Ripensare la globalizzazione
Quando si ragiona sulla crisi e sui possibili rimedi, accade spesso di sentirsi dire che questa o quella misura da assumere sono impossibili perchè la globalizzazione lo impedirebbe, con tutto quel che ne consegue.
Altrettanto spesso capita di sentir dire che processi come la decadenza dello stato nazionale o la delocalizzazione delle imprese industriali nei paesi emergenti o il connesso peggioramento delle condizioni di lavoro nella residua impresa manifatturiera nel nord del Mondo, sono fenomeni ormai scontati ed irreversibili.
In altri termini, la globalizzazione viene identificata con quello che essa è stata concretamente in questi 20-30 anni e fatta coincidere con il progetto neo liberista. Per cui, non c’è globalizzazione possibile al di fuori di quella di ispirazione neo liberista e, siccome non c’è Mondo immaginabile al di fuori di quello della globalizzazione, l’ordine mondiale neo liberista è l’unico possibile e definitivo.
Siamo sicuri che le cose stiano così?
A partire dal 2008 la crisi finanziaria ed economica (a tutt’oggi irrisolta) ha segnalato le disfunzioni di questo ordine mondiale e l’evolvere delle relazioni internazionali manifesta significative difformità da quello immaginato sino a non molto tempo prima.
Attraverso una forzata analogia con la “grande crisi del 1929”, si è sostenuto che occorreva soprattutto evitare gi errori fatti in quella occasione: la frenata protezionista che, di fatto, fece da moltiplicatore della crisi ed il dirigismo statale che frenò i liberi scambi turbando irrimediabilmente il buon funzionamento del mercato. Gli economisti e generali sono molto simili: i generali sanno sempre come vincere la guerra passata, gli economisti come affrontare la crisi precedente.
In soldoni, si è trattato del tentativo di uscire dalla crisi lasciando intatta l’architettura dell’ordine mondiale neo liberista ribadendo la subalternità della politica all’economia e dell’economia reale alla finanza, ribadendo la “naturalità” delle diseguaglianze sociali, confermando il potere illimitato dei manager e lasciando intatto il primato monetario e miliare degli Usa.
Morale: la ricetta non sta funzionando.
Il rischio di una seconda recessione è dietro l’angolo, la terapia a base di inondazioni di liquidità ha solo fatto esplodere il debito pubblico americano e di altri paesi, inizia a manifestarsi una ondata inflazionista malamente mascherata da miserabili trucchetti statistici (come il mutamento del paniere), una serie di paesi sono alla soglia del fallimento, rivolte sociali si manifestano in nord Africa, ma, pur se con inferiore virulenza, anche in Europa, America latina ed Asia.
Soprattutto il barometro delle relazioni internazionali segnala un tempo in arrivo sempre peggiore e la crisi economica tende a farsi crisi globale.
E per globale non intendiamo solo mondiale, ma anche complessiva, cioè economica, sociale, politica, militare.
Nel complesso sono sempre più evidenti le crepe che si aprono in questa architettura di potere, ma nessuno sa come porvi riparo e neppure quale possibile architettura possa sostituirsi a quella esistente.
Il punto è che nessuno tenta di immaginare una alternativa all’ordine esistente (salvo qualche atteggiamento nostalgico del precedente ordinamento o le ingenuità di qualche movimento antagonista fortemente venate di populismo). Per farlo occorre una premessa logica: capire cosa è stato il processo di globalizzazione sino a questo punto ed avviare un ripensamento su di esso.
Piaccia o no la storia non conosce mai tentativi di restaurazione riusciti: anche quello seguito al Congresso di Vienna durò poco e fallì presto. Una volta turbato un determinato ordine di cose è impensabile riportarlo all’ordine precedente, in qualche modo ogni processo, giusto o no che sia, lascia inevitabilmente le conseguenze del suo passaggio ed il futuro ne ingloberà i segni.
La globalizzazione, per molti suoi aspetti è effettivamente irreversibile: riuscite ad immaginare un Mondo senza internet o rispedendo nei paesi di origine quanti sono immigrati in Europa e negli Usa dal sud del Mondo? L’ascesa della Cina è un dato consolidato, come quello dell’India, il ritorno della Russia al “socialismo reale” è fuori discussione e le rivolte arabe segnalano che l’urto della globalizzazione sta incrinando l’ordine tradizionale del mondo islamico.
