Le ragioni profonde della crisi dell’Università.
Che l’università sia in una crisi galoppante e che le “riforme” di questi anni non facciano che accelerarla, è un dato ormai largamente condiviso. E le notizie di tutti i giorni non fanno che darne conferma: le immatricolazioni complessive calano, la resa del sistema in termini di laureati su iscritti peggiora, la produttività scientifica stagna, i giudizi idoneativi sono una palese truffa, mancano i soldi per chiamare in servizio chi l’idoneità l’ha avuta e il personale che va in pensione non è rimpiazzato; continui scandali segnalano concorsi truccati e clientelismi vari. Dunque, nessun dubbio sulla crisi in atto.
Quello che, invece, manca è la percezione dell’importanza di questa crisi e delle sue ragioni profonde. Viene ridotto tutto alla cronica “mancanza di fondi”: in Italia è la scusa di tutte le corporazioni, perché tutto dipende da questa pretesa mancanza di denaro, dalla giustizia che ci mette nove anni per una sentenza civile definitiva, ai servizi comunali da terzo mondo, agli ospedali-lazzaretto, alle opere pubbliche incompiute è sempre e solo colpa dei “soldi che non ci sono”.
Degli sprechi, ruberie, irrazionalità amministrative, investimenti sbagliati, retribuzioni fuori norma, mancanza di controlli, inerzie ed assenteismi, assunzioni clientelari, organici gonfiati ecc non si parla mai. Tutto si risolve nella mancanza di denaro. E così è anche nell’Università dove, peraltro, i fondi sono implacabilmente decurtati ogni anno da quasi un decennio.
Il ceto accademico italiano (in prevalenza filo Pd) si è a lungo illuso che questi tagli dipendessero dalla cattiva volontà di quegli ignoranti del centro destra, che odiano l’università che per loro è solo un “covo di rossi”. Poi, quando sono arrivati i” tecnici”, si trattava solo di un momento di emergenza da superare. E quando, alla fine, sono arrivati anche i “nostri”, gli amici del Pd, che hanno proseguito a tagliare il contributo statale alle università, la colpa è stata della crisi che impone sacrifici, ma, va da sé, che si tratti di un periodo limitato, la crisi presto passerà e torneremo a scialare come sempre.
A parte il giudizio spropositatamente ottimistico sulla crisi, questo ragionamento scambia il sintomo per la malattia. Qui non è vero che l’università non funziona perché i governi tagliano i contributi, ma è vero il contrario: i governi tagliano i contributi perché l’università non funziona. Infatti, se i governi (indifferentemente di destra, di “sinistra” o di “tecnici”- notare che l’unica parola non virgolettata è la destra-) possono permettersi di tagliare allegramente sulla spesa universitaria è anche perché si tratta di una spesa in perdita da sempre: forte tasso di dispersione universitaria con troppo pochi laureati sugli iscritti; produttività scientifica troppo scarsa; produzione di brevetti quasi inesistente. Questo ormai è subodorato anche dagli studenti, dalle famiglie che sopportano i costi e dall’opinione pubblica in generale, per cui se il governo taglia i fondi all’università, nessuno crede che questo si tradurrà in chissà quale danno per la ricerca o diminuzione di nuovi laureati. Succede, quando nel ceto accademico ci sono troppi figli, nipoti, mogli ed amanti. O no?!
Ma delle cause del disastro dell’università italiana torneremo a parlare più specificamente, qui ci interessa parlare di cause più profonde che incidono non solo in Italia ma in tutto il mondo occidentale.
