La questione della lingua.
Una delle cose più irritanti della vague culturale neo liberista (a proposito: il neo liberismo non va confuso, come qualche interventore fa, né con il liberalismo né con il liberismo classico) è l’approccio semplicistico ai problemi sociali e culturali: i neoliberisti sono convinti di aver scoperto la pietra filosofale, per cui tutto è facilmente risolvibile una volta accettati i dogmi base del loro culto religioso. E questo “facilismo” produce una banalizzazione del modo di pensare di un po’ tutti, che si esprime a volte in forme assolutamente sconcertanti. L’assoluta inconsapevolezza dei problemi e della loro complessità è tale che lascia completamente disarmati di fronte a questa fiera dell’ovvio e del superficiale. E’ così siamo finiti a parlare di una cosa delicata come i sistemi elettorali con un’intellettuale della forza di Maria Elena Boschi…
Se continua così parleremo di medicina nucleare con il fruttivendolo al mercato. Non amo lo specialismo e riconosco a tutti il diritto di intervenire in ogni discussione, ma solo informandosi adeguatamente prima.
La questione della lingua è una delle più bistrattate e sulle quali è possibile sentire il più bel catalogo di banalità del mondo. Non ci si rende conto che, quella che sembra una questione semplicissima, al punto da apparire insignificante, è, in realtà, uno dei campi di scontro politico ed economico di maggiore importanza nel mondo della globalizzazione.
Veniamo al dunque: è evidente che il problema della lingua veicolare non è solo quello di capirsi con un taxista su dove andare o con una famiglia californiana che ha bucato un copertone o riuscire ad ordinare carne in un ristorante senza che quelli ti portino pesce. Se il problema fosse questo, lo avremmo risolto dall’alba dell’umanità, visto che l’uomo di Neanderthal si faceva capire benissimo a gesti.
Il problema si pone a livelli un po’ più complessi: leggere normalmente un giornale o un libro, ascoltare notiziari, comprendere leggi, concludere un contratto di mutuo, partecipare a discussioni ad un certo livello di astrazione, discutere una causa, eseguire operazioni articolate e/o multiformi comunicando con altri ecc. A questi livelli, la lingua veicolare non può essere un po’ di imparaticcio scolastico, ma richiede un certo grado di proprietà di linguaggio, una articolazione grammaticale e sintattica abbastanza formalizzata, un adeguato bagaglio lessicale ecc.
Magari non è indispensabile conoscere l’inglese al punto da cogliere tutte le sottili polisemie dei “Finnegan’s Wake” di James Joyce ed apprezzare la sostituzione del genitivo sassone con la s del sostantivo plurale e coglierne la potenzialità espressiva. Ma almeno una conoscenza non superficiale, idonea a manovrare la lingua con destrezza è indispensabile. Ed è indispensabile anche al formarsi di un soggetto politico statuale: la lingua è il principale elemento formativo dell’identità di un soggetto collettivo.
Salvo rarissimi casi di bilinguismo (come ad esempio Canada, Belgio, dove, peraltro, si avvertono forti tensioni centrifughe o la Cecoslovacchia che, non a caso si è scissa), uno Stato può anche essere plurilingue, di fatto o di diritto, ma ha sempre una lingua comune dominante (tedesco in Svizzera, cinese mandarino in Cina, russo in Urss, serbo-croato in Jugoslavia, spagnolo castigliano in Spagna, inglese in India ecc.). Senza unità linguistica non è possibile costruire una “opinione pubblica” comune. E l’Europa non riesce ad essere un ambito omogeneo ed i suoi abitanti a sentirsi “europei”, ma restano Tedeschi, italiani, francesi, olandesi, spagnoli ecc. perché tutti continuano a parlare la propria lingua e non esiste una “opinione pubblica europea, ma delle singole opinioni pubbliche nazionali e, infatti, al momento del voto, ciascuno si esprime entro il proprio spettro politico nazionale. I tedeschi hanno un punto di vista formato dai propri mass media ed apprendono delle ragioni di italiani, greci, spagnoli, portoghesi ecc dal resoconto che gli fanno i propri giornali, televisioni, radio ecc. E le stesse identiche cose potremmo ripetere per italiani, spagnoli, greci ecc. che ascoltano ciascuno la propria radio-televisione e leggono i propri giornali.
