Referendum scozzese: una lezione capita a rovescio.

Come era prevedibile, il referendum scozzese ha tenuto banco sui giornali per diversi giorni; quello che non era prevedibile è stata la valanga di sciocchezze che abbiamo letto. Tutti -o quasi- hanno constatato che, con la decisione di Londra di ammettere il referendum  -riconoscendo implicitamente il diritto all’autodecisione degli scozzesi- hanno “sdoganato” il principio per tutti gli altri. E l’esito, che ha bocciato la proposta indipendentista, rafforza questa tendenza, perché lo Stato centrale può sempre pensare di vincere il referendum e, con questo, rilegittimarsi agli occhi dei suoi cittadini. Pertanto, non ci sarebbe motivo di rifiutare la proposta referendaria, anche per gli altri stati nelle stesse condizioni. Ad esempio, per Madrid sarà ora più difficile opporsi alla richiesta dei catalani. Sin qui non c’è ragione di dissentire: il senso di quello che è accaduto va sicuramente in questo senso. I guai cominciano dopo.

I cantori della “fine del centralismo” dichiarano superato il principio nazionale e disegnano improbabilissime architetture istituzionali futuribili. Ulrich Beck su “Repubblica”, Piero Bassetti ed Antonio Armellini  sul “Corriere” si sono scatenati a ipotizzare forme di governo “glocal”. Armellini è il più cauto: pensa a forme di devolution più spinte che tutelino le identità delle nazionalità minoritarie senza mettere in discussione lo stato nazionale. Più scatenato è Bassetti che sogna di saltare l’anello dello stato nazionale in favore di una rete di forme locali di autogoverno, città libere, regioni e province autonome ecc coordinate da strutture di governo globale non si capisce espresse da chi. Per culminare nella “sociostar” Beck che pensa ad una Unione europea con i vertici attuali (più o meno) sotto i quale il vero centro decisionale sarebbero le grandi aggregazioni metropolitane e cosmopolite, Che idea geniale!!

In un prossimo articolo discuteremo quanto sia auspicabile un modello istituzionale del genere che a sinistra piace tantissimo: dai centri sociali ai piddini a la page, dagli anarchici agli ecologisti è tutto un fiorire di cantori della democrazia delle comunità locali che, però, non vogliono assolutamente rimettere in discussione la globalizzazione che è sinonimo (per loro) di internazionalismo, universalismo, modernità, solidarietà umana ecc. E, dunque, cosa di meglio di un bel sistema “glocal”?

Tutti questi si dividono fra quelli che fanno come se ci fosse solo l’Europa e il resto del Mondo non esistesse e quelli che pensano che questa tendenza “glocal” sia generale e destinata ad affermarsi sull’orbe terracqueo intero. Pensate ad “Impero” di Negri ed Hardt.

E dunque, verifichiamo in primo luogo l’assunto che si tratterebbe di una tendenza generalizzata a livello mondiale, per cui dobbiamo pensare ad un futuro caratterizzato da una governance mondiale sotto la quale agisce una miriade di comunità locali più o meno debolmente collegate (o forse no) in patti macro regionali o in larvali sopravvivenze di stati nazionali.

Nelle Americhe l’unico caso di rilievo è quello dei francofoni del Quebec, mentre del tutto secondarie e trascurabili appaiono effimere ventate indipendentiste negli Usa o in Messico: nulla di serio che possa mettere in discussione gli attuali stati nazionali, almeno in un futuro politicamente prevedibile. Anche nel sud non si apprezzano tendenze di qualche consistenza in questo senso e gli stati nazionali non sembrano in discussione.