Si badi che segnali di crisi vengono anche dagli Usa, dove non c’è dubbio che si trovino le migliori università del mondo e, in massima parte, private. Anche lì le immatricolazioni calano costantemente da qualche anno, per qualche università inizia a profilarsi il default ed i tassi di produttività scientifica tendono a calare. Il fatto è che affluisce decisamente meno denaro del passato, perché le iscrizioni calano (e lì il costo di un corso di studi può oscillare fra i 40.000 ed i 100.000 dollari), le contribuzioni dei privati (banche, fondazioni, imprese) ormai ci sono solo per progetti finalizzati a qualche brevetto, mentre deperiscono le donazioni per la ricerca di base e le borse di studio. Certo, in tutto questo pesa la crisi che ha investito gli Usa da sette anni: le aziende hanno meno soldi per sponsorizzare corsi e cattedre, offrire borse di studio e finanziare ricerche dall’esito incerto, gli studenti ci pensano molto di più prima di accendere un mutuo per pagarsi un corso universitario che non dà più lo sbocco professionale garantito di un tempo. Tutto vero, ma la crisi ha solo inasprito tendenze già presenti da prima, non le ha create.
Il problema è che l’università di massa come la abbiamo conosciuta (tanto nella versione pubblica europea quanto in quella privata americana con il meccanismo dei prestiti d’onore e delle borse di studio e sponsorizzazioni) aveva dei presupposti che l’ondata neo liberista ha travolto. L’università di massa trovava la sua ragion d’essere nel progetto americano della great society e nella sua traduzione welfarista europea. L’idea era quella di una società industriale in grande e costante crescita, con un bisogno sempre maggiore di quadri di livello medio-alto ed alto ed una conseguente accentuata mobilità sociale. E una università con un numeroso corpo di ricercatori era pensata anche in funzione del continuo bisogno di innovazioni scientifiche e tecnologiche; anche le discipline umanistiche aumentavano di volume – per quanto ad un ritmo più lento delle altre- per fornire gli avvocati, i manager, gli economisti, i sociologi necessari, ed anche le facoltà di lettere, filosofia, storia crescevano sia per soddisfare la domanda scolastica di base sia per il necessario supporto culturale alle altre.
Ma l’emergere della crisi ambientale ha inferto un colpo molto duro all’idea di una società industriale in crescita infinita. Ovviamente si sarebbe potuto ugualmente pensare ad una rimodulazione dell’università di massa in funzione dei nuovi bisogni (ad esempio la crescente domanda di servizi, di industria culturale e dell’intrattenimento, la stessa ricerca in campo ecologico ecc.). A dare il colpo di grazia, indirizzando le cose su un ben diverso cammino è stata l’ondata neo liberista, il cui progetto non ha al suo centro l’industria, ma la finanza e, pertanto, produce una domanda meno pressante di innovazione tecnologica: è sintomatico che le contribuzioni private sono calate per le facoltà di fisica o di chimica e talvolta persino di informatica, ma non per quelle di economia.
Ormai il profitto non si produce più secondo la formula D’-M-D’’ ma direttamente con la formula D’-D’’. E questo ha meno bisogno di tecnici, di ingegneri, ecc, quanto di esperti di diritto e di finanza. Quando nel 2005 le acque del Mississipi sommersero New Orleans, i soccorsi furono disastrosamente deficitari come mai prima negli Usa; qualcuno osservò che sino agli anni settanta, i manager erano essenzialmente ingegneri e tecnici che sapevano cosa fare in questi frangenti, mentre dopo i novanta i manager erano essenzialmente avvocati ed economisti assolutamente inutili in circostanze di quel tipo.
Ma, soprattutto, c’è un aspetto particolare del neo liberismo che non è abbastanza compreso. L’epoca keynesiana del Welfare aveva (pur con moderazione) il valore dell’eguaglianza ed in particolare dell’eguaglianza delle condizioni di partenza; il neo liberismo non si limita a non avere il valore dell’eguaglianza, ma celebra la diseguaglianza come valore. La società neo liberista è per sua natura chiusa, oligarchica, e negata alla mobilità sociale. Ne consegue che l’alta formazione non può e non deve essere alla portata di tutti, perchè deve funzionare come filtro che riproduce le gerarchie sociali.
