
Riflessioni sul caso Cappato e l’eutanasia
La scelta temporeggiatrice della Corte Costituzionale sul caso di Marco Cappato e sull’interpretazione dell’Articolo 580 del Codice Penale, che punisce con reclusioni comprese tra 5 e 12 anni chi è riconosciuto colpevole di istigazione al suicidio, è destinata a suscitare aspre polemiche nel dibattito sul cosiddetto “fine vita”.
Decidendo di non decidere, la Consulta non ha deliberato sulla costituzionalità della norma ma, al tempo stesso, ha impostato un’azione di rottura invitando il Legislatore a deliberare per normare casi come quelli dell’ex deputato radicale, che nel febbraio 2017 accompagnò in Svizzera Fabiano Antoniani per permettergli di accedere alle pratiche del suicido assistio.
La Corte Costituzionale ha operato una fuga in avanti che non gioverà alla sanità di un dibattito tanto importante e delicato quale è quello sull’eventualità di legalizzare o meno pratiche di eutanasia e suicidio assistito anche nel nostro Paese; al tempo stesso, la stessa invita a legiferare sul tema nello spazio di 12 mesi un Parlamento costituito nella stragrande maggioranza da forze politiche che non hanno ritenuto, stando ai programmi dell’ultima campagna elettorale, l’eutanasia legale come una priorità. Solo Più Europa, emanazione diretta del Partito Radicale e forte di una pattuglia misera di soli 4 parlamentari, ha infatti fatto esplicito riferimento al tema prima del voto del 4 marzo.
Cappato ha dichiarato in un’intervista a Linkiesta che “il codice penale italiano, per il reato di aiuto al suicidio, non prevede l’umanità, la compassione e la sofferenza”. Presa di posizione curiosa e fuorviante, la sua: limitare il discorso al solo tema penale non ha minimamente senso, specie alla luce del fatto che l’Italia è forte di una recente normativa sul fine vita dopo l’approvazione, nel dicembre 2017, del disegno di legge sul testamento biologico e la disposizione anticipata di trattamento, che delinea una fattispecie diversa ma sicuramente più sensata di qualsiasi norma possibile sull’eutanasia. Nonostante anche la legge sul biotestamento inviti a riflettere sulle conseguenze etiche e sociali della sua introduzione, come fa notare monsignor Gianfranco Ravasi: “Tanti medici fanno notare che il cosiddetto «testamento biologico» è steso in tempi esistenzialmente diversi: si è seduti, ancora sani e «benestanti» e forse si esorcizza la paura della morte col ricorso al taglio netto e immaginato come ovvio e facile dell’eutanasia «attiva». Quando però si è in quella galleria oscura, il seme mai inaridito della speranza affiora”.
Ravasi coglie sicuramente il punto e apre la strada a una critica costruttiva della scelta della Corte Costituzionale e, ancor prima, della decisione della Corte d’Assise di Milano di sollevare il vizio di incostituzionalità sull’Articolo 580. Dichiarare un articolo del Codice Penale incostituzionale sulla base di ragioni umanitarie soggettive, che non attengono a un sistema di valori codificato e oggettivo, è tanto fallace quanto deplorevole. Al tempo stesso, le discussioni sull’eutanasia attengono a questioni fondamentali su temi etici, morali, religiosi, sociali e politici che necessitano di essere combinate in dibattiti ampi e partecipati, non incanalati in un lasso di tempo preimpostato e in un’area parlamentare dominata da forze profondamente contrarie. La scelta più democratica, in questo contesto, sarebbe concludere la discussione sull’eutanasia con un suo assoluto ripudio.
