La sovraestensione imperiale e il probabile declino americano.

Per chiudere il piccolo cerchio delle “riflessioni geopolitiche” che Aldo ha ospitato sul suo blog non può mancare una riflessione sull’America di Trump, riflessione che, a poco più di un anno dalla sua elezione, vorrebbe condurci ad abbozzare un primissimo bilancio.


No, al di là di quanto afferma la stampa cis e transoceanica non sarà Donald Trump a causare la caduta dell’Impero Americano, come non furono Commodo o Massimino il Trace a causare la caduta di quello Romano o ancora Gorbacev a causare quella dell’Impero Sovietico. Non da soli, almeno. Per quanto singole scelte errate di singoli governanti fungano da facilitatori, catalizzatori e acceleratori di processi storici, questi ultimi sono dati da prospettive assai più lunghe, complesse, strutturali e non congiunturali. Nella fattispecie – per quanto riguarda cioè gli imperi e le forme statuali e politica di natura “imperiale” – la caduta (o, più propriamente nel caso degli Stati Uniti, il declino) è causato da alcuni fattori che la storiografia, l’economia e la scienza strategica individuano ormai con buona approssimazione. Per fare un sunto della letteratura degli ultimi decenni sul tema, a partire dal fondamentale saggio “Ascesa e declino delle grandi potenze” di Paul Kennedy, gli studi di economisti della scuola di economia istituzionalista contemporanea (per citare un autore tra i tanti, Daron Acemoglu), di polemologi come Edward Luttwak ma anche di ottimi studiosi italiani come Giovanni Arrighi (che appunto fu profondamente influenzato dal pensiero anglosassone), il declino delle grandi potenze si può ricondurre alla problematica della “sovraestensione”.

Facciamo un passo indietro: dei fenomeni storici prevalgono oggi due macrotipologie di lettura, cioè “economicista” e “istituzionalista”. Non si tratta di due scuole organiche ma piuttosto di correnti di pensiero eterogenee ma comunque ascrivibili ad una simile visione del mondo. Per i primi sono i macrofenomeni economici la struttura portante e causale di quelli storici. Per Marx e per il pensiero materialista l’economia è struttura e il resto è sovrastruttura: visione che il mondo anglosassone non dovrà fare nemmeno lo sforzo di accogliere perché ne aveva già prodotta una relativamente simile con Smith e con la scuola empirista, corrente che prevarrà sulle letture antieconomicistiche di John Stuart Mill fino a giungere ai propri estremi proprio nel solco del liberismo degli Hayek, dei Milton Friedman e di politici come Margareth Thatcher (“non esiste questo qualcosa che chiamano “società”: esistono individui”). C’è poi il filone istituzionalista, ancora più eterogeneo per discipline e tendenze politiche ma sempre assai diffuso negli ambienti anglosassoni – sia di taglio liberista che liberal-progressista – secondo il quale sono le istituzioni, inclusi i valori politici di fondo di una società, a plasmarne il successo economico e politico. Qui troviamo orientamenti simili a quelli di precedenti pensatori di area germanica-continentale (Weber) e che spiegano il dominio anglosassone del mondo, prima tramite l’impero britannico e poi con quello americano, con la superiore qualità delle istituzioni liberaldemocratiche (ovviamente di marca protestante). Entrambe le correnti sono oggi prevalenti nel mondo accademico globale – dove infatti le università anglosassoni detengono una primazia: incidentalmente si noti come il pur fertilissimo pensiero di scuola francese, da Braudel e dalla Scuola Degli Annali passando per gli strutturalisti, che tende metologicamente ad essere intermedio tra i due sopraccitati e contenutisticamente rifiuta i toni moralistici e valutativi miranti ad esaltare la liberaldemocrazia anglosassone come punto culminante dello sviluppo umano, sembri invece essere stato messo in disparte.