Ne consegue che la mediazione politica (sempre necessaria in qualsiasi sistema) deve essere condotta al vertice e successivamente solo spiegata (magari con gli opportuni adattamenti) alla base popolare che non partecipa per nulla al processo, se non come ratifica di ultima istanza. Ed, infatti, l’Europa (questa Europa) è solo una ardita costruzione tecnocratica priva di qualsiasi anima popolare. Senza risolvere la questione linguistica, l’Europa dei popoli non si fa ed è solo uno slogan di pronta beva per i palati meno esigenti.
Dunque, occorre decidere quale debba essere questa lingua veicolare comune all’ Europa. Storicamente è dimostrato che le scelte possono essere solo tre:
a- una determinata lingua viva (il francese, l’inglese ecc.) che di solito è la “lingua dell’Impero”
b- una lingua artificiale, semplificata al massimo, con un bagaglio lessicale ridotto al minimo indispensabile (ad esempio l’esperanto, il volapuk, oppure le lingue franche come il “portolano” tardo medievale ecc.)
c- una lingua morta recuperata e “modernizzata” (come l’ebraico che, adeguatamente trattato, è tornato lingua viva in Israele)
La soluzione più pratica ed immediata è certamente quella di una lingua viva esistente, magari particolarmente diffusa o perché parlata da una popolazione molto numerosa (il cinese mandarino, comune ad un miliardo e 300 milioni di persone) o perché molto diffusa per le più diverse ragioni (l’inglese).
Scelta pratica sicuramente, ma, storicamente è dimostrato che si tratta di una scelta politicamente non neutra ed anzi molto pesante sul piano dei rapporti di forza, sia sul piano politico che economico e culturale, perché accettare la lingua della potenza dominante implica un tacito riconoscimento di supremazia politica. Insomma: accettare che la lingua della globalizzazione sia l’inglese, pur semplificato nella forma del globish sottintende –o quantomeno favorisce fortemente- l’accettazione del modello di ordine mondiale di ha quella come lingua madre.
La ragione è molto semplice: i nativi di madrelingua sono fortemente avvantaggiati su tutti gli altri. Facciamo un esempio facilmente comprensibile: stiamo discutendo una causa davanti ad un tribunale turco, discussa in turco, basata su leggi scritte in turco, con una giurisprudenza turca, con una giuria di lingua turca e ci sono un avvocato turco, di livello tecnico non eccelso, ma di madrelingua ed uno inglese, tecnicamente bravissimo e che se la cava con il turco. Secondo voi chi è in vantaggio? E’ ovvio che, per quanto l’inglese possa aver studiato il turco, una serie di sfumature semantiche, di gergalità, di polisemie e sottintesi gli sfuggiranno e, comunque, dovrà fare un certo sforzo per manovrare una lingua imparata, anche bene, ma non sua, mentre questa capacità di manovra sarà del tutto spontanea per il turco. E l’inglese non riuscirà a dispiegare al massimo la sua abilità tecnica, dovendo fare i conti con la conoscenza pur sempre limitata della lingua, mentre il suo collega turco si muoverà molto più rapidamente e disinvoltamente fra leggi e sentenze scritte nella sua lingua e potrà giovarsi anche di una più ampia gamma di registri comunicativi per convincere la giuria.
Questo è vero non solo in tribunale, ma in qualsiasi altro ambito: dalle transazioni commerciali ai dibattiti parlamentari. Ma, nel mondo della globalizzazione, che ha nell’informazione e nell’intrattenimento uno dei suoi gangli vitali, questo diventa ancora più vero nel caso dell’industria culturale. Credo che sia facile capire come una canzone, un film, in libro, un notiziario, un giornale ecc, scritti nella lingua veicolare abbiano un vantaggio enorme su tutti gli altri, perché godono di una platea molto più vasta dei propri confini nazionali; mentre gli altri, per far conoscere i propri prodotti, devono affrontare il costo della traduzione. Ed è evidente il vantaggio economico che ne deriva a case editrici, cinematografiche, discografiche, televisioni, radio ecc della lingua imperante. Ne conseguono una serie di tendenze che non è difficile immaginare: tanto gli autori quanto le case produttrici, ecc cercheranno, per quanto possibile, di usare la lingua veicolare, le Tv e le radio ad approntare notiziari in quella lingua, le case cinematografiche o che producono spot televisivi inizieranno a pensare a specializzare una parte della loro produzione in direzione di quei mercati ecc. Nel tempo, questo renderà i prodotti in lingua nazionale una sorta di sotto prodotti destinati ad un mercato di livello inferiore. Le imprese di maggiore respiro economico aumenteranno la quota di prodotti in lingua veicolare e, attraverso fusioni e partecipazioni incrociate, cercheranno di accedere alla “serie A”, mentre le altre in lingua nazionale saranno in gran parte buttate fuori mercato o dovranno accomodarsi in un mercato di nicchia.
