Rajoy, rafforzato dalla crisi dei socialisti e dall’instabilità europea

Torna a scriverci dalla Spagna l’amico e brillante studioso Steven Forti, di cui avevamo proposto alcuni mesi fa, la recensione del suo recente libro su Ada Colau a Barcellona. Seguitelo nelle sue molteplici esperienze culturali, buona lettura e grazie a Steven! A.G.

La situazione politica spagnola dell’inizio di questo 2017 è ben diversa da quella di solo un anno fa. A gennaio del 2016 Mariano Rajoy sembrava un cadavere politico. In pochi scommettevano sul leader del Partito Popolare (PP): una formazione, colpita da continui scandali di corruzione, che aveva perso più di 3,5 milioni di voti nelle elezioni di dicembre 2015. Un governo di coalizione a sinistra non sembrava solo un miraggio – con Podemos che aveva superato il 20% e aveva mancato di un soffio il sorpasso ai socialisti – e la possibilità di mandare all’opposizione il PP e di aprire una nuova tappa per la Spagna era condivisa da gran parte della popolazione.
Ma Rajoy è un politico che della resistenza ha fatto il suo lemma e il suo modus operandi. Fin dal momento in cui aveva sostituito José María Aznar alla guida dei popolari nel lontano 2004: due elezioni perse contro José Luis Rodríguez Zapatero, otto anni di opposizione, una crisi interna alla sua formazione che lo voleva spodestare. “Resistir es vencer”. Resistere è vincere. Controllando la struttura di un partito ancora radicato sul territorio, facendo solo le dichiarazioni necessarie, non rilasciando interviste, evitando il protagonismo sulle reti sociali, tanto amate dagli esponenti della nuova politica. Rajoy ha lasciato l’iniziativa ai suoi avversari, divisi tra loro, che ne hanno sofferto le conseguenze. L’accordo a tre tra Partido Socialista Obrero Español (PSOE), Ciudadanos e Podemos non è andato in porto in primavera e alle elezioni di giugno il PP ha migliorato il suo risultato.

Il discorso della paura al cambiamento e all’instabilità, con il Brexit di fondo, ha fatto centro. E nei lunghi mesi di impasse tra l’estate e l’autunno, Rajoy non si è mosso di un millimetro, obbligando gli altri a cedere. Prima è toccato a Ciudadanos, che ha firmato un accordo di governo con il PP. Poi al segretario generale socialista Pedro Sánchez, che è stato costretto alle dimissioni da un PSOE spaccato sull’opzione di permettere la rielezione di Rajoy. Così, a fine ottobre, a un giorno dall’ora X in cui si sarebbero dovute convocare le terze elezioni in solo dodici mesi, Rajoy è stato rieletto con i voti di Ciudadanos e l’astesione dei socialisti. Il leader popolare, di poche parole e apparentemente con poco appeal, è stato l’unico vero vincitore dell’anno in cui la Spagna ha vissuto senza un governo.

La legislatura che si è aperta non è comunque facile per il PP. Non dispone della maggioranza assoluta, come tra il 2011 e il 2015, e la necessità di arrivare a patti e accordi è improrogabile. Ma è sempre Rajoy colui che ha il coltello dalla parte del manico e che può gestire i tempi della politica. Lo si è visto molto bene in questi primi mesi, quando il leader dei popolari è riuscito ad ottenere l’appoggio di Ciudadanos e dei socialisti negli obiettivi di deficit per il prossimo triennio e nel tetto massimo della spesa per le amministrazioni pubbliche. Ottenuto questo importante risultato, che lo rafforza come leader affidabile in Europa, ora tocca la legge di bilancio per il 2017. E, molto probabilmente, sarà la stessa storia. I socialisti sono alle corde: possono solo fare la voce grossa di giorno, mentre di notte sono costretti ad arrivare a patti con il PP. Il rischio, che Rajoy usa come potente ricatto, è quello di tornare al voto. E l’unico che ci guadagnerebbe sarebbe proprio il PP, che secondo gli ultimi sondaggi si avvicinerebbe alla maggioranza assoluta. A partire da maggio, a dodici mesi di distanza dall’ultimo scioglimento delle Cortes, Rajoy avrebbe la possibilità di convocare nuove elezioni, un’opzione che non scartano nella sede dei popolari e che fa venire la pelle d’oca in casa socialista. Non è difficile prevedere che prima dell’estate sarà dunque approvata la legge di bilancio.