Questa lunga digressione – in cui, mi si perdonerà, ho semplificato all’estremo ben più di un secolo di studi – ci serve a mostrare come le due correnti di pensiero, giungano sorprendentemente ad una lettura molto simile del ciclo storico degli imperi e del loro declino: il tema della sovraestensione cui accennavamo in apertura. Gli imperi sono condannati ad espandersi dalla loro stessa natura: la loro crescita li porta in contatto con nemici, avversari e concorrenti sempre nuovi con cui bisogna battersi, ora per ragioni difensive e di sicurezza ora per velleità di conquista. L’economia imperiale stessa si regge sulla guerra, sulle conquiste, la potenza della moneta dell’impero (dalla quantità d’oro razziato o ottenuto coi commerci in un vastissimo spazio che i romani potevano fondere al dollaro come moneta globale) si basa sulla sua potenza militare che a propria volta si fonda sulla ricchezza dell’impero. Un impero non può scegliere coscientemente di chiudersi al mondo, pena l’asfissia: è quello che accadde all’Impero Cinese della dinastia Ming, chiusosi in un delirio ideologico reazionario per tutelare la casta dei mandarini, delirio culminato col divieto di navigazione nell’oceano – scelta che contribuì a condannare la prima economia globale del tempo ad un inarrestabile declino. È quello che sanno gli apparati dello stato profondo americano che fanno l’impossibile per sabotare i propositi isolazionisti di Trump. Ogni impero raggiunge nel proprio ciclo storico un picco di estensione politica, militare, in definitiva geografica e strategica, oltre il quale i costi – militari, umani e finanziari – del mantenimento del regime imperiale superano i benefici, quantomeno quelli percepiti da una popolazione stanca delle continue guerre e conquistata dal benessere. Gli immigrati, cui romani ed americani spalancano le porte, portano sì nuove energie e la necessaria fame ma anche forti problemi di integrazione che sono un altro contributo, sul lungo periodo, alla disgregazione sociale degli imperi stessi. La corrente economicistica spiega tutto con il classico “dilemma del burro e dei cannoni”: ad un certo punto, l’impero cessa di essere efficiente nell’allocare risorse tra l’espansione esterna e il benessere interno. All’impero sovietico accadde dopo nemmeno un secolo di storia, a quello americano comincia forse ad accadere ora? La corrente istituzionalista è un po’ meno determinista e pone l’accento sul degrado delle istituzioni partecipative: in tutti gli imperi si consolidano caste economiche che mirano a costituirsi come gruppo chiuso inibendo la mobilità sociale e le energie creative della società, spostando l’economia da produttiva ad estrattiva/speculativa (quello che successe agli imperi mercantili veneziano e britannico).

In tutto questo e al di là delle superficialità giornalistiche Trump è un effetto e non una causa: un effetto della stanchezza imperiale della classe lavoratrice e operaia e della classe media bianca (spesso coincidenti nel paese) per lo sforzo bellico sostenuto dalle precedenti presidenze Clinton e Bush e per la percepita perdita di potere, influenza e peso demografico a causa degli immigrati e della popolazione nera. Le amministrazioni Clinton e Busch sono però l’architrave della nostra riflessione: “l’arroganza unipolare” americana, l’illusione della fine della storia e dell’eternità della condizione di unica potenza hanno condotto gli Stati Uniti ad una serie di avventure militari espansive teoricamente sensate dal punto di vista geopolitico – occupazione di bacini petroliferi, chiusura della Russia nei margini nordici dell’Eurasia – ma disastrosi nel conseguente dispendio umano e finanziario nonché nella rottura di consolidati equilibri strategici. Oggi l’America si ritrova con una Russia risorgente e compattata al proprio interno dalle mosse americane in Ucraina e nell’ex-Jugoslavija, un Iran quasi padrone del Medio Oriente e una Cina in compiuta ascesa, nonché con gli alleati europei e turchi sempre più insofferenti all’interventismo a stelle e strisce.