Nell’area mediorientale ci sono alcuni casi di notevole peso (Palestinesi, Curdi, Armeni, recentemente cristiani ed animisti del Sud Sudan e pochi altri) che aspirano a separarsi dagli attuali stati nazionali, ma per dar vita a propri stati nazionali. Questi casi si sommano a questioni di frontiera che, più che prefigurare nuovi stati, ipotizzano il passaggio di alcune regioni ad altra aggregazione statale (ad esempio gli sciiti di Iraq); ma, nel complesso, le linee di frattura prevalenti sono altre (sunniti/sciiti; islam turco-egiziano / islam beduino; panarabismo/panislamismo; stati repubblicani/monarchie ecc.). Pertanto, gli stati nazionali, nella maggior parte dei casi, non sembrano in discussione mentre si osservano tendenze diffuse a guerre civili interne (Egitto, Algeria, Yemen, Barhein), che nei casi estremi (Libia, Iraq e Siria) si connettono ad antiche linee di frattura etniche, religiose e tribali portando alla dissoluzione dello Stato nazionale, senza che si possa ancora comprendere verso dove si stia andando. In ogni caso, sembra trattarsi di dinamiche centrifughe di natura diversa da quella dei casi europei.

Nell’Africa sub sahariana le tendenza indipendentiste si sono manifestate vivacemente subito dopo l’avvio del processo di decolonizzazione (Katanga in Congo, Eritrea, Ogaden e Tigrai in Etiopia, Biafra in Nigeria ecc. che, comunque, avevano più carattere etnico-tribale o religioso che propriamente nazionale) che si incrociavano ad insorgenze nazionaliste contro le residue situazioni coloniali (Angola, Mozambico, Guinea, Costa dei Somali, sino al 1962 Algeria). Ma, allo stato dei fatti, gli attuali assetti statali hanno pochissime sfide di natura indipendentista, mentre sembrano prevalere altre dinamiche come quella dello scontro fra Islam e culture di tradizione animista o cristiana.

In Oceania il problema non si pone affatto, mentre in Asia le cose si prospettano in modo assai diverso, perché nei due maggiori paesi, India e Cina, si prospettano sfide separatiste (Xinjiang e Tibet in Cina, Uttar Pradesh in India dove c’è pure l’annosa questione del Kashmir), ma prevalentemente si tratta di questioni di frontiera, peraltro sin qui abbastanza controllate, che non intaccano affatto il nucleo centrale dello Stato: se anche Tibet, Uttar Pradesh o Xinjiang se ne andassero, Cina ed India resterebbero comunque grandi potenze con una popolazione superiore al miliardo di persone. Quanto alla maggioranza degli altri stati nazionali (come il Giappone, le Filiippine o la Thailandia) il fenomeno è sostanzialmente assente. Unici casi di qualche peso sono quelli dei curdi iraniani, degli sciiti pakistani e di Timor est in Indonesia. Ma, anche in questi casi, il nucleo centrale dei rispettivi stati nazionali non appare in discussione.

Veniamo ora al caso Europeo: accanto a rivendicazioni di indipendenza di antica data (Scozzesi, Irlandesi, Catalani, Baschi), a partire dagli anni settanta,  sono andati via via manifestandosi altre richieste di indipendenza o di “autonomizzazione estrema” (Sardi, Galiziani, Andalusi, Corsi, Bretoni, Kosovari, Macedoni ecc.) e negli ultimi tempi il fenomeno si è fatto valanga. Allo stato attuale si contano circa 150-200 potenziali separatismi, che si sommano alla tendenza all’autonomizzazione delle 500 regioni che compongono la Ue-

Dunque, possiamo stabilire un punto: questa tendenza al decentramento localistico ed alla “secessione a catena” non è una tendenza generale, come molti, sragionando sostengono. E’ un fenomeno schiettamente europeo e che, una ventina di anni fa, ha colpito l’ex Urss.

Questa è la solita storia per cui l’Europa legge il Mondo attraverso le sue dinamiche interne per le quali pretende che quando lei ha il mal di pancia tutti gli altri abbiano la diarrea. Per cui, senza porci per ora il problema del se questo sia auspicabile o meno, dobbiamo ragionare in termini di tendenze regionali del Pianeta e, pertanto, di un aumento della asimmetria globale, per cui a grandi stati asiatici ed americani si contrapporrebbe una aggregazione colloidale europea, fatta di circa 5-600 entità locali (regioni, città metropolitane, provincie autonome, mini-stati nazionali e magari granducati).