Sulle questioni sollevate da Cappato e dalla Corte d’Assise di Milano numerosi giuristi si sono dichiarati scettici. Come segnala Avvenire, “Secondo i giudici milanesi, infatti, non sarebbe conforme alla Costituzione che una persona debba scontare una pena per il semplice fatto di aver aiutato un altro a morire. Eppure, il reato disposto dall’articolo 580 non solo è conforme alla Carta fondamentale ma farlo venir meno mina le basi del nostro ordinamento”. Ordinamento che recepisce una lunga tradizione giuridica, consolidata anche a livello europeo, sul divieto generalizzato di aiuto al suicidio. Mario Ronco, ordinario di Diritto Penale all’Università di Padova, approfondisce in maniera ulteriore la questione: laddove la Corte d’Assise, a sostegno dell’incostituzionalità del divieto, tende ad assolutizzare il “diritto all’autodeterminazione”, Ronco fa notare che “la decisione umana è sempre il frutto di una serie di condizioni, ciascuna delle quali possiede una peculiare efficacia a seconda dei momenti e dei luoghi in cui è assunta”. Dunque, “il significato dell’azione è impoverito se non si tiene conto della complessità e dell’interferenza dei vari fattori che concorrono nelle scelte personali […] Invece di esprimere l’autodeterminazione libera della persona, spesso la richiesta di suicidio esprime piuttosto l’esito di una sconfitta esistenziale”.
Che non è solo del singolo ma di tutta la collettività. Senza contare che “se l’autodeterminazione venisse prima della dignità, la misura di quest’ultima varierebbe da uomo a uomo e condurrebbe allo smarrimento della stessa dignità” come requisito oggettivo di ogni cittadino. E il togliersi la vita, osserva il professore, è la negazione di questa dignità costituzionalmente protetta.
Sulla relazione tra dignità e autodeterminazione si può spiegare buona parte del furore ideologico che avvolge la questione del fine vita e dell’ideologia nella galassia politica occidentale più dichiaratamente “progressista” e apre a un vero e proprio controsenso dell’epoca contemporanea. Perché, in un’epoca in cui la medicina ha fatto passi da giganti e molte malattie sono diventati curabili, dobbiamo introdurre il diritto al suicidio e, anzi, inventarci leggi che lo facilitino? Dobbiamo forse prendere esempio da casi come quelli di Belgio e Olanda, che hanno portato il “fine vita” fuori da ogni argine e legalizzato la bestiale pratica dell’eutanasia minorile?
Da uomini a favore del progresso sociale, ci schieriamo per norme che rafforzino la collettività sociale e non ne favoriscano l’atomizzazione continua. I Radicali e i loro accoliti, con la loro difesa a spada tratta dell’individualismo e di un’autodeterminazione considerata a prescindere positiva al di là della delicatezza della sfera in cui è espressa, interpretano uno spirito del tempo a cui, purtroppo, la Corte Costituzionale non ha saputo opporsi. Uno spirito del tempo ammalato dal relativismo culturale e da un presentismo strisciante: in un’epoca che ha respinto la morte dal discorso collettivo in maniera radicalizzante, l’individuo della società globalizzata rimuove l’idea della morte e con questa quella di futuro, vivendo in un presente eterno. Anche l’invecchiamento, anticamera della morte, comincia a fare sempre più paura. L’uomo della globalizzazione punta a “fermare Luna e Sole su Gabaon”, pretendendo di cristallizzare il tempo: ciò porta a reputare insopportabile l’idea di un futuro senza il Sé, e apre la strada all’illusione di poter esercitare un supremo controllo su ciò che attende l’essere umano nei suoi ultimi istanti, trasformandolo in unico giudice capace di stabilire addirittura i tempi e le modalità di uscita dalla vita terrena. Presunzione vana che si riflette nell’eccessiva esaltazione dell’eutanasia come diritto benigno a cui si è assistito negli ultimi anni.
Ma le cose non vanno così, a prescindere da tutte le illusioni. Dal canto nostro, ribadiamo il totale ripudio di ogni pratica di eutanasia e di ogni possibile vizio di incostituzionalità dell’Articolo 580 del Codice Penale, pur ritenendo plausibile una riscrittura della norma in maniera aggiornata ai tempi presenti, e invitiamo lo Stato a legiferare per assicurare una vita dignitosa ai suoi cittadini, prima ancora che a perdersi nell’illusione di poter normare la morte.