Il disastro finale per il paese di George Washington sarebbe però solo uno: la perdita del dollaro come valuta globale, quel che non si vede all’orizzonte, per l’insipienza europea nel gestire la crisi dell’Euro e per la non ancora completa affermazione dello Yuan cinese. I cinesi hanno appreso bene la lezione americana, sono riluttanti a cadere nella trappola della sovraespansione e a giocare un più assertivo ed espansivo ruolo internazionale. Preferiscono la penetrazione mercantile a quella militare e politica, quel che potrebbe forse rallentare ma forse non inibire un futuro ruolo se non di predominio dello Yuan quantomeno di sua pari dignità col dollaro. Il declino relativo dell’Impero Americano è un fatto cui assistiamo già oggi: gli USA non sono più i signori incontrastati del pianeta. La Caduta dell’Impero americano non è però un fatto prevedibile nel medio termine, giacché questi mantengono due enormi vantaggi. In primis quello tecnologico, come ricordava il compianto Ennio Di Nolfo, decano degli studi di politica internazionale in Italia. In secundis, quello geopolitico.

Già, la geografia e la geopolitica, troppo spesso ignorate da economisti e sociologi ma ben note ai militari e a molti storici (soprattutto quelli della scuola francese!). L’America è un’isola, e non ha nemici via terra. Può dedicare le proprie risorse tecnologiche e militari non al controllo di un territorio, ma delle infrastrutture di collegamento tra i territori: i mari (con la flotta militare più potente della storia umana), lo spazio (in cui mantiene un importante vantaggio tecnologico) e le reti di comunicazione cibernetiche (l’America le ha inventate, ma sono il settore in cui i cambiamenti sono più rapidi e in cui cinesi ed anche i russi hanno fatto i più rapidi progressi). New York resta sul podio delle piazze finanziarie globali – prima sotto alcuni indicatori. Le imprese tecnologiche americane hanno capacità finanziaria (e un domani forza politica?) incomparabile e sono quasi monopoliste in interi ambiti di attività (da Google a Facebook). Lo stesso deficit commerciale americano alimenta la dimensione globale del dollaro. L’America è la potenza talassocratica ed infrastrutturale più forte della storia, laddove i russi – e i tedeschi – sono potenze prive del controllo dei mari (ma dipendenti dalle esportazioni!) e i cinesi soffrono della doppia vulnerabilità: dal mare, circondati da anelli di potenze ostili o comunque non alleate nonché dalla flotta americana stessa e da terra, tenuti lontani dai mercati europei da grandi distanze, spazi aridi e montuosi e dall’instabilità della “faglia islamica”, composta da stati collassati, poveri, instabili, da guerre, guerriglie e terrorismo. Guarda caso, la faglia in cui gli americani hanno concentrato e concentrano gli sforzi per aumentare il tasso di caos e di instabilità.

Il declino americano è solo relativo. La partita del caos è apertissima.

Amedeo Maddaluno

aldo giannuli, amedeo maddaluno


Aldo Giannuli

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Comments (16)

  • Lo ho letto di un fiato con interesse crescente man mano che leggevo . Articolo /fotografia geopolitica INTERESSANTISSIMO. Veramente un bel articolo.

  • il caos è solo percepito, e gli scontri militari sono ammessi solo dove non può esistere espansione tecnologica. Se volessero spandere i territori di conquista si preoccuperebbero di re-imboscare i deserti come il Sahara, invece i deserti aumentano sia di esempio la California. La velocità che produce il processo tecnologico è tale, che la scelta di scaricare i costi sul lavoro trova l’inersia sociale e sindacale, come ammissione di uno status quo. Nel Minotauro di Varoufakis, il sistema descritto può solo entrare in crisi dall’incapacità di mutare del sistema. Il sistema di oligarchie attuale può scontrarsi, ma non incrinare il percorso evolutivo che introduce modelli di schiavismo nel sistema agricolo del agro pontino con manovalanza sikh come ricerche è prodotti di alta tecnologia che la massa utilizza prevalentemente per messaggini, fare foto, telefonare, giochi.

    • Lei mette giustamente in conto le contraddizioni presenti in ogni sistema capitalistico – che meriterebbero e meritano criteri di studio marxisti non presenti nel mio pezzo.