Intanto, però, tutti i partiti si leccano le ferite e provano a ripartire, dopo un lungo anno elettorale che li ha sfiancati. Ciudadanos, che non è riuscito a impensierire il PP come un’opzione stabile nel centro-destra, celebrerà il suo congresso a inizio febbraio: Albert Rivera, che verrà confermato sicuramente come presidente, vuole traghettare la formazione definitivamente nel liberalismo, togliendo ogni riferimento alla socialdemocrazia negli statuti. Il fine settimana successivo (10-12 febbraio), Madrid sarà l’epicentro della politica spagnola: si terranno allo stesso tempo il congresso del PP, che confermerà il vincitore Rajoy alla guida del partito, e la seconda assemblea di Podemos, Vistalegre II.

La formazione guidata da Pablo Iglesias, che vive un momento di riflusso dopo oltre un anno di campagna elettorale permanente, sta cercando di porre le basi per una nuova fase politica. Le diverse anime del partito sono divise sulla strategia da adottare con Iglesias favorevole a un maggiore avvicinamento con Izquierda Unida e a ritornare nelle piazze, utilizzando il Parlamento come cassa di risonanza delle lotte sociali, e il numero due Íñigo Errejón che, invece, difende una minore identificazione di Podemos con la sinistra classica e una strategia basata sulla trasversalità populista, che non disdegnerebbe una futura alleanza con i socialisti. Saranno chiave i voti di Izquierda Anticapitalista, la corrente trotskista interna a Podemos, che si è riavvicinata a Iglesias per battere Errejón. La stagione si chiuderà prima dell’estate, probabilmente a giugno, con il congresso del PSOE, che dovrà eleggere il sostituto di Sánchez alla segreteria generale. In pole position, c’è la presidentessa regionale andalusa Susana Díaz, dove governa con i voti di Ciudadanos. Díaz, arcinemica di Sánchez, è molto vicina agli exsegretari generali Felipe González e Zapatero, ma è fortemente invisa ai quadri del partito al di fuori del sud della Spagna. In casa socialista c’è molta incertezza, con le basi demoralizzate, e la spada di Damocle che tiene sulla loro testa Rajoy, che li costringe, volenti o nolenti, a una grande coalizione sui generis.

I prossimi mesi saranno chiave per comprendere il cammino politico della Spagna, mentre continua la rivendicazione indipendentista catalana con la richiesta di un referendum di autodeterminazione, accordato sullo stile scozzese o unilaterale, a cui Madrid si nega. Quello della Catalogna sarà l’altro scenario cruciale del 2017 spagnolo. I tentativi di Rajoy di aprire un canale di dialogo, dopo un lustro di scontri, è ancora debole, ma può mettere in crisi il fronte indipendentista, sempre più diviso al proprio interno.

Non è un anno facile per Rajoy, questo è certo. Ma il leader dei popolari può tirare un sospiro di sollievo dopo un 2016 che lo vedeva politicamente morto. Soprattutto per il contesto europeo che gli permette di presentarsi come un leader affidabile in un anno in cui Francia, Olanda e Germania vanno al voto e in cui l’instabilità, tra la gestione del post-Brexit, la delicata situazione italiana dopo le dimissioni di Renzi e l’auge dei populismi xenofobi in tutto il continente, può mettere in seria crisi il progetto europeo.

di Steven Forti
(ricercatore presso l’Istituto de Història Contemporanea – Universidade Nova de Lisboa)

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Aldo Giannuli

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Comments (6)

  • Complimenti Steven per questo lavoro, ricco di informazioni, analisi e spunti di riflessione.

    Una di queste non può non riguardare il nostro Belpaese… Il PPE sembra essersi trovato in una situazione simile a quella del PD immediatamente dopo le scorse legislative, con la differenza che Rajoy non ha avuto un Renzi, come invece è capitato a Bersani (a parte il fatto, non da poco, che Rajoy non è Bersani): uno che gli ha messo i bastoni tra le ruote sin da prima delle elezioni, poi durante la delicatissima fase immediatamente post-elettorale, tra cariche dei 101 e vittorie congressuale, fino alla defenestrazione di Lettastaisereno , alla nomina a PdC e al successivo, assolutistico, delirio di onnipotenza.