Dunque, non c’è dubbio che alcuni effetti si sono cristallizzati e molteplici processi di internazionalizzazione andranno avanti. Detto questo, non ne consegue affatto che la globalizzazione debba andare avanti così come abbiamo visto sinora. Se è vero che l’agenda internazionale impone temi impossibile da affrontare in sede nazionale (il tema dell’ambiente è il primo e più evidente) e se da ciò deriva un trasferimento di potere decisionale dalla sfera statale-nazionale a quella sovranazionale, questo non vuol dire che necessariamente siamo alla vigilia della scomparsa dello stato nazionale e tantomeno che la produzione normativa dei vari stati nazionali debba essere fatalmente sostituita da quella negoziale privatistica come vorrebbero i fautori della nuova “lex mercatoria”.
Se è vero che un certo grado di interscambio di merci a livello mondiale è largamente positivo, è tutto a dimostrare che sia utile ed auspicabile spostare per migliaia di kilometri qualsiasi merce: che scandinavi e canadesi acquistino ananas e banane dai paesi africani e latino americani va bene, ma che senso ha spostare comunissimo aglio dalla Cina all’Italia o uva dal Cile alla Francia? Ha senso una dinamica del mercato mondiale che, per risparmiare sulla forza lavoro, spreca quantità immense di carburante per poi produrre mercati declinanti come quelli di Europa e Stati Uniti?
Va bene che occorre proteggere la proprietà intellettuale, ma gli appositi capitoli dei trattati di Marrakesh del 1993, non solo non sono affatto riusciti a proteggere la proprietà intellettuale dei prodotti tecnologicamente avanzati dalle pratiche di reverse engeneering di cinesi e giapponesi, ma hanno prodotto mostruosità come gli Ogm, l’appropriazione di varietà vegetali ed animali da parte di multinazionali alimentari come la Monsanto e la riduzione alla fame di intere popolazioni africane ed asiatiche: non sarebbe il caso di rivedere quei trattati?
Soprattutto, è scritto da qualche parte che la globalizzazione debba essere per forza accompagnata dalla più totale ed incontrollata mobilità dei capitali? Insomma: da questa libertà di movimento è discesa la più catastrofica migrazione di capitali da Europa e Stati uniti verso il 195esimo stato del Mondo: Riccolandia che prende soldi a tutti e non paga tasse a nessuno. E ne è discesa pure la liquidazione della manifattura in larga parte dell’ex mondo avanzato che da 20 anni registra un costante passivo della bilancia commerciale. Il sogno di sostituire la manifattura con il “lavoro immateriale”, l’intermediazione finanziaria, il controllo delle reti di distribuzione, ecc. si è tradotto in un disastro occupazionale senza precedenti. Vogliamo continuare?
La tragedia, soprattutto in Europa, è stata la capitolazione della sinistra verso l’egemonia culturale neo liberista: le socialdemocrazie (ed il Pci) si sono arrese all’idea che l’unico ordine mondiale possibile fosse quello liberale-liberista ed hanno rinunciato a svolgere una qualsivoglia opposizione. Sono rimaste isole di opposizione in alcuni movimenti protestatari antagonisti ed in presenze residuali dei vecchi partiti comunisti, che hanno prodotto solo analisi inservibili ed una nostalgia reazionaria (la nostalgia è sempre reazionaria, diciamocelo) nei confronti del vecchio buon mondo bipolare. Nulla che serva a dare una risposta ai problemi presenti.
Se vogliamo uscire dal pantano occorre che la sinistra costruisca una propria ipotesi di globalizzazione e questo richiede un ripensamento profondo anche di se stessi e della propria cultura politica.