In questo quadro non servono 100 università con centomila docenti, servono 10 università con 5.000 docenti. Tanto più se a finanziare le 100 università è lo Stato che ormai si ritrae dai suoi compiti sociali.
E dunque, il rilancio dell’università in questo momento storico, comporta necessariamente la messa in discussione il modello sociale vigente.
Questo, però, non può essere funzionale agli interessi di una casta di rentiers come sono i nostri accademici: il discorso è particolarmente vero per l’Italia, ma aree di parassitismo accademico sono presenti anche in tutti gli altri paesi europei essenzialmente basati sul sistema pubblico-statale. Il che è abbastanza connaturato ad un sistema di retribuzioni standard, garantite, automatiche che, per di più, si accompagna a verifiche inesistenti e controlli compiacenti. Diciamocelo sinceramente: nell’attuale università pubblica il docente che non vuol fare nulla è libero di non far nulla o, comunque, può cavarsela con pochissimo, soprattutto se ha già vinto la cattedra ed è verso fine carriera. L’università, inoltre, è un ottimo passpartout per la carriera politica, per incarichi extra accademici, per collaborazioni giornalistiche e televisive, per l’accesso ai salotti buoni ecc. Dunque offre, per sua natura, una serie di benefit che rendono questo lavoro particolarmente appetito. Questo, nel tempo ha creato una casta totalmente deresponsabilizzata. Certo non mancano ottimi ricercatori, docenti coscienziosissimi, persone di grande valore ed onestà, ma ciò non impedisce che il ceto accademico sia una casta con larghissimi margini parassitari. Questo dato cambia da paese a paese: Francia e Germania contengono queste dinamiche, mentre Grecia e Spagna stanno peggio, ma il fenomeno tocca i suoi livelli più bassi nel nostro paese. Per bene che vada, ci sono legioni di docenti che non si aggiornano, che “dicono la stessa messa” da 25 anni, guardandosi bene dal rinnovare i programmi, che scrivono testardamente sullo stesso argomento da mezzo secolo, che non preparano una lezione che si dice una, che non leggono un rigo delle tesi che assegnano ed, in qualche caso, neppure dei libri che adottano per il loro esame.
Ora è del tutto evidente che una battaglia in difesa dell’università pubblica deve prima di tutto prendere le distanze dagli interessi della casta accademica che è la prima responsabile dello stato di cose presente. Se mai si otterrà di ripristinare risorse pubbliche per l’università non devono servire a salvare i privilegi di questa casta.
Occorre quindi ripensare tutto il modello rimettendo in discussione molte cose: dalla struttura gerarchica attuale all’ impostazione didattica, dal valore legale dei titoli di studio agli stipendi standardizzati e sganciati dalla produttività, dalle forme di accertamento sulla formazione degli studenti agli organi di governo, dalla struttura per materie e per piani di studio fissi alla standardizzazione dei progetti formativi. Ma soprattutto partendo da una considerazione: ma davvero università pubblica deve significare università statale?
Aldo Giannuli
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Francesco Sylos Labini
A parte le su considerazioni piu’ “ampie”vorrei sapere dove e’ che prende il dato della “produttività scientifica troppo scarsa”? A me risulta il contrario http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/12/27/ricerca-italiana-tra-le-piu-citate-ma-fanno-notizia-solo-le-classifiche-negative/825662/
Simone Mucci
Prof. Giannuli,
l’impatto del neoliberismo sull’università è stato da lei magistralmente descritto in questo articolo. Il mal di pancia sale quando si parla di soluzioni: davvero dovrei credere che la soluzione al declino dell’università nell’era liberista sia eliminare la casta degli universitari? Francamente penso che lei abbia avuto in mente i lettori pentastellati scrivendo quelle righe: uno storico del suo acume, della sua razionalità e della sua profondità non impiega due terzi di un articolo del genere per inveire contro la casta dei professori.
Altre cose che mi causano sofferenza: fa strano sentirla parlare di produttività accademica (roba che nemmeno Friedman avrebbe ascoltato con leggerezza) e soprattutto di università privata (benché la cosa sia stata buttata lì con nonchalance, alla fine).