Si comprende come, il controllo dei maggiori media mondiali, conferisca al paese della lingua veicolare uno strumento di potere di primaria importanza, anche sul piano politico. Piaccia o no, la lingua è il principale strumento di soft power perché ovviamente si porta dietro una cultura, uno stile di vita, un modello di organizzazione sociale.
Oggi lo è in misura maggiore e più aperta, ma, in qualche modo la lingua è sempre stata uno strumento di egemonia: Braudel, già mezzo secolo fa, descrivendo la gerarchia dei paesi nell’ordine mondiale, collocava al centro il paese imperiale dal quale vengono lingua, moneta e diritto. Vi dice qualcosa?
Dunque, la scelta di una lingua viva è certamente una soluzione pratica, ma ha dei costi politici che non si possono ignorare. E, nel caso europeo occorre meditare molto attentamente su quale lingua viva si potrebbe scegliere: inglese, francese, spagnolo o tedesco? Ne riparleremo.
Ci sono le altre due soluzioni: la lingua artificiale e quella morta. La prima è stata ripetutamente tentata da circa un secolo e mezzo, ma non ha mai avuto grande successo per diverse ragioni: il risultato, almeno dal punto di vista fonetico, è esteticamente improponibile, d’altra parte, se dal punto di vista lessicale si può tentare un cocktail in proporzioni variabili, dal punto di vista grammaticale e sintattico è inevitabile che la lingua artificiale risenta dell’intelaiatura di una particolare lingua viva (ad esempio il tedesco per il volapuk). Peraltro, non essendo una lingua parlata da nessun popolo, richiede un maggiore sforzo economico per essere diffusa: ad esempio, una delle tappe canoniche nell’apprendimento di una lingua, è ascoltare notiziari, leggere giornali in quella lingua, ma soprattutto effettuare un viaggio nel paese originario di essa. Operazioni ovviamente impossibili nel caso di una lingua artificiale.
Inoltre, a differenza delle lingue vive, quelle artificiali, ovviamente, mancano di una letteratura, il che ne diminuisce considerevolmente l’appetibilità. In ogni caso, è una scelta che sinora ha sempre avuto ben pochi sostenitori.
Alle mancanze appena descritte (disarmonia fonetica, mancanza di una letteratura ecc.) ovvia invece la scelta di una lingua morta, che ha una sua organicità tanto fonetica quanto lessicale, grammaticale e sintattica. Resta il problema di essere lingue non parlate, allo stato attuale, da nessun popolo, così come è evidente che, in una certa misura, il diverso grado di distanza delle lingue correnti dalle varie lingue morte potrebbe influenzare la scelta verso l’una o l’altra (ma di questo parleremo in altra occasione).
Esiste poi un problema particolare: una delle tendenze costanti è quella alla semplificazione della lingua attraverso la riduzione di tempi e modi del verbo, l’eliminazione o la forte riduzione delle eccezioni ecc. e le lingue morte hanno spesso costruzioni che occorrerebbe semplificare fortemente, così come, il lavoro di adeguamento, richiederebbe una consistente revisione ed arricchimento del lessico. Nulla di impossibile, beninteso, come l’esperimento di Israele dimostra, ma sicuramente una operazione costosa e che richiede almeno una generazione per poter funzionare almeno accettabilmente.
Aldo Giannuli
aldo giannuli, europa, inglese, israele, latino, lingua, linguistica, neliberismo, rapporto lingua potere, sanscrito
Tenerone Dolcissimo
Un articolo ineccepibile. Resta solo da capire che c’azzecca il riferimento al neoliberismo citato in apertura.Saluti
giandavide
mah informerei il professore che non è necessaria l’imposizione coatta di esperimenti linguistici più o meno balordi. basterebbe la cara vecchia spesa pubblica finalizzata verso il settore della mediazione linguistica, che non solo garantisce un livello di comunicazione migliore anche in contesti di bilinguismo, ma crea pure posti di lavoro. ma suppongo che nel partito di grillo questo tipo di spesa pubblica sia quanto di esecrato, robba da boldrini. invece sembra che in questo post si descriva l’europa prossima futura come un condominio multietnico in cui dovremmo vivere tutti gomito a gomito: non è esattamente così.
ma d’altra parte credo che lo stato nazione di oggi incarni in questo contesto quelle posizioni retrive che tendono a non fare meticciare i cittadini europei, con il fine di farli rimanere confinati nello stretto spazio politico nazionale, che si è dimostrato lo spazio politico più efficace nell’addomesticare in modo antisociale gli istinti sociali degli uomini
ilBuonPeppe
Nella scelta di una lingua viva si potrebbero mitigare gli aspetti negativi prendendone una di un paese piccolo, come l’Ungheria o l’Estonia.