Aldo Giannuli
aldo giannuli, crisi 2008, crisi globalizzazione, globalizzazione
Forzutino
Concordo, approvo e sottoscrivo in toto. L’ultimo capoverso, però, mi lascia terrorizzato.
steffa88
condivido la teoria della crisi della sinistra, che non ha trovato un’alternativa alle idee del passato e al “neoliberismo”, tuttavia non posso che essere in disaccordo con molti temi toccati dall’articolo. Prima di tutto non vedo questo fallimento della globalizzazione, certamente ora stiamo attraversando un periodo di crisi, specie in Europa, e specie in Italia, ma tutto sommato stiamo molto meglio di 50 anni fa. Spostare investimenti nei paesi in via di sviluppo aiuta questi a uscire dalla povertà e determina prezzi più bassi in occidente, specie per la working class. Il cosiddetto “sfruttamento” della manodopera a basso costo è quello che ha permesso decenni addietro all’Italia e all’Europa il boom che ora sta vivendo l’Asia, l’America Latina e in misura purtroppo inferiore l’Africa. Di contro non mi sembra vero che in occidente la classe operaia stia peggio di prima, se non i giovani precari, figli di una regolamentazione del lavoro criminale. Se escludiamo la crisi attuale (crisi di debito data dai tassi assurdamente bassi praticati dalla Fed) i tassi di disoccupazione sono aumentati di poco (se non in paesi come l’Italia per manifesta incapacità della classe dirigente e un sistema clientelare corrotto e anti-meritocratico) , ma sono aumentati perché il nostro boom è terminato. Il rovescio della medaglia del sistema attuale è la crescita della disuguaglianza sociale all’interno dei singoli paesi, tra quanti soffrono della concorrenza di altri paesi e quanti ne traggono enormi benefici, a questo problema a mio avviso la sinistra deve trovare una soluzione, senza però rinnegare quanto di buono la globalizzazione ha fatto.
Paola Pioldi
Aldo, sei un mito!
La tua analisi ha “sistematizzato”, traducendo in parola, ciò che confusamente provo e penso da tempo. Il mondo è da sempre “globalizzato” … ancor prima degli scambi tra Roma e Oriente, ed i romani furono i primi a determinare uno scompenso ecologico in nord Africa con la cattura e l’importazione di un numero considerevole di grossi felini (non entro in merito dell’utilizzo perchè le versioni storiche sono diverse).
Invito tutti a consumare prodotti di “filera corta” a meno non siano tipici di altri paesi, ma che si debba bere spremute di arance del sud Africa lo trovo davvero paradossale: questo vale per un sacco di consumi.
Concordo con Forzutino: non mi sento affatto sicura della capacità di una classe intellettuale e politica capace di “creare” e proporre prospettive diverse da quelle di questo, ormai rantolante, sistema liberista.
Nel ’29 l’economia era legata all’industria e non ad una finanza senza scrupoli, anima e testa (in senso di un minimo d’intelligenza nel senso più comune del termine) … certo… che col senno di poi sono tutti bravissimi… capirai che sforzo!
Nella tua bellissima analisi, Aldo, manca però una proposta alternativa… CHE FARE?:-)
Augurandomi che siate tutti in vacanza, invio un caro saluto,
Paola
steffa88
sarebbe bello che qualcuno spiegasse perché non dovremmo mangiare le arance del nordafrica o i pomodori cinesi, sa molto di leghista, non saremo diventati razzisti pure con la frutta e la verdura vero? A me sembra che la filiera corta sia una semplice trovata commerciale per rincarare i prezzi dei prodotti made in Italy, che in realtà in produzione non sono cari ma lo sono per il consumatore, con i ringraziamenti dei boss dei mercati ortofrutticoli
aldogiannuli
il leghismo non c’entra niente, è un ragionamento economico. Certo le arance del Sud Africa e i pomodori cinesi si impongono per i prezzi più bassi, ma questi prezzi sono ottenuti:
a- con lo sfruttamento estremo della forza lavoro pagata ai limitidella sussistenza
b- con l’assenza di qualsiasi elemento di welfare state (sanità, pensioni ecc)o con la sua riduzione a termini minimi
c- con l’assoluta ignoranza delle più elementari norme di rispendo dell’ambiente (e questo è ancor più accentuato
d- grazie ai prezzi molto bassi (ma sarà ancora così prt molto?) dell’energia per i trasporti
Nel caso dell’industria, peraltro, i bassi prezzi si debbono anche alla pratica esasperata di reverse engeneering che ottiene la clonazione di quasi tutti i prodotti,
Tutto questo, oltre che lo sfruttamento dei lavoratori dei paesi in via di sviluppo, comporta alcune trascurabili conseguenze per Ue ed Usa quali:
a- il costante disavanzo della bilancia commerciale
b- lo scarso livello occupazionale accompagnato dalla precarizzazione diffusa e dai bassi salari
c- la conseguente crisi da debito crescente
d- le crescenti difficoltà dello sviluppo
Senza dire degli effetti sul prezzo dei combustibili per trazione.