So che non è corretto impiegare argomenti ad hominem nelle discussioni… ma proprio non riesco a prendere con indifferenza quello che, qualche tempo fa, un suo lettore chiamò il suo “nuovo mood grillino”.
Consideri che chi le scrive è un suo appassionato e devoto lettore, che per motivi geografici non ha avuto il privilegio di poter studiare con lei ma che molto dai suoi libri e dai suoi articoli ha tratto.
Un cordiale saluto,
Simone Mucci
Domenico Di Russo
Caro Professore,
lei ha scritto parola per parola quel che io, Dottore di ricerca in Linguistica di 32 anni, naturalmente senza contratto e tuttavia impegnato in un’opera umanitaria di volontariato presso una delle tante università italiane bisognose d’essere accudite, ovviamente gratis, sostengo da anni sia nelle rare occasioni pubbliche alle quali mi è capitato di partecipare che nelle chiacchiere tra amici e colleghi.
Il punto fondamentale da comprendere è proprio questo: quello dei tagli all’università e alla ricerca è un dato di fatto drammatico ma anche un alibi per l’intera classe docente accademica, la quale è tendenzialmente: a) fortemente votata all’autoreferenzialismo; b) assolutamente priva di una qualche coscienza autocritica; c) fortemente orientata verso la perpetuazione dei propri privilegi attraverso i meccanismi più perversi di autoconservazione, quali il nepotismo o la cooptazione, tanto per dirne alcuni; d) sostanzialmente, e sempre meno sotterraneamente, complice del paradigma neoliberista, che non a caso la alimenta; e) per tutte queste ragioni, decisamente avversa a ogni forma di rinnovamento scientifico e teorico.
Propongo un esperimento surreale, che finerebbe paradossalmente per strizzare l’occhio a quanti segretamente nutrono il sogno di smantellare l’università pubblica di massa e il diritto allo studio: aumentare a dismisura i fondi all’università e alla ricerca, decuplicarli a pioggia per ciascun Dipartimento e per ciascun docente già a partire dal primo anno, e così via per i due-tre anni successivi. Scommettiamo che, nonostante una tale manna da cielo, che pure consentirebbe di finanziare progetti sperimentali originali e di frontiera, oltre che borse di Dottorato, assegni di ricerca, posti da ricercatore e chi più ne ha più ne metta, la classe docente accademica italiana (vale a dire, per inciso, i peggiori insegnanti dell’intero sistema educativo, dove ancora oggi primeggiano i preziosi maestri elementari, a fronte però di livelli retributivi curiosamente rovesciati: buoni e inattaccabili per i docenti accademici, specie per gli ordinari, miserabili e sempre più erosi per i maestri, come per il resto degli insegnanti) sarebbe totalmente incapace di rinnovarsi? Scommettiamo che troveremmo gli stessi docenti di sempre che ripetono spudoratamente le stesse cose di sempre e che spendono i cospicui fondi nelle stesse direzioni di sempre, assumendo per collaboratori gli stessi caratteri e le stesse maschere di sempre? Scommettiamo?
O il conflitto torna a emergere nelle università, e da lì nel dibattito pubblico, o non cambierà assolutamente niente, anzi tutto continuerà a peggiorare e i docenti italiani continueranno con le loro lezioni sempre uguali (per carità, mai più di un paio a settimana e per più di una decina di settimane l’anno) allo stesso modo in cui l’orchestra continuava a suonare mentre il Titanic affondava. Con la differenza, non banale, che almeno quelli suonavano qualcosa di bello pur in condizioni molto precarie.
Grazie per le sue parole quindi. Fa piacere non sentirsi soli.