Andrea Muratore
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Gabriele Orlando
Noto una grande confusione fra piano morale e piano giuridico. Premesso che non esistono “vizi di incostituzionalità”, bensì “questioni di legittimità costituzionale” (la distinzione è stata considerata appositamente dall’Assemblea Costituente italiana), spalleggiare una tesi o l’altra sulla base di visioni morali personali è abbastanza superficiale.
L’art. 580 c.p. non è una base dell’ordinamento giuridico e, a volerla dire tutta, se ne potrebbe fare del tutto a meno e la vita in Italia continuerebbe allo stesso modo (non verrebbe meno lo Stato, la Pubblica amministrazione, continuerebbero gli scambi economici, i matrimoni, i divorzi, le scuole e tutto quello che associamo alla usuale vita quotidiana). Quindi evitiamo panzane.
Piuttosto, sotto il profilo storico, quell’articolo non è che il residuo del Regno d’Italia durante il fascismo, in cui esisteva una religione di Stato e alcuni divieti di tale religione assurgevano a delitto perché era lo Stato a stabilire come il cittadino dovesse vivere la sua vita.
La Corte costituzionale, considerato che il tema può essere considerato “caldo” sul tema politico, ha preferito procrastinare la decisione, ricordando che l’esistenza di uno “ius superveniens” fa venire meno la questione.
Sul piano morale si può discutere all’infinito su che tipo di regole conviene che la società adotti, al netto di deliri estremizzanti ed argomenti “del fantoccio” (l’individualismo estremo è un male come il collettivismo estremo da società-alveare come quella teorizzata dai totalitarismi del ‘900).
Ma scambiare l’opinione personale di qualcuno con quello che è l’ordinamento giuridico (astratto e complesso) è un errore logico, oltre che di presunzione.
Gaz
… qualcuno potrebbe sostenere che il lavoratore della pasticceria debba essere il pasticcione e non il pasticciere, soprattuto se più di una volta dimentica nelle procedure gli ingredienti ?
P.s. Per una scelta ecologica consapevole vota Ponzietto Pilato. Lui si lava solo una mano.
Fantax
Così scriveva Jacques Attali nel 1981:
“Dès qu’il dépasse 60/65 ans, l’homme vit plus longtemps qu’il ne produit et il coûte cher à la société. Je crois que dans la logique même de la société industrielle, l’objectif ne va plus être d’allonger l’espérance de vie, mais de faire en sorte qu’à l’intérieur même d’une vie déterminée, l’homme vive le mieux possible mais de telle sorte que les dépenses de santé soient les plus réduites possible en termes de coût pour la collectivité. Il est bien préférable que la machine humaine s’arrête brutalement plutôt qu’elle se détériore progressivement. L’euthanasie sera un instrument essentiel de nos sociétés futures.”
“Dal momento in cui supera 60/65 anni, l’uomo vive più a lungo di quanto non produca e costa caro alla società. Credo che nella stessa logica della società industriale, l’obiettivo non sarà più di allungare la speranza di vita, ma di fare in modo che all’interno di una vita determinata, l’uomo viva nel modo migliore possibile, ma in modo che le spese per la salute siano le più ridotte possibili in termini di costi per la collettività. È ben preferibile che la macchina umana si fermi brutalmente piuttosto che si deteriori progressivamente. L’eutanasia sarà uno strumento essenziale delle nostre società future.”
Jacques Attali, “L’avenir de la vie”, 1981
La voce narrante dello Scudo Rosso ci aveva già da tempo avvisati della volontà che anima gli oligarchi al comando del mondo, allora come oggi. L’assistenza degli anziani è un lusso riservato solo ai pochi eletti appartenenti alle élite che comandano, e anche lì per gradi. Così “essi” hanno deciso e così impongono. Agli altri è concesso vivere solo per “produrre”, cioè per sopravvivere facendo arricchire gli “eletti”, sempre illudendosi di vivere nel migliore dei mondi possibili, anzi nell’unico mondo possibile (la Storia è già finita all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso).