Oppure scegliendone una estranea all’ambito in cui deve essere utilizzate: una lingua africana per l’Europa.
Io comunque voto per il klingon.
Tenerone Dolcissimo
Pur rispettando la mozione d’ordine del professore di rimandare a successivo intervento la disanima dei pro e contro del ricorso ad una lingua morta, non posso trattenermi dal ricorda il latino, che è stata già per secoli lingua franca in europa e il cui studio sicuramente promuoverebbe un discreto sviluppo culturale nella nostra barbara e superficiale epoca.
Pierluigi Tarantini
@Aldo
…Senza unità linguistica non è possibile costruire una “opinione pubblica” comune…, al momento del voto, ciascuno si esprime entro il proprio spettro politico nazionale…
In Italia, chi più chi meno, tutti comprendono l’italiano.
E, però, al momento del voto, nelle regioni rosse si vota PCI, in Veneto si vota DC e via discorrendo.
Caso particolare Milano e dintorni che, negli ultimi quarant’anni riescono ad esprimere Craxi, Bossi e Berlusconi.
Sarà veramente la lingua?
Mha…
Mirko G. S.
Professore la ringrazio per avermi paragonato alla Boschi, sono una persona – credo – molto umile e non mi offendo, ma vedo che continuiamo a non capirci. O forse è lei a non capire me, perchè le sue argomentazioni mi sono chiare, tuttavia per me hanno un peso, una “difficoltà” da aggirare molto minore di quanto paventi lei. I miei esempi tratti da pochi giorni fa vorrebbero dimostrare (cioè a parer mio dimostrano) che per quanto riguarda il “sentirsi europei” il problema del capirsi quando persone di lingue diverse si parlano è facilmente superabile: la lingua serve per capire i concetti che uno vuole comunicare e se io riesco a comprendere quello che uno dice e a far capire quello che dico io lo scopo è raggiunto. Se 2 persone sgrammaticate e approssimative come me ed un tassista tedesco si riescono a capire per buona mezz’ora allora basta semplicemente far studiare l’inglese bene a scuola, cosa che in Italia non si è mai fatto e che viene fatto molto meglio all’estero. Certo non è un problema che si risolve entro domani e bisogna attendere una generazione, ma se ambedue avessimo studiato meglio l’inglese a scuola e avessimo potuto continuare a coltivarlo in seguito la discussione durante il viaggio in taxi sarebbe stata molto più profonda.
Per quanto riguarda il discorso commerciale non conosco molto la realtà internazionale, tuttavia mi sembra che anche in questo caso ci sia una lingua che la faccia da padrone, l’inglese (Beatles, Rolling Stones, Michael Jackson, etc.) senza che ciò abbia spazzato via la produzione musicale locale (magari l’avesse fatto in Italia, ci saremmo risparmiati Gigi D’Alessio). Orbene è quanto meno probabile che l’estensione dell’inglese o di qualsiasi lingua non porterebbe ad una variazione degli attuali equilibri. Per il settore della cinematografia poi attualmente c’è la prassi di mantenere la lingua originale e di mettere solo i sottotitoli nella lingua autoctona e l’introduzione di una lingua veicolare sarebbe un fatto del tutto neutro (va be’ in Italia vengono doppiati ma credo continuerebbero ad esserlo senza problemi). Per il settore della pubblicità ci sono già molti prodotti di multinazionali che fanno spot in ogni nazione nella lingua del luogo accanto a prodotti venduti solo nel Paese d’origine; nulla vieta di portarli all’estero e di fare spot in ogni lingua.
Nel caso dell’avvocato il problema dell’arringa riguarda il settore penale. Per il settore civile esiste il fenomeno della specializzazione in una determinata materia e quella del diritto estero è una di queste; esistono studi legali specializzati nei rapporti con determinati Paesi stranieri e personalmente conosco un avvocato specializzando proprio nel settore del commercio e della contrattualistica internazionale fiduciario di un’ambasciata straniera in Italia che parla oltre all’italiano e alla lingua madre anche il russo, l’ucraino, il moldavo e mastica il tedesco e l’inglese. Insomma ci sono sicuramente delle difficoltà, ma superarle non mi sembra da quello che modestamente ho visto così difficile da rappresentare uno scoglio addirittura del calibro dell’armonizzazione delle diverse economie.