Detto questo, si gusti pure le sue arance sudafricane ed i suoi pomodori cinesi.
Dei boss dei mercati ortifrutticoli parleremo in altra occasione.
Mario Vitale
In questo articolo secondo me c’è un errore di fondo: i mali della globalizzazione non sono dovuti ad un neo liberismo, piuttosto questo presunto neo liberismo in realtà è la facciata dietro cui si nasconde la corruzione mondiale che è proliferata dopo la caduta del comunismoz. La globalizzazione è di per sé cosa buona, perché quando si parla di globalizzazione si deve parlare di internet, quindi di libera circolazione delle idee, di minori restrizioni alla circolazione delle persone. Quando si parla di delocalizzazione, ce la vogliono far passare come un aspetto della globalizzazione, ma invece ci raccontano un mucchio di fandonie.
La delocalizzazione funziona pressapoco così: io, multinazionale, o comunque industriale con una certa capacità economica, mi sposto in un paese dove ci siano due condizioni: cittadini poveri e politici corruttibili. In un tale paese non ho difficoltà ad imporre la mia volontà, che significa distruzione dell’economia locale, normalmente povera ma sufficiente a dare sostentamento alla popolazione, in modo che il lavoro nella nuova fabbrica che io costruisco diventi l’unica possibilità di sostentamento della popolazione, lavoro ovviamente a condizioni più o meno inumane.
Non è vero che le popolazioni del terzo mondo che lavorano nelle fabbriche a cucire per pochi spiccioli scarpe che vengono rivendute a più di 100 euro non hanno alternative, come volevano far credere le multinazionali per crearsi un alibi alle condizioni mostruose che impongono a questi disgraziati. La realtà è che l’alternativa gliela hanno distrutta loro, ovviamente con la complicità dei politici locali corrotti.
Ci vedete in questo elementi di liberismo? Io ci vedo solo avidità e mancanza di morale, che dovrebbero essere condannate ed impedite. Basterebbe poco. Basterebbe un’informazione veramente indipendente, che denunci gli abusi perpetrati da quelle multinazionali che con il pretesto della delocalizzazione compiono nefandezze, e delle leggi che impongano tasse speciali sui prodotti realizzati in paesi dove non sono presenti tutele sufficienti per i lavoratori, in modo da riequilibrare i costi di produzione e rendere il giochino della delocalizzazione non remunerativo.
Però ormai il giochino sta per finire. Vi ricordate la famosa frase “Se gli operai guadagnano poco, chi se le compra le automobili che costruiscono?”. Bene, con la delocalizzazione nei paesi ricchi si è perso tantissimo lavoro, e le unità perse dal settore manifatturiero non possono essere di certo riassorbite velocemente dal terziario. Chi ha preso il posto di quei lavoratori guadagna una miseria e di certo non si può permettere di comprare i frigoriferi, le scarpe, ecc. che produce. Adesso con la crisi dei paesi ricchi, che questi industriali hanno contribuito a generare, i loro prodotti non si vendono più.
steffa88
Mario Vitale, probabilmente il modello da lei descritto si ripresenta anche nella realtà, ma ho seri dubbi a pensare sia il modello dominante. Il prezzo della manodopera nei paesi più poveri è sempre inferiore rispetto ai paesi ricchi, ed è indubbio che grazie agli investimenti esteri questi paesi crescano riducendo il gap dall’occidente, come sta avvenendo in Cina ad esempio.
Aldo Giannuli, non sono un esperto in materia di industria agroalimentare, e purtroppo non posso portare dati a conferma della mia tesi (il che mi rendo conto essere un problema non da poco) ma ho seri dubbi che il prezzo inferiore dei prodotti agricoli dipenda dalla forza lavoro, parliamo di un settore ormai largamente meccanizzato, dove ad avere importanza sembrano essere più il prezzo di macchinari, fertilizzanti, terreno e distribuzione; senza contare che spesso anche in Italia la manodopera è sottopagata, fenomeno venuto alla ribalta dell’informazione nazionale con la rivolta di Rosarno. Sul problema delle differenti norme igieniche invece probabilmente ha ragione, ma anche qui, non ho idea di quanto contino, inoltre i prodotti esteri hanno costi di trasporto che quelli nostrani non sostengono, partendo dunque svantaggiati.