Un saluto
Domenico
Giovanni
A parte la corretta considerazione di Sylos Labini sopra, alla quale vorrei aggiungere che in alcuni casi la produttiva davvero cala anche a causa delle disastrate condizioni in cui molti operano, ovvero contratti precari a bassa paga che cambiano continuamente e magari non coprono l’intero anno, il tutto da coniugarsi con le difficoltà della vita quotidiana. Per carità, applaudiamo pure quelli che nonostante tutto riescono a mantenere un elevata produttività ma ricordiamo che non ci sono solo loro. Osservo altresì che il Prof. Giannuli è riuscito a fare un intero articolo senza neppure menzionare la parola “precario”.
Ma a parte questa premessa mi sembra che l’intero articolo sottolinei alcuni difetti esistenti nelle università proponendo alcune dubbie spiegazioni come ad esempio: “i governi tagliano i contributi perché l’università non funziona”, a me sembra piuttosto che i governi taglino i contributi per smantellare e porre la governance sempre più sotto la tutela di fondi esterni in special modo europei. L’articolo parla della casta e conclude con la proposta, pur mettendola in forma dubitativa: “Ma soprattutto partendo da una considerazione: ma davvero università pubblica deve significare università statale?”.
Mi sembra che segua il solito schema morale neoliberista, cioè evidenziare i difetti esistenti per poi chiedersi se non sia meglio privatizzare. Quello stesso schema che mettendo in ginocchio l’Italia come naziona sovrana.
Ma tu sei il Domenico Di Russo di ARS? Mi pare che queste cose siano fortemente contrapposte agli obiettivi statalisti che ARS si è data, come puoi dire che ti senti in compagnia?
Domenico Di Russo
Caro Giovanni,
non la conosco. Ad ogni modo, sì, sono iscritto ad ARS, quindi dovrei essere proprio io il Domenico Di Russo a cui fa riferimento.
La ringrazio per la risposta perché mi dà l’opportunità di chiarire un punto effettivamente equivoco. La mia proposta, pur corretta nella sostanza (aumentare i finanziamenti all’università pubblica), voleva mettere in evidenza un punto che mi pare sia sfuggito a tutti quelli che hanno commentato e che invece è centrale nell’articolo di Giannuli: la crisi dell’università italiana, ma vale per l’intero sistema universitario occidentale, è una crisi non solo di finanziamento pubblico all’università e alla ricerca, che in Italia raggiunge un’intensità che non si trova altrove, ma anche e soprattutto culturale, di forma mentis della classe docente accademica. Mi rendo conto che è difficile quantificare questo aspetto, il che rende la mia argomentazione un po’ debole o comunque opinabile e certo strumentalizzabile, ma chiunque abbia un minimo di contezza dall’interno della vita accademica, italiana in particolare, non può non cogliere quegli aspetti che Giannuli ha sottolineato e che io ho cercato di riprendere. Che la classe docente accademica italiana sia profondamente incartapecorita non lo vede solo chi non lo vuol vedere e non parlarne spostando tutta l’attenzione sul problema gravissimo dei finanziamenti non aiuta affatto a venirne a capo, tutt’altro.
Per questo ho definito la mia proposta paradossale e surreale. Il suo tono è dichiaratamente provocatorio.
Sciolto questo equivoco, la mia posizione non è per nulla in contraddizione con quella dell’ARS. Sostengo da sempre, oggi più di ieri, la necessità di un controllo pubblico dell’economia, l’importanza strategica di investimenti pubblici e della pianificazione, anche e specialmente a livello scolastico, universitario e della ricerca. Non capisco per quale motivo l’invitare la classe docente accademica a fare autocritica e il dichiarare che questa vada in larga parte rinnovata siano elementi affini al paradigma neoliberista. Mi pare anzi che siano premesse fondamentali per una grande opera di risanamento pubblico.
Infine, vorrei far notare che è giusto quanto rilevato da Francesco Sylos Labini sulla “produttività scientifica”. Anche qui, però, inviterei a cogliere il punto essenziale sollevato da Giannuli. Sostenere, come personalmente sostengo, la causa di ROARS non è in antitesi con la questione dell’impostazione culturale della classe docente accademica posta da Giannuli. Anzi, le due cose sono a mio avviso complementari.