Penso inoltre molto dipenderebbe dalle modalità d’introduzione di questa lingua ufficiale.
Quanto al sentirsi membro di una detrminata nazione, caro professore, mi sembra abbastanza chiaro che il problema sia innanzitutto la possibilità di crearsi un futuro all’interno di esso perchè, detto brutalmente, se io ho la possibilità di mangiare e di crearmi una famiglia che rappresenta lo scopo dell’esistenza della stragrande maggioranza degli esseri umani io difenderò lo Stato che mi garantisce queste prospettive. Quelli che si fanno saltare in aria per Allah statisticamente sono persone che non hanno gli occhi per piangere, lei questo lo sa bene essendo uno storico perciò non le traccio il profilo del kamikaze doc.
Spero di non aver detto troppe Boscate stavolta. Nel qual caso mi spieghi cosa non ho capito o frainteso.
aldogiannuli
;Mirko, no non mi permetto di paragonarla alla Boschi, ci mancherebbe
nel merito le rispondo domani
Germano Germani
A proposito della ministressa Boschi (femmina verace) ma allora aveva ragione Tommaso Maria Marinetti, il quale si era espresso negli anni venti a favore dell’estensione del voto alle donne.Ciò disse, avrebbe comportato la elezione di qualche centinaio di donne in parlamento, con la conseguenza che ne derivava, vale a dire con la dimostrazione che il parlamento non serve a una mazza. Altri sono i veri centri di potere soprattutto a livello mondiale già allora, figuriamoci oggi come oggi.Per quanto riguarda il problema della lingua da adottare, una imposizione manu militare è impossibile da attuare. Rammento il fallimento del fascismo italiano, che tentò invano di italianizzare il popolo sud tirolese, proibendo la lingua madre,italianizzando i cognomi tirolesi ad esempio trasformando in Giuseppe Neri un autentico Joseph Schwarz. Odioso tentativo che si tentò invano anche nell’ex Jugoslavia.Una soluzione sarebbe quella adottata dalla Chiesa cattolica, attraverso il latino, oggi come oggi,il latinorum da adottare sarebbe l’inglese. Oppure adottare come proposto dagli anarchici la lingua artificiale dell’esperanto.Ma fu un fallimento storico anche l’esperanto.
Que se vayan
In India esistono due lingue ufficiale dello Stato Hindi e inglese… peraltro milioni di persone non parlano ne’ l’uno ne’ l’altro è nei singoli stati della federazione rivestono un ruolo importante (sostanziale ed ufficiale) molte lingue “locali”. Come il bengali parlato tra India è Bangladesh da alcune centinaia di milioni di persone.
leopoldo
sulle lingue morte è impossibile andare in un luogo dove le parlano ?!? non, mi pare almeno una volta ci andiamo tutti, per adesso nessuno torna per raccontarlo, purtroppo.
sulle lingue inventate, dario fo col gran melot si è destreggiato bene. forse meglio di tutti noi.
bisogna vedere l’impatto delle nuove tecnologie e l’evoluzione tra parlato e scritto il gap differenziale che esiste; bisogna vedere le prime rudimentali forme simboliche condivise (-: come si evolveranno.
e come individui quante forme espresive riusciremo a gestire. condivido molto l’articolo peccato lo spazio oggi sia così limitato
Giancarlo Russo
Salve Prof. Giannuli,
La seguo da tempo e trovo i suoi articoli sempre precisi e decisamente stimolanti. Le scrivo per chiederle una spiegazione che spero avrà tempo e voglia di darmi: all’inizio di questo articolo, Lei accenna ad una distinzione tra neoliberismo ed il liberalismo/liberismo classico. Siccome la cosa m’interessa molto, può essere più preciso? E, in tal caso, a Sua conoscenza, esistono libri/video che trattano l’argomento in maniera approfondita?
Con stima,
GR
aldogiannuli
Giancarlo Russo: avevo già in mente di scrivere un pezzo in proposito, lo farò prossimamemnte
SantiNumi
Ottimo articolo.