Si badi che non si tratterebbe comunque di autonomie locali, nel senso attuale del termine, ma neppure soggetti pienamente sovrani, ma di qualcosa di intermedio fra le due cose. Quello che è peggio è che questa dinamica allo spezzettamento non è arginabile ed ogni secessione prepara la successiva. Dopo vedremo come.

Aldo Giannuli

aldo giannuli, antonio armellini, crisi dello stato, crisi europa, etnoregionalismo, glocal, glocalismo, impero, piero bassetti, referendum scozia, scozia, separatismi, stato di diritto, toni negri, ulrich beck, unione europea


Aldo Giannuli

Storico, è il promotore di questo, che da blog, tenta di diventare sito. Seguitemi su Twitter o su Facebook.

Comments (13)

  • Mah. Mi pare ci sia una grande confusione.
    Sicuramente il mestiere di studio della storia e della scienza politica sia completamente informato da criteri quantitativi e da un realismo che assieme producono una semplificazione esagerata. Tuttavia una fase storica infelice non dovrebbe impedire di immaginare mondi diversi e possibili. In questo senso confondere nello stesso calderone tutti coloro che si confrontano con il declino degli Stati Nazionali e considerare la forma “Stato Nazionale” omogenea è sbagliato, oltre che essere infine del tutto irrealistico.

    A me però interessa più la questione dell’altro mondo possibile. Qui non ci siamo proprio. Nel tuo articolo ci sono diversi riferimenti a separatismi della più diversa natura di cui fai un mazzetto (ma sembrerebbe che ne vuoi fare una cartina esaustiva).
    Però quando fai riferimento a teorie che superano lo Stato Nazione per disegnare nuovi mondi possibili (e citi continuamente Impero) dovresti confrontarti con i loro contenuti.
    Allora vediamo solo qualche piccolo esempio più complesso e difficile da liquidare con una analisi 1ualitativa di 5000 battute.

    – In Sud America a fianco del socialismo del XXI secolo, (o nuovo corso di centrosinistra, a seconda del punto si vista che se ne ha), stanno, in rapporto contraddittorio, ma crescentemente conflittuale, una miriade di movimenti indigeni che rivendicano autodeterminazione e difesa ecologica della terra (Patchamama). Stiamo parlando della principale base elettorale di Morales e Correa (che a volte ne prende le distanze definitive). Per non parlare di ciò che accade in Brasile dove milioni di poveri si apprestano a votare Marina Silva (in un quadro assai più complesso di quanto ne dava conto un articolo comparso sul blog e del tutto orientato sul piano geopolitico) assieme a ceti più benestanti per sfidare il modello “extractivista”.

    – In Kurdistan (materia di cui in Italia si è cominciato a parlare,mantenendo però una profonda ignoranza) non c’è nessun separatismo al di fuori della Regione Autonoma iraquena che è già di fatto indipendente. Il PKK da più di dieci anni non rivendica lo Stato Nazionale ma bensì (orrore) una confederazione democratica di comunità multietniche. Proprio quella che in Siria è difesa da milizie popolari composte anche da non-curdi contro gli attacchi Jihadisti e in Turchia è ricercata con la via diplomatica (sostenuta da un esercito di guerriglia pronto a entrare di nuovo in azione) e dalle vittorie elettorali del partito legale che punta ad essere non già un partito etnico kurdo, ma il principale partito di opposizione a Erdogan, votato anche dalla sinistra turca.

    – In India un terzo del territorio nazionale (non so se mi spiego) è interessato dalla guerriglia dei gruppi maoisti che organizzano i “tribali”, potremmo dire gli indigeni, contro il modello neoliberista di sfruttamento delle risorse naturali che mira a distruggere ecosistemi.