Il deficit della bilancia commerciale in Europa deriva in gran parte dall’importazione di petrolio e non dai prodotti agroalimentari, che godono di un protezionismo non indifferente sia in Europa che negli Stati Uniti. Inoltre il deficit riguarda più gli US che l’Europa, “sostanzialmente” in pareggio
aldogiannuli
quando parlo di sfruttamento della forza lavoro mi riferisco al dato complessivo, non solo a quello dei lavoratori impiegati nel solo lavoro agricolo: in questo incide anche il salario degli opoerai che producono le macchine agricole, i fertilizzanti ecc non chè degli addetti al trasporto dei prodotti agricoli. Peraltro, per quanto anche in italia ci sia forza lavoro ssottopagata, è comunque pagata di più di quanto non lo sia nei paesi del sud del Mondo Cina inclusa.
Il deficit della bilancia commerciare euro-americavna dipende in buona parte dal petrolio (e gas) ma non solo, dato che anche per rame, zinco e non ferrosi in generale, caffe, cacao, siamo in deficit.
Poi incidono fortemente i preszzi dei settori industriali (in particolare tessile, plastica, gomma, macchine industriali parzialmente anche chimica mentre stenta il settore auto ed è in attivo solo per aarmi e lusso). Per quanto riguarda i fertilizzanti, la situazione è in larga pèarte controllata dalal canadese Potash ma ciò non ostante la situazione non è favorevole.
Sul settore agro alimentare pesa in particolare l’importazione di carne in particolare dal sud america.
In ogni caso, l’esempio che facevo a proposito dell’aglio cinese e dell’uva cilena non va preso alla lettera: è in generale che io ritengo che una parte rilevante di quel che consumiano (èrodiotti industriali inclusi) debba essere prodotat localmente , sia per ragioni occupazionali, sia per l’equilibrio della bilancia dei pagamenti sia -last but not least- per ridurre i consumi energetici.
Paola Pioldi
Ciao,
grazie a chi ha letto e risposto al mio intervento. Aldo, sono d’accordo con te (mica sempre, lo sai, ma in questo caso totalmente). Questa mia è solo per narrare un evento carinissimo di “globalizzazione” umana: entro in un bar, ci trovo sud americani e una famiglia cinese (gestori) che guardano una partita. Mentre distrattamente un cinesino mi serve il caffè, mi domanda a chi tengo .. chiedo chi gioca e “sparo”: Milan! I cinesi sorridono collusivi, mentre una giovane (ho saputo equadoregna) mi dice: “No…W Inter! … Non sto a dilungarmi: Non capisco nulla di calcio, ma mi sono ritrovata in un bar della mia città con cinesi che tifavano Milan e sud americani che tifavano Inter! E la partita si giocava a Pechino!! Li ho lasciati da poco e so che ora ci sarà il secondo tempo (mi hanno istruita con passione) … So che loro sono qui più per bisogno che per libera scelta, ma mi fa piacere quando colgo che la mia città riesce ad essere ospitale e non solo persecutoria per cho arriva a lavorare. L’Europa è da sempre meticcia: non sono razzista Steffa, anzi… Sono le scelte dei potenti con un falso libero mercato (per le lobby) che determinano tanta disperazione, emigrazione, sfruttamento, dolore e rischio che il nostro bellissimo “pianeta azzurro” diventi una sorta di cloaca in cui pochi staranno bene (per me no, ma per loro evidentemente si) e la maggioranza rischierà ad essere ridotta a mera sopravvivenza priva di qualsiasi garanzia ed accesso al Sapere e alla Conoscenza che permettono di evolversi e capire ciò che accade anche agli “ultimi”. L’impoverimento delle classi medio basse da noi, favorisce gli acquisti di merce prodotta in paesi in cui non esistono garanzie per chi lavora (vero anche che si dà lavoro qui a chi li vende)… insomma quello che ha sottolineato Aldo nell’ultima sua replica. Discorso assai complesso…
Un saluto,
Paola
ugoagnoletto
ai negozianti conviene vendere prodotti cinesi. Una macchinetta per il caffè al grossista che la compra dalla nave che arriva dalla cina costa 7 euro e mezzo, al negoziante costa 25 euro, all’utente 125 euro (a spanne)
jovencadete
Filiera corta tutta la vita!
