Renzi fra Gentiloni e la Camusso.
Nel giro di una settimana il governo Renzi ha dovuto affrontare tre grane: la manifestazione della Cgil, il pestaggio degli operai di Terni ed il cambio della guardia alla Farnesina. Iniziamo dall’ultima cosa: che significato ha la nomina di Gentiloni? Per capire sino in fondo ci mancano dei passaggi: a quanto pare (ma vatti a fidare delle indiscrezioni giornalistiche!) Gentiloni non faceva parte della prima rosa di nomi offerta al Quirinale e che era composta da sole donne, di cui una sola di qualche autorevolezza internazionale (la Dassù). Non sappiamo per quali motivi Napolitano abbia respinto queste candidature, forse ritenendole troppo “leggere”, in una fase politica di crisi montante come questa presente. Se ne dedurrebbe che il nome di Gentiloni sia stato imposto dal Colle o che sia stato una sorta di compromesso fra i due presidenti. Ma non c’è ragione di pensare che Renzi possa proporre Gentiloni come candidato di “seconda scelta”: viene dalla Margherita, come gran parte dello staff renziano ed è dall’inizio nella cordata del fiorentino, inoltre ci sono ragioni specifiche per pensare che sia l’uomo più adatto ai bisogni di Renzi in questo momento.
Dunque, non era nella rosa iniziale, solo in omaggio al principio della “parità di genere” nel governo? Renzi è abbastanza fatuo per andare dietro a queste fesserie, ma la cosa non convince del tutto. Di sicuro, se l’esigenza di Napolitano era quella di un nome di maggior peso, Gentiloni risponde a questa esigenza e gli orientamenti del nuovo ministro degli esteri non gli dispiacciono. Ma allora come mai non ci si è pensato subito? Ecco qui c’è un passaggio che ci manca. In compenso la logica politica dell’operazione è abbastanza trasparente e proviamo a spiegarla.
Dopo una breve scapigliatura giovanile, che lo portò a militare nel Movimento Studentesco e nel Pdup per il Comunismo, ed una più matura collaborazione con il Manifesto (dove era ritenuto esperto di mondo cattolico), Gentiloni è andato a sciacquare i suoi panni nel Potomac, diventando uomo assai sensibile alle ragioni a stelle e strisce. Ed ancor più sensibile è diventato, con il tempo alle ragioni di Israele: è interessante constatare come proprio alla vigilia della sua nomina, Gentiloni abbia avuto un caloroso incontro con i maggiori rappresentanti della comunità ebraica italiana.
Prima che saltino su i soliti dietrologi che vedono Israele dietro ogni complotto o i più fanatici sostenitori di Israele ad accusarmi di antisemitismo per aver insinuato chissà cosa, preciso: niente oscuri complotti, ma uno scenario politico che è sotto gli occhi di tutti e che ha una sua logica interna. Non è un mistero che da almeno 5 anni (epoca del “discorso del Cairo” di Obama), Washington e Telaviv vanno in direzioni via via divaricanti e l’intesa non è più quella di un tempo. Israele avrebbe voluto l’intervento in Iran che non c’è stato, Israele non ha visto affatto di buon occhio la primavera araba che gli Usa hanno, in parte, incoraggiato, Washington si è mostrata meno allineata del passato ad Israele sulla questione palestinese. Ma soprattutto, in tempi recenti, è la questione energetica a dividere i due vecchi sodali: gli Usa hanno l’obiettivo strategico di indebolire la Russia ed, in particolare, la sua influenza sull’Europa, determinata dal peso delle sue forniture di gas. A questo scopo, gli Usa hanno cercato in tutti i modi di impedire la nascita del gasdotto Southstream, prima con il progetto concorrenziale di Nabucco, dopo spingendo per l’inserimento del Quatar nella rete metanifera europea. Entrambe le questioni vedono al centro il nostro paese: Southstream avrebbe dovuto essere costruito dall’Eni (ora non sappiamo che fine farà il progetto), mentre la via più semplice per agganciare il Quatar alla rete europea è agganciarlo al gasdotto italo-libico-algerino; cosa tentata nel 2005 e bloccata dal governo Berlusconi, per evidenti preferenze moscovite. Cosa che i quatarioti si legarono al dito, rendendo all’Italia pan per focaccia in occasione della crisi libica. Va da sé che Israele veda il piano di inserimento del Quatar come il fumo negli occhi; ed è ovvio, dato che il Quatar finanzia i Fratelli Musulmani e accentuare la dipendenza dell’Europa dalle forniture di un paese arabo è in palese contrasto con i suoi interessi strategici. Per questo si è determinata una oggettiva convergenza fra Mosca e Telaviv.
La cosa era tornata per un attimo alla ribalta (all’inizio della crisi ucraina) in occasione del viaggio di Letta in Quatar per trattare sul loro ingresso in Alitalia. Poi la tempestiva crisi del governo Letta bloccò sul nascere la ripresa del disegno.