Ricordo che il patrigno dell’UE Coudenhove-Kalergi (non “grembiulino rosso” Spinelli…), oltre aver fatto proseliti in tutto il pianeta per come radunare le forze oligarchiche per la Grande Restaurazione, fu colui che propose la Germania come Paese su cui edificare la pan-€uropa e, soprattutto, fu colui che propose l’inglese come lingua “universale”.
(Il padre spirituale dell’eugenetica in atto in Europa e nel mondo era figlio di un ambasciatore aristocratico che parlava 16 lingue)
@Giancarlo Russo
In realtà non esiste neanche un “unico” neoliberismo: l’economia neoclassica è possibile distinguerla almeno in tre dottrine completamente diverse: quella angloamericana, di Chicago e del Washington Consensus che propone più o meno un “capitalismo sfrenato” ante ’29, quella tedesca di Friburgo chiamata “ordoliberista” assurta ad ideologia ad hoc per far saltare le democrazie costituzionali, proprio perché ordimentalizza e porta nelle istituzioni i dogmi neo-liberali: è chiamata “economia sociale di mercato”, paluda di socialismo, interventismo, cristianesimo ed antifascismo la più pervasiva ideologia volta alla restaurazione “kalergiana”: è infatti il modello SANCITO nei trattati UE.
Il terzo modello neoclassico sta invece “dietro” al pensiero economico di entrambe i pensieri economici precedenti, e “l’ideologo” che influenzò gli strumenti macroeconomici, giuridici e propagandistico-concettuali per l’attacco alle democrazie liberali anglosassoni e quelle pluriclasse e socialdemocratiche antifasciste fu F.A. Hayek: parlo quindi della Scuola Austriaca che fonda le radici nell’antagonista dell’industrializzazione Menger e vede, appunto, il “medioevo” pre-industriale come il più grande momento di civiltà umana.
Tutte queste dottrine poggiano le basi sull’economia classica su cui si fondavano sia il liberismo che il marxismo: ovvero elaborano i loro modelli come se la macroeconomia moderna affermata rimuovendo “le barriere ideologiche” con Keynes e Kalecky non fosse mai esistita.
Ovvero il pensiero economico su cui si fondano le democrazie costituzionali antifasciste nate nel dopoguerra. (Che non a caso sono fondate sul “lavoro”).
Certo è che un liberale democratico come Popper non può essere paragonato all’amico Hayek che elogiava Pinochet: ma, soprattutto dopo il collasso dei sistemi collettivisti, distinguere tra “liberismi” non ha a parer mio più senso: se si accetta che il mercato e il capitale sono essenziali al benessere sociale, allora l’unica preoccupazione del democratico consiste nel come “governare” il mercato e come renderlo subordinato ai fini sociali.
Diffida sempre da chi parla di “libertà” che non siano squisitamente positive, partecipative.
Il socialismo liberale dal federalista Salvemini passando da Rosselli, Gobetti, Spinelli, Rossi fino ai radicali e poi al PD/SEL ammanta di progressismo i vari liberismi, liberalismi einaudiani e libertarismi che spostano l’attenzione dalla lotta di classe e dai diritti sociali con i diritti civili cosmetici e idiozie internazionaliste e federaliste anti-sovraniste.
I socialismi liberali prestano il grembiulino rosso per le macellerie sociali.
Chi blatera di libertà lo fa generalmente riferendosi solamente a quella “negativa” hobbesiana.
Un vero democratico che auspica all’uguaglianza sostanziale se ne frega dei vari libertarismi/liberalismi: è consapevole che la vera libertà da cui discende quella individuale è quella sociale, e che questa è naturale conseguenza del socialismo di un programma costituzionale moderno.
La libertà non è quindi il fine primo, ma il fine ultimo.
Bolgaroni Maurizio
A mio parere io ritengo che il latino, come lingua morta , potrebbe essere presa in esame come lingua comune europea. Non ci sarebbe niente da inventare. La letteratura è ricca di molti testi in latino. Inoltre il latino diversi secoli fa era conosciuto in tutta Europa, inoltre nei testi scientifici di tutto il mondo le specie degli animali, delle piante, dei batteri ecc… sono rappresentati in latino. Non è forse vero.