    – In Messico da 30 nni l’EZLN porta avanti una esperienza che è dientata un effettivo autogoverno di una regione del Chiapas. Anche qua nessuna velleità indipendentista, ma l’idea dell’autogoverno delle comunità, tanto diffusa nell’America Latina.

    – I movimenti urbani del mondo Occidentale vivono un momento sicuramente non brillante (non che le altre situazioni citate perlopiù in guerra permanente se la passino bene). Però è sin dagli anni ’70 (per esempio con il Black Power e speratismo nero) che si producono movimenti che rivendicano l’autonomia dallo Stato Nazionale (non in virtù del separatismo ma in virtù dell’autogoverno dei territori). La stessa Val Di Susa è impossibile da comprendere se non in questa ottica: un movimento contro lo Stato e contro la tecnocrazia europea contemporaneamente.

    – Infine qualche piccola nota di teoria: faccio notare che oltre a Toni Negri e Michael Hardt con Impero, Comune e Moltitudine non mancano i teoric che hanno ispirato i movimenti globali che propongono indicazioni simili. I libri di holloway (già negli anni ’90 scriveva “cambiare il mondo senza prendere il potere”), Naomi Klein e le ultime cose che ha scritto sulla difesa del pianeta e i movimenti che la assumono (in arte coincidenti con quelli che ho citato sopra). Gli anarchici americani che hanno ispirato Occupy Wall Street.
    Marcos e Ocalan li ho già citati nel quadro dei loro movimenti politici.

    Infine ricordo di un certo Carlo che inaugurò una secolare lotta contro lo Stato. Non era Carlo Magno nè Martello. Però è normale che in un secolo e mezzo abbondante le interpretazioni di questo signor Carlo siano state così tante e ricche da potergli attribuire quasi tutto, nè ci tengo ad apparire un custode della sua ortodossia. Solo rimango colpito dalla passione per lo “Stato Nazionale”. Ricordo che 100 anni fa nel mondo social-comunista-anarhico si discuteva con forza se fosse necessario abolirlo o estinguerlo tramite dittatura o estinguerlo tramite rappresentanza parlamentare. Mantenerlo sembrava a tutti una pessima idea. Visto che fu mantenuto e visti i risultati, forse lo era.

  • trovo fondamentale ricordare che ritenere che la globalizzazione non sia un fenomeno cancellabile dall’oggi al domani ( e che non si capisce nemmeno come cancellarla dopodomani) non sia equivalente ad apprezzare la globalizzazione. significa semplicemente segnalare l’asimmetria esistente tra i processi globali e quelli nazionali, e quindi il fatto che i secondi siano soverchiati dai primi. chiaramente questo non implica la rinuncia alla rappresentanza che spetta ai cittadini di uno stato nazione, ma tutt’al più di ampliarla attraverso strumenti a largo raggio. in caso contrario è logico che il sorgere dei localismi è cosa eminentemente di destra, che produrrebbe solo isolamento. non si può vedere tutto in bianco e nero, per cui o ci si rassegna ai fallimentari strumenti dello stato nazione oppure ci si rassegna a meccanismi di rappresentanza ancora minori. se si vuole cambiare qualcosa bisogna andare oltre a questo schema binario e pensare ad aggregare un blocco sociale perlomeno su scala europea. infine faccio notare che grillo e casaleggio riguardo a neoliberismo e globalizzazione sono molto più ambigui di negri: insomma mi sembra la solita storia della pagliuzza e della trave

  • Mi trovo in profondo disaccordo sia con Giannuli che con Que Se Vayan. Andiamo con ordine:

    -Que Se Vayan, senza offesa, ma mi pare si vaneggi e non si parli di opzioni concrete. L’apologia della democrazia diretta direi che ha fatto il suo tempo ed è stata seppellita dal fallimento del movimento radical-chic No Global. Sia chiaro: io sostengo i movimenti di cui tu parli (pur senza renderli più grandi di quello che sono e al tempo stesso riconoscendogli un’importanza comunque cruciale in questa fase di profonda crisi reazionaria), però non ci si può fermare all’autocelebrazione e al compiacimento; sono esperimenti profondamente limiti e insufficienti, serve dargli forza inserendoli in un discorso più ampio e che si sappia confrontare con l’ostilità delle grandi potenze.