Saluti
Domenico
Giovanni
Lo scopo paradossale e provocatorio della proposta che lei aveva avanzato mi era chiaro, non c’era nulla di equivoco.
Che il problema non sia solo finanziario è cosa ovvia, io stesso ho potuto vedere un prospetto riassuntivo di finanziamenti UE a progetti di ricerca e non li ho trovati affatto bassi, anzi erano per me eccessivamente alti visti gli obiettivi dei progetti (ma questa è la mia opinione soggettiva e generica) e governati nel modo che tutti conoscono. Su questo io sono più estremista di molti, ritengo che qualsiasi procedura di reclutamento debba essere bloccata ed i disagi creati affrontati immediatamente in un quadro di piano del lavoro complessivo per tutto l’eterogeneo popolo precario e disoccupato. I precari dell’università, di cui pure io faccio parte, non sono certo speciali. Superata l’emergenza si potrà parlare di come porre fine alle devianze della cooptazione che nuoce profondamente a tutta l’università.
I difetti della comunità accademica italiana, che da un punto di vista generico (non parlo certo di casi specifici) si estendono dal più anziano dei decani all’ultimo dei precari seppur con diversi gradi di responsabilità, sono così noti che ancor prima del prof. Giannuli li criticavano molti altri, inclusa Maria Stella Gelmini che ha prodotto quella riforma che tutti ben conosciamo.
Ritengo che la sola denuncia di questi difetti è cosa tutt’altro che sufficiente per sollevare entusiasmi. Anzi, osservavo che proprio da un punto di vista sovranista (per le ragione espresse nel mio precedente commento) questo articolo del Prof. Giannuli mi desta grande perplessità.
Saluti
Lorenzo Lodi
Professore, perchè invece di ragionare in base a categorie, a mio avviso generiche, come “Neoliberismo” e “società industriale” non parla più di “classi” e “capitalismo”? Le utilizza per una questione di semplicità espositiva o è una precisa scelta teorica? Per quanto riguarda la formula D-D’, magari è il modo con il quale i banchieri gonfiano le tasche, o meglio: le bolle (prima che scoppino). Se il rapporto sociale dominante – quello salariato – si è rifatto il trucco, mi sembra sia un po’ ingenuo gridare che ha cambiato faccia… e buttare via la “formula D-M-D’ “. Affermare che la finanziarizzazione degli ultimi anni sia stata necessaria per gestire la riproduzione allargata – in senso classico D-M-D’ – del capitalismo su scala mondiale, non spiega meglio il passaggio dal “keynesismo” al “neo-liberismo” di supposte remore ambientaliste della borghesia? (“Ma l’emergere della crisi ambientale ha inferto un colpo molto duro all’idea di una società industriale in crescita infinita.”) Più sul pezzo: non crede che premi stipendiali, più che alla produttività, potrebbero agganciarsi alle logiche di “fedeltà” (baronele, politica, o perchè no: aziendale…) che come giustamente rileva affliggono l’università?
Saluti
Andrea Martocchia
Gent.mo,
leggendo la sua, ed altre recenti analisi sul tema dei disinvestimenti in Università e Ricerca, ho da un alto l’impressione positiva che si stia gradualmente focalizzando il problema, dall’altro mi rimane la sensazione amara che a tale “focus” si stia arrivando lungo spirali ancora troppo larghe. In effetti la critica è partita negli scorsi anni da troppo lontano, lamentando i limiti intrinseci al sistema produttivo italiano (assolutamente veri) o la nostra indigena arretratezza culturale (Hack), percorrendo cioè esterofilie ostinate alle quali negli ultimi tempi giustamente non crede più nessuno. Però, nonostante l’evidenza della dimensione internazionale del declino – che lei esemplifica parlando degli USA – il problema è ancora affrontato come fosse prevalentemente un problema “tecnico” o “interno”: meccanismi di valutazione, “baroni”, “malapolitica”, e così via.