Giancarlo Russo
@ SantiNumi:
anzitutto, grazie per la risposta. In sostanza, ciò che Lei scrive è quello che penso io da tempo: qualunque “epiteto” si aggiunga al liberismo, questo non muta la sostanza della sua intrinseca violenza. Liberismo e capitalismo, indipendentemente dalla declinazione che si sceglie di usare, non sono conciliabili né con la democrazia né con la (vera) libertà e, in sostanza, al giorno d’oggi, la reale contrapposizione non è (semplificando) fra “destra” e “sinistra” che, approssimativamente, risultano più o meno perfettamente sovrapponibili e spesso indistinguibili, bensì fra capitalismo ed anticapitalismo. Associare il liberismo/libertarismo alla libertà ed alla democrazia, oltre ad essere un falso, è pure un insulto all’intelligenza umana. Peccato, però, che siano in molti a cascarci…
Con stima,
GR
Giancarlo Russo
Grazie mille, Prof. Gentilissimo!
Con stima,
GR
SantiNumi
@Giancarlo Russo
Il fatto che destra e sinistra politica siano indistinguibili è dato dal semplice fatto che si differenziano esclusivamente a livello “cosmetico”, in riferimento ai diritti civili, ma NESSUNO ha più idea di COSA siano i diritti sociali e, soprattutto, COME questi si debbano difendere e quali siano le implicazioni di questi su quelli politici e su quelli civili.
La destra e la sinistra ESISTONO eccome: una difende più o meno gli interessi del capitale, l’altra difende più o meno gli interessi del lavoro: la funzione di produzione è proprio y=f(L,K) (L sta a sinistra!)
Questa può rappresentare sinteticamente il CONFLITTO DISTRIBUTIVO da cui nascono le lotte tra classi: lotta di classe che è poi un modello per descrivere (v. Kalecky) quella che è la VERA competizione storica, cioè quella per il controllo delle istituzioni e la loro rimodellazione per cristallizzare un sempiterno ordine sociale.
Quindi, per certi versi, la lotta tra K ed L può essere fuorviante perché trascura che il capitale è “funzionale” al lavoro stesso e al benessere dei lavoratori, tant’è (v. Kalecky e Rawls) che è evidente che i “veri” interessi economici non sono volti a massimizzare il profitto tout-court, ma a farlo “rispetto” alla massa di lavoratori di cui fanno parte anche i capitalisti meno politicamente influenti: in ottica “esclusivista” e di puro, semplice, brutale POTERE.
L’obiettivo ultimo della classe dominante attuale è quindi “molto simile” al secondo leninismo e allo stalinismo, con l’aggravante (v. Orwell nella recensione di “Road to Serfdom” di Hayek) di voler (come ben spiega “l’architetto” Kalergi) creare una grande “governance globale” assolutamente “privata”, dove gli Stati nazione sono sostituite da “macro-regioni” assolutamente assimilabili a delle “corporation” da far gestire a manager/tecnici.
Questo viene fatto a SCAPITO del capitalismo “liberale” come gli occidentali hanno sempre conosciuto e che tramite le lotte sindacali ha portato il benessere dell’industrializzazione anche ai lavoratori: benessere che ha raggiunto il culmine quando sotto lo spauracchio bolscevico (e dopo un centinaio di milioni di morti…) le “élite” hanno dovuto “concedere” una certa sovranità ai governi democratici e lasciar praticare il “keynesismo”.
Keynesismo che “costituzionalizzato” stava rappresentando la svolta “riformista” all’utopia marxiana. (v. Lelio Basso)
La visione di anti-capitalismo è fondamentalmente marxista ma, come penso di aver fatto intravvedere, anche del suo opposto neo-liberista (v. Menger e discepoli) cerca i medesimi risultati: infatti l’ecologismo, il decrescismo (che sottende il peggio di Malthus),il femminismo, i vari “diritti cosmetici” sono condivisi da entrambi “gli estremi”.
L’omofobia, la xenofobia, il “negazionismo”, le “quote rose”, il femminicidio sono tutti neologismi che nascono nell’estrema destra Tea-Party anglosassone e neo-aristocratica europea, e hanno come fine ultimo quello di reintrodurre il reato di opinione che cosmetizza il reato politico. Questi sono da decenni i cavalli di battaglia dei sedicenti anti-fascisti. (Nazional-socialismo che nasceva in contrapposizione a questi progetti elitisti “di classe”, proponendo un elitismo di “razza/etnia”, nazionalista, corporativo da contrapporre a quello di classa/razza… sarebbero da rileggere la VERE teorie razziali, che non c’entrano una fava con i flussi del fattore lavoro…)
Sei contro il “liberismo” che comporta insieme alla libera circolazione di merci e capitali la (meno libera) circolazione del fattore lavoro? Sei uno xenofobo e ti sbatto in galera.