    • Io non parlerei di contraddizioni, ma di soluzione diverse del sistema. Delle quali alcune vanno rimosse perché inefficienti o superate. L’automazione fa scomparire l’operaio massa e ridisegna l’industria, la città, la società. C’è da capire se i sikh schiavizzati sono più redditizi di una azienda agricola con serre, trattori, droni, agronomi che produce ciclicamente; i costi di sicurezza fisica delle strutture e sociali delle persone. Le società contemporanee progettano studi di fattibilità decennali si guardi al progetto del sole come lente gravitazionale , sembra una follia per quando si vedranno i risultati, eppure sono tutti tipi di studi che vengono finanziati, progetti a lunga scadenza che prefigurano modelli di stabilità.

      Concordo con lo spirito del pezzo, solo che non credo che esista caos sopra tutto in medio oriente e solo che non conosciamo le variabili in gioco. Né che i sistemi oligarchici che sono in trasformazione siano in declino stanno solo riaggiustando il tiro: mollare le energie fossili per le rinnovabili. Il marxismo e i loro associati politici hanno peccato di immobilità lasciando realizzare la precarizzazione del lavoro.

      La mia è solo una argomentazione a valutare in modo diverso le dinamiche attuali.

  • Articolo interessante e ben scritto, che mi ha fatto venir voglia di leggere il suo “Caos globale” (a proposito perché non è disponibile su Kindle?).

    Alle considerazioni esposte sui fattori di decadenza statunitense aggiungerei la globalizzazione, che ha visto le demoplutocrazie dissanguare la propria base manifatturiera e (in parte) tecnologica a vantaggio dei potenziali concorrenti: un fenomeno non isolato nell’ambito delle repubbliche mercantili, analogo a quanto accaduto a Pisa fra il Tre- e il Quattrocento col dislocamento delle manifatture ad alto valore aggiunto in direzione di Firenze. L’impero talassocratico statunitense ha massimizzato la propria estensione diluendosi sui territori controllati e ha così indebolito in maniera decisiva il centro, essenziale (avverso le mitologie propalate dal pensiero economicista) per mantenere la solidità dell’insieme.

    Lei menziona il fenomeno dell’invasione extracomunitaria manipolata dalle élites plutocratiche per comprimere i costi del lavoro, e la pone giustamente in rapporto cogli effetti dissolutivi ch’essa generò in epoca romana e si appresta a generare oggi. Per valutarli correttamente sarebbe tuttavia essenziale aprirsi alla dimensione razziale del fenomeno (decisiva anche per comprendere la formazione dell’etica del lavoro calvinista cui rinviano gli economicisti), un versante totalmente ignorato nei dibattiti.

    Concludo segnalandoLe un paio di spunti di riflessione: primo, il ruolo preminente giocato dall’internazionale giudaica (che controlla larga parte del sistema finanziario e mediatico imperiale) nel promuoverne il venticinquennale ciclo di guerre mediorientali (tutti i neoconservatives sono ebrei) onde sgombrare il terreno allo stato di Israele; secondo, quanto la residua tenuta statunitense sia dovuta al fatto che nessuno dei suoi contendenti, in quest’epoca di sentire economicista, ha veramente interesse a chiamargli le carte, consapevoli della sua identificazione coll’apparato infrastrutturale e mediatico globale e delle conseguenze dissolutive connaturate a un suo eventuale tracollo.

    Cordialità.