I Radicali, braccio secolare del liberalismo estremo e degni rappresentante degli schiavisti che scrissero una delle prime Costituzioni, l’unica oggi politicamente corretta e insanabilmente incompatibile con quella del 1947, sono come sempre all’avanguardia nella costruzione del Nuovo Ordine Mondiale. Li seguono a ruota i Liberi ed Uguali e le sinistre “sinistre” passate dalla fede assoluta ed acritica nel Comunismo a quella altrettanto assoluta ed acritica nel liberalismo maltusiano propugnata dal Paese Libero. Ogni disquisizione accademica o etica nel merito è per loro tempo perso: la linea è stata decisa dagli unici eletti a decidere, chi deve propagandarla (la “politica” e la Chiesa “francescana”) fa il suo dovere, gli altri si rassegnino: non c’è né ci può essere alternativa.
Le operazioni di ingegneria sociale volte a diffondere nel “popolo” la convinzione che l’eutanasia è “giusta” ed anzi “utile” al popolo sono già in corso da tempo e stanno dando i loro frutti, a cominciare dai Paesi come Belgio ed Olanda, ma anche Francia, dove certi valori religiosi sono stati e sono assai meno forti che da noi. Anche qui ci stiamo rapidamente adeguando: che cosa si poteva pretendere da una Corte costituzionale composta da uomini eletti quando le “sinistre” erano saldamente al potere? Nulla, se non quello che ha fatto: forse anche meno.
Pretendere che le élite accettino limitazioni democratiche del loro potere è tempo perso: per loro vale solo ciò che ben riassunse Alberto Sordi ne “Il marchese Del Grillo”. Siamo qui e da qui dobbiamo partire se vogliamo capire e magari cambiare qualcosa.
Quindi ben vengano contributi come quello di Andrea Muratore, ma solo se accompagnati da una visione realistica e non illusoria del problema. La priorità è spiegare al popolo, alla massa e alla moltitudine come stanno veramente le cose e cercare di contrastare, per quanto possibile, le azioni di ingegneria sociale in corso, inquadrando bene le parti in commedia. Poi, e solo poi, i dibattiti che ragionano nel merito potranno avere un senso.
Augusto
Sono assolutamente favorevole ad una eutanasia volontaria e ben regolamentata; questo per un semplice motivo:
se uno si vuole uccidere oggi lo si costringe a pratiche dolorosissime, con la regolamentazione, lo si potrebbe aiutare a desistire, in caso di reiterata volontá lo si potrebbe aiutare a morire “facilmente”.
Il comportamento odierno dello stato mi pare altamente inumano.
Nota per chi desiderasse commentare: “il solito radicale” o “il solito sinistroso”, errore;
sono su posizioni diametralmente opposte e lo si puó evincere da miei precedenti commenti.
Venceslao di Spilimbergo
Se la “stampa” fosse ancora degna di siffatto nome, un articolo come il suo dovrebbe essere in una delle prime pagine di uno dei cosiddetti “grandi quotidiani”! Congratulazioni vivissime, uno scritto meraviglioso e meritevole di profonda riflessione.
Allora ditelo
Qui si parla di persone costrette a sopportare un un calvario contro la propria volontà ed il “relativismo culturale” è proprio ciò per cui taluni potrebbero mostrare “insensibilità”.
Dubito che tante persone, disinvolte nel lasciarci immaginare fino a che punto altri possano mai soffrire, abbiano la vocazione di indossare volontariamente il cilicio o anche solo emulare per qualche mese le condizioni di vita di un tetraplegico (senza diventarlo effettivamente).
«Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.» — Convenzione Europea Diritti dell’Uomo
Va bene come valore codificato o oggettivo?