    – Giannuli anzitutto una piccola correzione di fondo: mettere insieme municipalismo, cosmopolitismo, nazionalismo e indipendentismo non è corretto da un punto di vista teorico e metodologico. Sono quattro filoni di pensiero con diversa storia, diversa sfaccettatura interna, diversa diffusione e radicamento, diverse origini politiche. Non è possibile affermare che tutti e quattro i filoni di pensiero (ripeto: presi nelle loro molte correnti interne)sono, in questo momento, avversari del principio di sovranità (che comunque, come lei mi insegna, è sempre una finzione politica, giuridica, ideologica necessaria); in particolare, il municipalismo (uno dei pochi terreni su cui la riflessione politica a sinistra ha prodotto, in modo confuso e poco diffuso, una riflessione interessante e concreta) per certi versi porta all’estremo il principio di sovranità, inserendolo in un contesto confederale di più ampi territori autonomi, ma nè isolati, nè autarchici.
    Comunque, pur riconoscendo con lei i limiti e la grande confusione che c’è nella sinistra divisa tra i falsi riformisti della tecnocrazia e gli utopisti sostenitori di un altermondismo “senza cambiare il potere” (orrore: cosa significa?), però come ne usciamo? Siamo schiacciati tra la realpolitik delle grandi potenze, la crisi che erode sistemi democratici e statali di antica data, sostenitori di un cosmopolitismo tecnocratico o di un nazionalismo delle “più o meno piccole patrie”, una modernizzazione autoritaria nei cd. “Emergenti”: che si fa?
    L’unica soluzione che, a livello ultra-teorico, mi viene in mente è la creazione di spazi locali e regionali liberi dal Sistema Internazionale, che progressivamente ne fuoriescono organizzando un modello di governo e di aree differente; sono ben conscio che questo non potrebbe avvenire in modo indolore, nè che la comunità internazionale (in tutte le sue correnti, da quella democratico-liberale di marca occidentale a quella autoritaria) lo permetterebbe in modo pacifico. La permeabilità tra sistemi nazionali e internazionali è troppo forte. Tuttavia, se un’ipotetica sinistra rivoluzionaria dovesse andare al potere (perchè senza potere non si cambia nulla) dovrebbe puntare esattamente a questo obiettivo: autonomizzarsi, costruire relazioni con i paesi e i governi potenzialmente e a gradi diversi alleati, sostenere i movimenti politici a sè affini negli altri paesi, puntare quindi alla progressiva costruzione di un sistema internazionale alternativo e non gerarchico. Rifondato su presupposti e basi completamente diverse.
    Utopia? Non confondiamo opzioni politiche con fantasie oniriche. E’ tempo di ipotizzare strappi radicali e svolte possibili: il punto debole dell’estrema sinistra oggi è sostenere esperimenti locali, senza mettere in dubbio il sistema politico e il capitale internazionale; il punto debole della sinistra “realista” è proporre o ricette vecchie (statalismo novecentesco) o appiattirsi sull’esistente (realpolitik e cosmopolitismo dei grandi organismi internazionali). Rompiamo questo meccanismo e questo circuito di base reazionario.
    L’unica soluzione è avviare un processo davvero internazionalista e di ampio respiro: andrà incontro a contraddizioni, difficoltà, povertà, reazioni violente (sia militare che economiche); ma le rivoluzioni non sono processi facili nè lineari. L’importante è avere chiaro l’obiettivo e costruire progetti che possano garantire un ampio consenso, in grado di sostenere anche nei momenti di maggiore difficoltà.

    H.

  • Il fenomeno della “frammentazione” è naturale esito della privatizzazione delle realtà statuali e della smaterializzazione del trinomio sovranità, territorio e popolo.