Tutti questi sono epifenomeni. In realtà, i nodi fondamentali li ha colti a mio avviso per primo Forges Davanzati quando ha parlato di over-education. Il disinvestimento è strutturale ed è su scala globale. Il fatto è che in questa precisa fase dello sviluppo capitalistico, che è una fase di crisi da sovrapproduzione (altro che neoliberismo…), investire in conoscenza semplicemente NON SERVE agli investitori. Tutto qui. Ecco perché ad essere in crisi non è solo l’Università, né solo la Ricerca, né solo il sistema formativo in genere… ma è tutto il comparto della conoscenza!
Il comparto della conoscenza è un settore complesso ma ben individuabile e distinguibile dagli altri settori del sistema produttivo. Dal mancato riconoscimento della sua unitarietà consegue l’assenza di un ambito complessivo di confronto, e la dispersione delle analisi in mille rivoli, addirittura contrapposti o comunque non-comunicanti fra di loro: precari o strutturati, INAF o Università, restauratori o geologi, studenti medi o docenti universitari, Legge Gelmini o tagli dovuti alle varie leggi di stabilità… La polverizzazione è assoluta ed a mio avviso rispecchia l’impostazione fondamentalmente carente delle analisi, e quindi delle lotte, di questi anni. Una impostazione per cui, appunto, è troppo spesso sfuggito proprio il carattere distinto e specifico del comparto nel suo insieme.
I lavoratori e gli operatori in genere (es. anche studenti) del comparto della conoscenza sono nell’occhio del ciclone della crisi sistemica o strutturale che dir si voglia delle società a capitalismo cosiddetto avanzato. Questi lavoratori e operatori infatti non sono altro che le “mitiche” forze produttive massimamente avanzate, e di conseguenza massimamente… aggredite dal Capitale, che adesso ha solo bisogno di distruggerle. Questo era l’A-B-C dell’analisi marxista pochi decenni fa: so che non è di moda, ma è attualissimo. O si riconosce questo, e con questo la sostanziale unitarietà del carattere delle lotte del comparto, oppure si condannano le singole lotte ad un isolamento, scollamento e finanche al fallimento per incomprensione del loro carattere strategico.
Se non ci chiediamo “perché tutto quanto succede?”, rischiamo di credere che i problemi “crescano sugli alberi”, tanto per parafrasare un bel libro di miei colleghi di cui ho molta stima… Succede così che contestando giustamente le politiche su R&D “di un numero crescente di Stati membri dell’UE”, non troviamo di meglio che attribuirne moralisticamente la colpa ai “responsabili nazionali” i quali “hanno scelto l’ignoranza” (http://www.roars.it/online/hanno-scelto-lignoranza/). A mio avviso, è tutto giusto, ma dobbiamo andare ben oltre.
Andrea Martocchia
http://www.agentefisico.info/2014-05-22-10-37-56/29-fis/sci/8-intellettuariato
Lorenzo
A mio modesto avviso i governi tagliano i contributi per 3
motivi: perché i soldi non ci sono più, perché vogliono privatizzare tutto il
privatizzabile (metà per farci buoni affari, metà per tagliare le spese) e
perché il gregge più è ignorante e più è manipolabile.
E poi anche perché in una società deindustrializzata di
lavoratori qualificati c’è sempre meno bisogno. Come ha ben osservato P.C.
Roberts in “How the economy was lost”, testo che consiglio a chiunque, i lavori
più qualificati sono quelli che meglio si prestano a essere delocalizzati e
sono quindi i primi a scomparire nella follia della globalizzazione. Alla buon
anima della cialtroneria neoliberista della scuola come risposta universale alla
disoccupazione.