E’ incredibile lo sperpero di risorse dovuto all’importazione da parte dei paesi “ex-ricchi” di prodotti che in realtà potrebbero,se non produrre direttamente, per lo meno acquistare dal “vicino di casa”. Che senso ha installare pannelli fotovoltaici sui nostri tetti… (ovviamente è una provocazione) …se poi un arancia inquina più di una moto???
Rosario
Concordo con l’analisi di Giannuli, che tra l’altro tocca temi interessanti, quali quelli del copyright (se ci fosse stato anche nel passato adesso pagheremmo i diritti d’autore anche sulla ruota!). Per quanto riguarda la mia modesta proposta, faccio notare che uno Stato che si priva delle infrastrutture (autostrade, banche, telecomunicazioni, industria pesante, università, ecc) senza alcun ritorno economico o tecnologico vantaggioso, ha poche probabilità di ribaltare il dogma “liberista” (già, perchè il liberismo nel caso delle tariffe vale solo per pochi). La soluzione si intravede nel passato referendum, dove la popolazione sta tornando indietro sulla proprietà e la gestione dei beni comuni (e qui includo anche la difesa, la protezione civile, oltre l’acqua e le cosiddette “utilities” che peraltro mi sembrano davvero necessarie. Recupero delle risorse del territorio quindi, valorizzazione del poco che si è salvato (Francia e Germania non hanno permesso la fuga delle industrie strategiche) facendo modestamente notare che 60 milioni di cittadini non possono vivere solo di moda, ricerca tecnologica avanzatissima o tutte le mille sofisticatediavolerie che i nostri economici ci buttano addosso colpevolizzandoci (….vero bamboccioni?). A me le idee del G8 di Genova, di Petrini, le analisi di Gallino piacciono molto e mi sembrano andare nella giusta direzione.
Paola Pioldi
Salve,
sono d’accordo con Jovencadete. Siamo incongruenti e disfunzionali nelle scelte e lo scenario è paradossale. Manca un piano coerente, mondiale e sistematico, che abbia come obiettivo la salvaguardia del pianeta (in primis gli esseri umani tutti). Questo metterebbe, inevitabilmente, in crisi il sistema delle lobbies: motori del capitalismo cieco ed ingordo che, con tutti i mezzi, si sta diffondendo come mentalità comune in tutto il mondo seppur ormai “perdente”. Ieri gli U.S.A. hanno perso il primato finanziario… chissà se è un buon segno … non so… Aldo, che ne pensi? (mi riferisco ad un tuo recente articolo sul blog).
Ciao,
Paola
sara
Concordo in pieno e chiedo che la sinistra provi a considerare anche le proposte delle donne
steffa88
non credo che il protezionismo sia la soluzione, ad ogni modo mancando i dati quel che si poteva dire è stato detto
Paola, per carità, non ti ho mai sospettata di razzismo o leghismo, facevo dell’ironia
Rosso Malpelo
Probabilmente anche Destra e Sinistra sono concetti in profonda crisi, così come l’economia di questo crepuscolo dell’Idea di Progresso. E’ chiaro che un Nuovo Ordine apparirà solo dopo la completa caduta di quello attuale. Non siamo in grado di sapere quale sarà, poiché dipenderà in gran parte da ciò che accadrà nella fase finale della dissoluzione. Guerra mondiale? Recessione e disoccupazione diffuse? Rivolte sociali? Non sappiamo quanto di questo può verificarsi e quanto tempo può durare, non sappiamo in quanti e chi sopravviverà. Però sappiamo che accadrà, perché i segni premonitori sono sotto gli occhi di tutti. Perché nella Storia dell’umanità vi è la caduta disastrosa di sistemi, imperi e società, ben più duraturi di questi 2 secoli di capitalismo (privato o di stato, ha arrecato gli stessi danni). Lo sentono coloro che percepiscono più chiaramente gli elementi di squilibrio e insostenibilità che contraddistinguono questi ultimi decenni, a partire dai 7 miliardi di individui che popolano oggi la Terra.
Good night and good luck!