    Forse, la storia spagnola ci mostra come sarebbe potuta andare quella italiana con un PD guidato diversamente. Sicuramente non ci avremmo messo un anno per trovare l’inciucio, pardon, l’alleanza di governo, ma molto, molto meno. Alla fine, si sarebbe trovato lo stesso un alfaniano, un verdiniano, uno Scilipoti qualunque in grado di rimpolpare il blocco di potere espressione di quei rapporti di classe che, comunque, erano e sono ampiamente maggioritari sia alla camera che al senato: alla fine, son cambiati – finora – tre presidenti del consiglio, ma gente con uno spiccato “senso di responsabilità” nei confronti del Paese… si è sempre trovata.

    Grazie ancora e
    un caro saluto.

    Paolo

    • In particolare il golpe all’interno del Psoe contro i quadri del partito, come giustamente osservato da Forti, per imporre l’astensione ordinata dall’Ue tramite il mangione Felipe González, nella speranza di riconquistare il voto dei pensionati, l’unica fascia d’età dove Rajoy ha vinto chiaramente, manca fierezza…

  • Mondo y lirondo. Complimenti, signor Forti! Aggiungerei, semmai, che Rajoy mai ha cessato di essere un cadavere vocazionale, sin dagli inizi alla Pontevedra franchista dove il suo papà fece da giudice e dove è stato recentemente dichiarato persona non grata.

    http://politica.elpais.com/politica/2016/02/22/actualidad/1456132606_846361.html

    E, com’è ben noto, ogni carogna professionale immersa da tempo nelle fogne dello stato (tra l’altro, Rajoy è stato ministro dell’interno), propende a galleggiare con pasciuta naturalità, ricevendo frattanto una spinta elettorale proporzionale al volume di soldi spostato nelle tasche dei consoci e di merda scagliata sulla faccia dei suoi nemici, fuori e dentro il partito, un altro caso da studiacchiare…

  • Sarebbe stato il caso di chiarire meglio che Rajoy guida un partito di destra in termini di politica economica e sociale. Una destra diretta erede del franchismo, che in alcuni paesi sarebbe definita estrema, perchè ultra classista e ultra conservatrice. Sotto la loro guida, la Spagna è diventato il paese dove più sono aumentate le disuguaglianze sociali. Non si nota perchè sono molto furbi a non prendere posizioni populiste o antieuropee e non si schierano sulla faccenda Trump o i nuovi fascismi che stanno prendendo potere in Europa, tipo Le Pen, Orbán e compagnia cantante. All’esterno danno un’immagine moderata che è falsa come una banconota da 30 euro.
    Tutto quello che Rajoy ha ottenuto in termini di potere è conseguenza della crisi e delle divisioni della socialdemocrazia. Crisi che è europea, non solo spagnola.

    • Tre piccole precisazioni (secondo il mio parere):

      Non prendono posizioni populiste o antieuropee perché non possono. L’ultima volta che ci hanno provato (vertice delle Azzorre per invadere Irak, marzo 2003) finì con l’immediato ritiro delle truppe ordinato da Zapatero subito dopo la sua vittoria nelle elezioni del 14 marzo 2004, strage del 11 marzo mediante.

      Una destra diretta erede del franchismo, certo, ma lo stesso si potrebbe dire di buona parte della dirigenza del Psoe. Comunque, il Pp ha saputo integrare, piuttosto diluire, questi elementi ultra all’interno di un’organizzazione che, malgrado i loro scontri fratricidi pure mafiosi (ci sono dei giuristi favorevoli a renderlo partito illegale in applicazione di una legge fatta appositamente dal proprio Pp per mettere al bando Herri Batasuna & co.: http://ctxt.es/es/20160127/Firmas/3937/PP-Constituci%C3%B3n-C%C3%B3digo-Penal-P%C3%A9rez-Royo.htm), nonostante questo, appena arrivano le elezioni, e come tutte le buone famiglie, fanno finta di niente e votano ‘todos a una’.

      La divisione della socialdemocrazia spagnola consiste principalmente nel progressivo allontanamento dal suo elettorato, anche adesso dai propri quadri, il cui colofone è la riforma costituzionale del 23 agosto 2011, fatta da Zapatero a metà col Pp, appena 3 mesi prima delle elezioni che diedero il trionfo schiacciante a Rajoy. Fu la prima volta nella nostra storia recente in cui si lasciò la gestione di una crisi tutta in mano di un partito apertamente di destra, e suppose anche l’inizio della sceneggiata sovranista in Catalogna.

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