Dopo, con il governo Renzi (sul quale si sa avere molta influenza l’economista Yoram Gutgeld, già ufficiale superiore dell’esercito israeliano), sono venute le nomine Eni con la promozione di De Scalzi al posto che fu di Scaroni e, con essa, la conferma piena degli orientamenti filorussi dell’ente petrolifero di Stato. Insomma nel governo Renzi si è riprodotta in sedicesimo quella convergenza russo-israeliana di cui dicevamo. E gli americani non hanno affatto gradito, riservando al giullare fiorentino più di uno sgarbo. Poi, puntuale come Big Ben è arrivato lo scandalo Nigeria, che ha colpito De Scalzi, oltre che Scaroni. Renzi in un primo momento ha difeso a spada tratta De Scalzi, ma si è molto raffreddato quando questi, per salvarsi, ha buttato a mare Scaroni (“decideva tutto lui”). Ed il gelo è sceso in occasione della visita di Italia di Li Kequiang, quando, alla cerimonia della firma dei contratti d’affari conclusi, tutti hanno notato la clamorosa assenza di De Scalzi, unico a mancare fra i big delle imprese di Stato.
Insomma, mi pare che tutto confermi che sia in atto una nuova puntata della guerra segreta dei gasdotti e che essa passi per il governo italiano.
Di qui la necessità di un ministro degli esteri molto ben accreditato sia presso Washington che presso Telaviv per trovare una mediazione in un conflitto che potenzialmente può travolgere il governo.
E meglio ancora se questo mediatore disponga di buone entrature in Vaticano e sia amico di un personaggio come Stefano Silvestri (altro ex estremista passato al campo a stelle e strisce) che può contare a sua volta su amici a Mosca ed a Washington. Come mai un nome così perfetto non è stato la prima scelta? Forse perché occorreva coprirlo con altre candidature di parata, per non bruciarlo nel partito, dove c’erano altri candidati pure renziani? O per distrarre l’attenzione dal vero senso dell’operazione? Chissà, dovremmo avere più informazioni.
Tanto più necessaria è stata questa operazione a causa del forte rischio di indebolimento interno del governo. E qui veniamo ai guai con la Cgil che, di riflesso, riaprono le ferite con la minoranza interna. La Cgil, con i suoi quasi 5 milioni di iscritti, è un pezzo non irrilevante dell’elettorato Pd: pur depurando il dato dai gonfiamenti, tenendo conto del fatto che moltissimi iscritti non seguono le indicazioni elettorali del sindacato e votano Sel, Lega o M5s, resta pur sempre una quota maggioritaria che vota Pd e, considerando anche il “voto familiare”, una quota di 2 milioni-2milioni e mezzo di voti al Pd è una stima prudenziale. Il che significa un buon 6-7,5%. Anche ipotizzando il distacco di una metà di essi, significherebbe un 3-4% che se ne va. Renzi, ne sono convinto, vuole disfarsi della sua sinistra interna, ma non vede affatto di buon occhio il sorgere di un partito concorrente alla sua sinistra, con il 10-12% dei voti (mettendo insieme gli attuali elettorati di sinistra Pd, Sel, Rifondazione ecc) e che magari giochi di sponda con il M5s. Nel suo schema di gioco il Pd deve trasformarsi stabilmente in un partito interclassista di centro destra, che non faccia più neppure finta di essere di sinistra (medita anche di cambiare il nome in Partito della Nazione), ma la sinistra non deve proprio esistere, né come corrente interna né come partito esterno, deve semplicemente scomparire e non avere più alcuna rappresentanza. L’idea di Renzi è quella di un grande pachiderma al centro del sistema politico, con una serie di forze di opposizione minoritarie né coalizzabili fra loro,
né in grado, ciascuna, di sfidare credibilmente il pachiderma.
Qualcosa si simile a quello che è stato per lunghissimo tempo il Partito del Congresso in India (sempre che Renzi sappia dove sta l’India). Il tutto sostenuto da un sistema elettorale fortemente disrappresentativo e con alte soglie di accesso, e da un partito del leader, di tipo plebiscitario, con pochissimi iscritti e privo di democrazia interna,
Per fare questo, Renzi non può permettersi una scissione (a meno che non si tratti di una pattuglia sotto quota di accesso, che resta fuori alle prime elezioni). Deve far fuori i suoi oppositori uno alla volta, disarticolarne le correnti, silurarli negli enti locali e nel partito, per poi arrivare al botto finale in occasione delle elezioni politiche, quando saranno epurati dalla liste tranne una mancia di 5 o 6 superstiti. La totale mancanza di coraggio di Cuperlo, Bersani & c., che si rifiutano di capire che non c’è possibilità di riscossa interna e che ogni giorno che passa li indebolisce, è la risorsa migliore di Renzi.
In questo quadro, lo scontro con la Cgil diventa potenzialmente molto pericoloso, nonostante il teatrino messo in scena dalla Camusso e Landini, perché la cosa può sfuggire di mano a tutti e spingere a quella scissione che ora non deve avvenire.
Ma cosa accadrebbe se la Cgil –oltre che fare lo sciopero generale che va benissimo- minacciasse di dare indicazione di non votare il Pd nelle prossime elezioni, costatata la sua politica apertamente antisindacale? Sarebbe divertente vedere la reazione di Renzi che, nel frattempo, sta vedendo calare i suoi consensi nei sondaggi.
Ma la Camusso avrà mai un ardire del genere? Figuriamoci!
Aldo Giannuli
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