Dal mio punto di vista (e qui non so dove posso trovare concorde il Professore) che è per molti versi il punto di vista dei MAGGIORI Padri costituenti a partire da Basso e Fanfani, lo scontro NON è quello tra capitalismo e anti-capitalismo ma, come ormai fanno notare anche le destre politiche francesi ed inglesi (che almeno nel primo caso sono “sinistre economiche”) tra democrazie costituzionali, SOCIALISTE, KEYNESIANE (quindi che accettano la presenza del mercato subordinato ai fini sociali), PLURICLASSE e RES PUBLICA versus una governance tecnocratica, elitista, esclusivista che vuole la creazione di una “RES PRIVATA” globale.
Sinstra e destra sono “un’approssimazione” dello storico, antropologico “sopra e sotto”. Illuminati figli di Dio e prolet incolto figlio del demonio, mezzo uomo e mezza bestia che deve “espiare il proprio DEBITO (shuld)”, il proprio peccato originale lavorando e soffrendo per fornire l’energia elettrica al “monte Olimpo”.
Con tutto il rispetto dell’ospite: NON TI FIDARE di chi ti parla di “anti-capitalismo” o, peggio, di “sogni internazionalisti”.
Sono argomenti dibattuti da secoli E CI SONO GIA’ le risposte alle tue domande: basta togliersi dagli occhi le fette di salame ideologiche e leggersi i dibattiti dell’ultimo secolo: la Cultura è già scritta, basta leggerla e capirla con un po’ di sana epistemologia de-ideologizzata. E la fame e la miseria aiutano in questo.
La più grande sintesi della cultura umana ad oggi è vergata nella nostra Costituzione.
Quindi gli anti-fascisti VERI, ovvero quelli che NON sono sopravvissuti a quegli anni (sempre con il dovuto rispetto dell’ANPI…), sono coloro che gettano nella cloaca quel vecchio, incrostato vestito di dogmi politico-ideologici, per difendere col proprio SANGUE la nostra Carta Costituzionale: Essa sì che RAPPRESENTA LA NOSTRA LIBERTA’.
Con stima.
SantiNumi
p.s.
Prima che passi da queste parti il simpatico pigi a darmi lezioni di tedesco:
«Schuld», debito = colpa, come da tradizione medioevale… «[…]rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori[…]»
Giancarlo Russo
@ SantiNumi:
La ringrazio infinitamente per la pazienza e la disponibilità con le quali mi risponde. È interessante ciò che scrive ma, non avendo piena conoscenza di tutte le cose che ha citato, mi ci vorrà un po’ di tempo per capirLa a fondo, su questo non posso che scusarmi, Le ho causato una (parziale) perdita di tempo. Su una cosa, però, sono d’accordo: la Libertà intrisa nella nostra Costituzione. Ed è aberrante e grottesco che si cerchi di stravolgere i principi fondanti di una Carta che, in molti punti (a cominciare dall’art. 3) non è mai entrata in vigore. Per altro, con l’appoggio della maggior parte dei (cosiddetti) mezzi d’informazione.
Con stima (e sincera riconoscenza),
GR
Luca iozzino
Condivido al 100% L’analisi, non le soluzioni.
Tecnicamente la prima ( Solo per l’Inglese ) è vagamente fattibile ( anche se centinaia di milioni di europei Italiani in pole position ancora non lo sanno ). Le altre due sono irrealizzabili.
Un conto è israele un staterello fatto di sparuti gruppi di persone emigrate da decine di stati diversi, altro è L’Europa, fatta da identità forti, da lingue di tradizione ultrasecolare parlate da comunità di centinaia di milioni di abitanti. Poi quale lingua morta? L’unica realizzabile potrebbe essere una forma semplificata di latino, ma ciò verrebbe a vantaggio dei paesi mediterranei che invece sono l’ultima ruta del carro europeo.
Non ci sono soluzioni, L’Europa non si può fare .
Sarebbe più sensato pensare ad un unione mediterranea tra Italia Francia Spagna e Portogallo Belgio ed una Grande Germania Austria Polonia Olanda Paesi scandinavi.
L’Inghilterra non è Europa.
Rafael Mangrone
Articolo condivisibile e puntuale. Prospettiva interessante anche applicabile alla questione delle lingue minoritarie europee e non, capitalo qui tralasciato per ragioni di brevità immagino. Piuttosto mi sembra manchi una conclusione, una proposta nella fattispecie. Grazie dell’ottimo imput comunque.