    Gli stessi USE sono stati promossi dalle destre reazionarie ed elitarie proprio perché il risultato del processo di integrazione non sarebbe stato un “super-stato” ma, come ricordo sempre, ci sarebbe stata quella “dispersione di sovranità” (cfr. F.A.Hayek) necessaria a rendere impossibile l’intervento dello stato in economia.

    Poiché la politica economica “keynesiana” è condizione necessaria delle democrazie sostanziali pluriclasse e fondate sul lavoro, e dato l’art.11 Cost., le sovranità nazionali tramite dispersone e tramite frammentazione sono de facto cedute a queste nuove realtà statuali a carattere privatistico.

    La cessione della sovranità NON permessa dall’art.11 Cost. diventa una finzione giuridica per legittimare de facto la totale restituzione della sovranità dal popolo – demos – al Principe.

    (Ricordo che la sovranità degli artt. 1 e 11 Cost. sono due aspetti giuridici del medesimo valore sociale tutelata: la Democrazia)

    L’Europa delle Democrazie costituzionali e della suprema cultura democratica era ed è la vera sfida per la restaurazione.

    Poiché questi fatti sono noti da almeno un secolo a parte che a quei due caproni della politica che furono Spinelli e Rossi, il progetto che si vuole realmente mondializzare ab origine è quello Paneuropeo, creando “macroregioni” senza nessun senso geografico e culturale, condotte e organizzate come corporation.

    L’offuscamento totale dei processi politico-decisionali, la totale mobilità dei fattori della produzione, il conseguente multi-etnicismo e la “sradicazione culturale all’americana”, i monopoli “tecnici” sulla captive demand, e altre mostruosità che porto da tempo a favore del dibattito, saranno il risultato della più grande e permanente vittoria di classe… a scapito dei lavoratori.

  • Interessante osservare come tutti questi movimenti indipendentisti siano coordinati a livello europeo tramite l’European Free Alliance
    http://www.e-f-a.org/about-us/

    Mi convinco sempre più che la strategia di medio-lungo termine sia quello di arrivare ad una europa “unità” passando tramite una fase di distruzione/devoluzione degli stati nazionali, promuovendo l’autonomismo regionalista.

  • che l’europa unita tramite la dissoluzione progressiva degli stati nazionali sia una delle piste su cui lavora l’elite europea per completare il suo disegno di restaurazione della società capitalistica come era nel 1800 è fuor di dubbio.

    che questo piano possa funzionare è un altro paio di maniche. finora ha funzionato abbastanza bene. basti pensare al ruolo DETERMINANTE di un partito come la Lega Nord nell’arginare la possibile formazione di un fronte del lavoro italiano…

    dicevo finora la cosa ha funzionato. non è detto che funzioni anche dopo la fine della grande depressione/deflazione europea.

  • A mio parere, l’accresciuta spinta verso la progressiva frammentazione a cui assistiamo in Europa è la risposta indiretta al sequestro di sovranità che le nazioni storicamente presenti in europa hanno subito. In sostanza, gli stati vanno perdendo assieme alla sovranità la loro stessa legittimazione, perchè un cittadino medio sente che tutto ciò che lo stato gli chiede, in primis il peso fiscale, non ha alcun corrispettivo in quelle che dovrebbero essere gli scopi stessi di uno stato, la difesa dei propri cittadini dalle forze extranazionali, che oggi sono costituite dal sistema bancario globale. Lo stato, nel momento in cui accetta di ridimensionare la propria sovranità, danneggia i cittadini e quindi sembra logico chiedersi a cosa serva mai questo stato.

    Il risultato è che predono forza tutti quei legami identitari derivanti da una storia anche lontana, mai scomparsi, ma che stavano ben celati, dormienti nelle popolazioni, e che si risvegliano come soluzione alternativa per garantirsi l’appartenenza ad una comunità sovrana, per sottrarsi alle mani dei potenti da governi collusi. E’ la stessa sottomissione a interessi lontani e ritenuti arbitrari che genera la rincorsa a nuove forme di sovranità, che finiscono così per moltiplicare in modo improbabile i soggetti collettivi sovrani.