(Un peccato che non sia stato invocato ☹)
Una condizione inumana e degradante anche se non deriva da un “trattamento” può ben essere considerata tortura (basanos) e questa cognizione può ragionevolmente indurre a non essere persuasi da tesi che minimizzino la sofferenza di tali persone.
La sofferenza altrui non esiste? È illusoria? La si “misura” a chiacchiere?
Ci si può provare ad immedesimare ma l’esperienza sensoriale ed emotiva del calvario altrui ci è preclusa.
PS: A mio avviso è necessario un modico di modestia per avere in debita considerazione di non essere in grado di percepire “adeguatamente” la sofferenza delle persone.
Fra Diavolo
Una legge che autorizzi l’aiuto al suicidio è una barbarie. Basta un controesempio.
Premesse: ci sono solo due possibili motivazioni: 1) il rispetto assoluto della libertà e della volontà, per cui se voglio morire come mi pare, nessuno ha il diritto di opporsi e, di conseguenza, chi mi aiuta fa un’azione meritoria; 2) risolvere i casi drammatici (realmente esistenti) di sofferenza fisica e psicologica, per cui si può parlare di mancanza di una “vita degna di essere vissuta”. Ambedue i criteri sono del tutto fallaci (come lo sarebbe la loro combinazione: due ciechi non vedono meglio di uno).
1) Controesempio relativo alla volontà di rispettare la libera volontà di un individuo. Se è un valore sociale irrinunciabile la libertà di morire quando e come una persona voglia, dobbiamo avere il dovere verso tutti i nostri concittadini di aiutare chiunque ce lo chieda in modo inequivocabile (di modo che non si possa mettere in dubbio che io possa aver frainteso). Ma se lo dobbiamo a tutti, a maggior ragione lo dobbiamo a coloro verso i quali abbiamo doveri legati all’affetto e all’assistenza. Quindi, ecco il controesempio (e non si dica che è esagerato perché questa è la funzione dei controesempi paradossali: mettere realmente alla prova la tesi sostenuta):
– Torno a casa e trovo mio figlio con la testa nel forno (quello a gas), già svenuto. La sua volontà è stata espressa in modo incontestabile e, quindi, il mio dovere è quello di aiutarlo: mi accerterò che le manopole del gas siano bene aperte e che le finestre e la porta siano ben chiuse. Chi sostiene una proposta di legge per favorire l’aiuto al suicidio, deve avere il coraggio di fare in quel modo. Ho posto il quesito a tutti quelli che ho potuto, ma nessuno ha detto che lo farebbe.
2) Controesempio di una vita non degna di essere vissuta. Basta un nome: Hitler.
mirko g. s.
Complimenti! Anche se alla fine un pò ideologicamente virato verso una posizione mi sembra di aver letto finalmente un discorso sull’argomento logico, imparziale e se vogliamo coraggioso, oramai permettersi di parlare di no all’aborto, di no all’eutanasia, di no ai matrimoni ed adozioni gay, di no a qualsiasi altro tema caro all’universo di sinistra espone a scene di delirio, minacce, turpiloquio… su FB è praticamente impossibile un commento che sia fuori del coro “sinistrico” e d’altra parte il coro “destrico” è per certi versi ancora più acritico (e sono generoso). Tuttavia mi chiedo (e le chiedo) se ci sia qualcosa di etico nella sofferenza, soprattutto arrivati a certi livelli di insopportabilità. Sono cattolico e chiaramente vicino ad una certa mentalità eppure credo di aver cambiato idea sul valore morale della sofferenza… insomma che senso ha vivere esclusivamente per soffrire oppure per avere la quasi totalità della propria vita occupata dalla sofferenza, sofferenzaa che ti impedisce magari di fare altro che appunto soffrire? Parliamo di sofferenza ma la disperazione? Soprattutto io cosa farei se mi trovassi al posto di Welby o DJ Fabo?