  • Venceslao di Spilimbergo

    Buonasera Esimio signor Maddaluno
    Mi permetta di rivolgerle le più vive congratulazioni per lo splendido articolo offertoci. Sono assolutamente d’accordo con Lei Esimio, in particolare per quanto concerne il contenuto del ultimo paragrafo: gli Stati Uniti sono e rimarranno ancora a lungo l’unico Impero globale… questo a prescindere dal gradimento degli altri popoli di questo pianeta e/o dal gradimento degli stessi cittadini Americani, sempre più provati da quella che, molto correttamente, l’ottimo Dario Fabbri aveva definito “fatica Imperiale” (di cui il Presidente Trump è la manifestazione ultima più evidente). Washington è destinata a rimanere la Superpotenza, senza reali e/o potenziali avversari al momento (la Cina è un gigante con i piedi di argilla, la Russia è condannata per sua stessa ammissione a oltre “100 anni di solitudine”, la cosiddetta Europa è una chimera realizzata su intervento d’Oltreoceano e oramai sempre più vicina a implodere)… eccetto forse il Giappone e la incognita storica del Messico… sino a quando le condizioni geopolitiche che hanno permesso a questo Paese di ergersi al di sopra degli altri non sussisteranno più. Solo a quel punto, venuto meno il contesto nel quale poter sopravvivere (e divenuto quindi insostenibile, non tanto economicamente quanto piuttosto socialmente, il costo della “Gloria Imperii”), gli USA entreranno nei libri di Storia assieme ad altri illustri predecessori. Nel frattempo non possiamo fare altro che assistere, de facto e talvolta pure de iure, impotenti allo svolgersi della cosiddetta “Pax Americana”… singolare pace che nel caso del Vicino Oriente, a seguito del ritiro volontario Nordamericano, si palesa come uno studiato e più volte scientificamente fomentato “caos controllato costante” (termine usato dal centro studi dello Stato Maggiore Russo). O nel caso qualcuno preferisse l’aulico Latino, si palesa come l’applicazione del sempre eterno principio del “divide et impera”!
    Congratulandomi nuovamente con Ella per questa preziosa analisi, la saluto augurandole ogni bene e una buona serata

  • giuseppin vinicio

    Articolo condivisibile,anche se è semplicistico concluderlo con un appello alla paura del caos se non si preserva così lo status quo,anche in lento declino.
    Penso anch’io che gli USA abbiano ancora una supremazia per ancora un lungo periodo poichè nessuno degli attuali contendenti vuol farsi avanti per tutelare l’attuale civiltà industriale e commerciale.Ad esempio,la cina non intende prudentemente sovraesporsi ; La Russia ,circoscritta nell’Euroasia,si sta rafforzando paradossalmente nella stessa area geografica e poltica.Non esistono oggi politiche imperiali:l’ultimo tantativo ideologico è stata la guerra preventiva di Busch per esportare la democrazia.Un tentativo velleitario perchè si è addossato tante critiche e non ha ,come sperato,incrementato in quei Paesi mediorientali il commercio e le aperture istituzionali conseguenti:stranamente era l’abbozzo di coniugare la visione culturale dell’economicismo accademico con quella dell” istituzionalismo.
    Perciò secondo me ci vuole ora un’attenzione più determinata alla riforma e alle regole di intervento delle Organizzazioni mondiali politiche ed economiche affinchè siano capaci di fare una rete nuova sia di interessi sia di costumi istituzionali ,per uscire dallo stalllo in cui ci troviamo.Meglio ho parlato di queste mie ipotesi in un saggio “Antropologia di un declino”-edizioni Europa(Roma).
    L’articolo è comunque una sintesi efficace ed opportuna della storia del pensiero politico-economico che ha guidato le potenze imperiali del mondo in questi ultimi due secoli.Per me ci vuole però un ulteriore salto di qualità ,come ho suggerito,altrimenti saremmo invischiati in una sterile lotta tra il conservatorismo,il sedicente elitismo e i vecchi e nuovi poveri globali,in un quadro di progressivo deterioramento di ogni istituzione democratica ed economica.