La gente recepisce questo stato di cose e smette di mandare
i figli a perder tempo all’università. A ciò si aggiunge il disprezzo verso la
cultura dilagante presso una generazione cresciuta a suon di consumismo,
ignoranza e televisione-spazzatura. Nepotismi e inefficenze ci sono sempre
stati, prima più di adesso, e non fanno la differenza. Il trapasso a un sistema
privatistico eliminerebbe alcuni problemi attuali e ne introdurrebbe di nuovi,
non meno gravi ma meno blaterati sotto il profilo mediatico, perché omogenei alla
forma di civiltà imposta dal conquistatore anglosassone e scimmiottata da servi
e pennivendoli di regime di ogni affiliazione.
La decadenza dell’università è coerente coll’andamento
generale delle cose: segue la parabola di questo crepuscolo tardoimperiale.
J.C. De Martin
Oltre a riprendere anche io l’osservazione di Francesco Sylos Labini, un commento di carattere generale: non è la prima volta che sento o leggo un collega più anziano di me (io ho 48 anni), di sicuro non sospettabile di posizioni neo-liberiste, criticare senza possibilità di appello l’Università italiana. Ai tempi della legge Gelmini, i colleghi con questo genere di posizioni in genere concludevano l’attacco dicendo: “visto tutto quello che abbiamo fatto nei decenni passati, ci meritiamo la legge Gelmini – e anche di peggio!” E sempre loro in questi anni sono quelli che, in fondo in fondo, il blocco degli scatti, i tagli all’FFO, ecc., in fondo “ce lo siamo meritati.” Non è, naturalmente, la posizione del prof. Giannuli. Ma in un certo senso – pur diverso da loro (ovvero, pur non includendosi nel novero dei responsabili del disastro) – conferma la loro diagnosi.
Scusate, cari colleghi, abbiate pazienza, ma parlate per voi. Io non mi sono meritato nulla di tutto questo. E vedo tantissimi colleghi – tendenzialmente più giovani di voi, ma non solo – che neanche loro si sono meritati la “persecuzione” messa in atto dai vari governi in questi ultimi anni.
I più giovani reagiscono alla situazione attuale andandosene in massa all’estero – una generazione perduta di cui pagheremo il prezzo per i prossimi decenni.
I meno giovani, come il sottoscritto, invece, lottano per salvare l’Università italiana dall’attacco neoliberista che ha avuto finora successo anche perché una parte importante dell’Università lascia fare – o perché si sente in colpa, o perché ritiene comunque necessaria una palingenesi (per non parlare di quelli che sperano – illusi – di poter modulare l’attacco per promuovere comunque i propri interessi).
In altre parole, mi sembra che il prof. Giannuli si lasci troppo influenzare da come si è comportata in passato una parte (magari anche importante, non discuto) dei suoi coetanei. E nel fare ciò finisca col fare due errori.
Il primo quello di trattare l’Università italiana con la stessa mancanza di attenzione ai dati di molti neoliberisti: tutti i principali indicatori (produttività scientifica inclusa), infatti, mostrano come l’Università italiana si possa tranquillamente paragonare a quella dei principali altri paesi europei, pur avendo un finanziamento complessivo minore (e, a volte, molto minore).
Il secondo errore è quello di trattare l’Università come un monolite. No, invece: le responsabilità (sia quelle storiche, sia quelle correnti) vanno differenziate: rettori, presidenti di corsi di laurea, ordinari, associati, ricercatori, assegnisti, ecc. non sono una massa omogenea. Non tutti sono ugualmente responsabili, non tutti lavorano allo stesso modo, per non parlare di differenze anche molto forti tra discipline e tra sedi geografiche. Non abbiamo, quindi, bisogno di una palingenesi (anche la legge Gelmini doveva esserlo…), ma di una nuova idea di università attorno alla quale unire le forze migliori dell’Università italiana (che sono più numerose di quanto non pensi), per proporre un nuovo patto con gli studenti e in generale con la società italiana.
Le ragioni profonde della crisi dell’Università. | NUOVA RESISTENZA
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Andrea Martocchia
Attacco frontale contro la scienza: sul TG4
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