    Per quanto riguarda le possibili strategie da adottare per tentare di sfuggire alla morsa di questi poteri finanziari globali, ho letto negli interventi precedenti molte cose interessanti. Tuttavia, mi pare che il centro delle riflessioni dovrebbe concentrarsi su una specifica domanda: gli stati sovrani sono utili o dannosi per una strategia di questo tipo?

    Dire che sono utili, non significa dire che essi costituiscano il fine stesso della strategia politica, significa solo stabilire se essi possono rivelarsi uno strumento che facilita il raggiungimento dei fini o se invece possono essere d’intralcio.

    Dico già da parecchio tempo che lottare perchè il proprio paese rivendichi sempre più spazi di sovranità remando in direzione opposta alla corrente prevalente costituisce l’unica forma credibile di internazionalismo.

    Mi pare che l’opinione di Heraclio sia prossima alla mia, ma non capisco il riferimento che egli fa a un’aggregazione di stati, ponendola come punto di partenza, una specie di globalismo alternativo. Ma se davvero questi stati ci fossero, allora il globalismo bancario imperante non avrebbe raggiutno i successi disastrosi che vediamo. Il punto è che questi stati che abbiano sviluppato un progetto come quello che immagino non esistono, ed è proprio per questo, per la testimonianza potenzialmente aggregante di un primo esempio di uno stato di questo tipo, che affermo che questo soltanto è il vero internazionalismo dei nostri giorni.

    Lo stato insomma che oggi prendesse l’iniziativa di accentuare la propria sovranità anche attraverso la ricostituzione di forme di controllo del movimento di merci e di capitali potrebbe indurre un fenomeno analogo in altri stati e mettere in crisi progressivamente il progetto globalista. Quindi, io vedo al costituzione di nuove comunità di stati come risultato e non premessa di questo processo.

    Infine, mi preme ribadire che l’aternativa a queste mie proposte non è costituita dal lento prevalere del globalismo imperante, questo non può andare avanti, l’alternativa è il disastro prima economico e poi civile dell’umanità, senza potere purtroppo escludere eventi bellici con uso eventuale degli ordigni atomici.

  • vincenzo è come l’uovo e la gallina: se è difficile che più stati si discostino dalla via neoliberista, la cosa è ancora più difficile per un singolo stato. d’altra parte uno dei presupposti per un isolamento commerciale con l’estero è un certo grado di autosufficienza, anche alimentare. l’europa potrebbe essere autosufficiente a livello alimentare, l’italia no. e non mi dire che basta fare morire di fame metà della popolazione che si diventa autosufficienti…

  • Giandavide, lascia perdere l’uovo e la gallina. Io dico che si deve partire con ciò che si ha, e se a livello mondiale non c’è nulla che assomigli al proprio modello, bisogna andare avanti da soli (la guerra di indipendanza degli stati americani contro la madrepatria inglese partì da sola, la rivoluzione francese scoppiò solo in Francia, e così via, chi vuole cambiare il mondo, deve rinunciare a contare su alleanze delle quali mancano i presupposti.
    In tutti i casi che ho citato l’iniziativa singola si è rivelata foriera di benefici contagi nel resto del mondo, questa è la sola via esistente.

  • dico che si parla dell’uovo e della gallina per il fatto che, qualora si strutturino proposte alternative per la società, è difficile che esse si affermino in un solo paese. se hanno la forza di affermarsi in un contesto nazionale, allora avranno automaticamente appeal anche nei contesti vicini – a meno che non si tratti di ricette chiuse e localistiche, e in quanto tali irrilevanti –
    il mio è semplicemente un discorso tattico: stando divisi è praticamente impossibile sconfiggere un nemico più forte. anzi gli antichi cacciatori quando vedevano un grosso animale, tendevano ad accerchiarlo piuttosto che affrontarlo uno alla volta. ed è per questo che l’umanità è andata avanti, non certo grazie a quelli che ritengono che si possa fare tutto da soli

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.