato da personaggi poco trasparenti.
Sbaglio se dico che Ostellino e’ assimilabile a PGBattista?
Aldo Giannuli
direi che i due personaggi hanno stature diverse
Paolo Federico
Perché Sciascia è finito nel dimenticatoio?
Basta guardare la rai e i leggere i maggiori quotidiani italiani per capirlo.
Leonardo Sciascia è con ogni probabilità il più grande scrittore italiano della seconda metà del novecento. Nel denudare il fenomeno mafioso è stato più importante degli stessi Falcone e Borsellino. Ateo e spirituale come denuncia il suo riferimento in Borges, schivo e onesto (non ingenuo), semplice e raffinatissimo nello stile, sospetto che lo stesso Camilleri, nel costruire corporeità e psicologia del suo Montalbano, gli sia debitore. Io non l’ho mai dimenticato.
Marco Fraddosio
Ringrazio l’autore del libro ed il curatore del blog per tenere viva l’attenzione e provare a rischiarare il cono d’ombra su vicende tanto oscure.
“La profezia di Sciascia” mi sembra molto significativo perché dà una preziosa e puntuale testimonianza della dimensione politica dello scrittore.
I fatti narrati si riferiscono ad anni in cui ero molto giovane o addirittura piccolo. Tuttavia mi ha sempre colpito la figura di Sciascia che insieme a Carlo Levi e Calvino erano i miei autori preferiti da bambino. Memorabile la trasposizione cinematografica di Todo modo ad opera del grande Elio Petri che squarcia il velo dell’indicibile.
“Il resto è silenzio”.
Bruno Amoroso
La lettura del testo di Nico Perrone è anzitutto un piacere estetico per la delicatezza e ‘eleganza con cui tratta il tema, la precisione dello storico senza tuttavia perdere il filo del discorso. La vicenda di Sciascia ne esce illuminante di un periodo, quello della trasfigurazione della sinistra e del PCI in particolare. Una trasfigurazione che non abolisce la vecchia doppiezza togliattiana nel parlare di socialismo e di democrazia. Ma in Togliatti la doppiezza serviva a tenersi ancorato ad un progetto di società, quello dei comunisti, e al bisogno strategico di non dissociarlo dal bisogno di una visione internazioneale delle alleanze. La trasfigurazione, dal compromesso storico in poi, mantiene questa doppiezza ma capovolta. Abbraccia integralmente il progetto di società neoliberista ma lo fa giustificandosi con scelte tattiche di sopravvivenza e di condizionamenti internazionali senza costruirne di propri. La tattica diventa insomma strategia, diventa un’altra cosa. Da qui il tritacarne della politica italiana avviato con l’azione di “mani pulite” che tenta di coinvolgere e corrompere i personaggi di punta della vita politica e della cultura. In questo contesto si inserisce il tentativo di reclutare Sciascia per poi rottamarlo quando se ne scopre l’autonomia culturale e politica. Ma Sciascia non è solo in questa sorte. Lo stesso avviene a Federico Caffè, che prima si tenta di reclutarlo con inserimenti istituzionali e in parlamento da lui sempre cortesemente rifiutati, e poi, quando se ne scopre la sua irriducibilità a sposare la cultura di mercato e l’uso della legalità per fini politici (l’incriminazione dell’allora governatore Baffi della Banca d’Italia), di cui si serve abbondantemente la sinistra in quegli anni, se ne decide la sua marginalizzazione e sistematico isolamento che lo porterà al rifiuto esistenziale di restare dentro quel gioco. I danni e le vittime del “nuovo corso” della democrazia italiana iniziato in questi anni fino al presente decadimento delle persone e delle istituzioni ha lasciato sul suo percorso vittime illustri, come Sciascia e Caffè che sono divenuti gli innominati delle istituzioni e della politica italiana. L’oltraggio “post mortem” a Federico Caffè è quello di volerlo a tutti i costi recuperare a legittimittazione delle bande e scorribande oggi al potere in Italia e in Europa, vista la sua impossibilità di esprimersi, mentre su Sciascia sembra più comodo e possibile aver chiuso la partita col silenzio su di lui.