  • Aggiungo, ai complimenti altrui, i miei più sentiti.
    Trovo interessante anche ciò che ha apportato (forse un po’ troppo concisamente) Napalm51. Per quanto ne so personalmente, la tecnologia giocherà un ruolo notevole nella decadenza dell’Ovest, perché l’innovazione che si sta sviluppando ad Est avrà uno spettro di applicazione più ampio di quella statunitense, ormai troppo concentrata al raggiungimento di megaprofitti su grandi numeri di individui, spesso solo temporaneamente plagiati, piuttosto che al soddisfacimento di bisogni concreti e duraturi. Inoltre l’accenno che Napalm51 fa sulla bonifica dei deserti non è affatto fuori luogo, perché Cina, CSI, India, Pakistan, Iran e Turchia avranno fra non più di 10 anni a disposizione per questa finalità un comparto di meccanica agraria ancora più efficiente degli attuali, ricavandone un volano di espansione demografica ed economica oggi inimmaginabile.
    Mi associo anche a Lorenzo, precisando che uno studio antropologico andrebbe fatto per poter meglio analizzare gli ultimi imperi, sebbene io sia stato sempre più propenso alle analisi economiche. Nel Medio Evo la Gran Bretagna dopo essere stata rinsanguata dall’ultima immigrazione (quella normanna seguiva ben altre cinque) ha iniziato la sua espansione invadendo la Francia e ben presto monopolizzando i traffici del Mare del Nord. Nonostante le parentesi marittime spagnola, olandese, anseatica, francese e russa, i britannici non hanno mai tollerato i concorrenti e alla prima occasione, con gli strumenti più subdoli, li hanno annichiliti (in questi termini non si è mai combattuto tra Genova e Venezia). Ciò a mio avviso è dipeso dai connotati genetici della popolazione britannica discendente, da troppo poche generazioni (vedi la terza legge di Mendel), da migranti avventurieri: generalmente chi emigra non ama la terra, non ama collaborare, e tendenzialmente compete fino alle estreme conseguenze, ho sparisci tu o vado via io. Negli Stati Uniti questa selezione è risultata doppia, in quanto popolati da migrazioni britanniche e più recentemente latino americane. Gli ebrei residenti negli USA (come quelli in Israele non di origine russa) sono addirittura immigrati discendenti da migrazioni plurime. In questi uomini il disprezzo per le aree rurali, l’asservimento dell’altro da sé o, in mancanza, la sua eliminazione sono categorie mentali frequenti. Se non è ancora chiaro il concetto, può essere utile riferirci agli zingari, che di continue migrazioni dall’Asia verso Ovest hanno caratterizzato la loro storia: non amano la terra ed integrarsi con le popolazioni che li tollerano, ma preferiscono vivere di espedienti ai loro danni, nonostante gli attriti e i disagi che ciò comporta.
    Farei quindi un pronostico sui meccanismi di decadenza degli Stati Uniti. Quando la necessità di prendere dollari, sia per procurarsi idrocarburi, sia in generale per convertire i saldi attivi commerciali presso il FMI (che guarda caso sono resi cronici dalla globalizzazione imposta dalla potenza talassocratica), verrà notevolmente ridotta grazie all’innovazione tecnologica asiatica e alla Vie della Seta terrestri, allora uno shock colpirà l’economia statunitense. Quello shock non sarà assorbito dalla popolazione ed inizieranno conflitti interni, a causa proprio delle sue peculiarità genetiche. Le popolazioni urbane tenderanno ad emigrare all’estero, pur avendo molta terra ancora da coltivare. Nelle campagne invece rimarranno coloro che, grazie alla terza legge di Mendel, avranno perduto certe caratteristiche e così le città torneranno ad esse popolate da meno abitanti, ma più collaborativi. In questo modo i geni della competizione si ridistribuiranno in altri Paesi e gli USA non saranno più invadenti. L’Onnipotente quando ha creato la genetica, ha pensato a tutto. Nel frattempo, si salvi chi può …

  • A proposito dell’Impero in declino c’è chi sostiene esattamente il contrario. E’ George Friedman che vede Polonia, Giappone, Turchia come Stati emergenti e Russia, Cina, Germania in declino.
    Putroppo in Italia i suoi libri non sono tradotti, ma se avete la pazienza di ascoltarlo in inglese diciamo che i suoi interventi sono certamente punti di vista originali e in un certo senso alternativi.
    Ha scritto anche libri Sul declino dell Europa vista come continente violento e diviso.
    Ecco un suo intervento sulla guerra a Budapest…https://www.youtube.com/watch?v=kwnPgscg0vU

  • Articolo/pezzo impeccabile , spiegato anche benissimo .
    Oltre tutto ho imparato/appreso un vocabolo/parola nuova : – potenza Talassocratica –
    Io conoscevo : “Plutocrazia ” .
    Ma non la ” Talassocrazia ” .
    In verità , leggendo su Wikipedia non è che ci ho capito molto .
    A “naso” mi sembra che gli USA ( in senso lato del termine “politica-economica-estera-interna ” ) sono più una Plutocrazia che una Talassocrazia …. ma tantè .

  • Nienge paura! IL prossimo presidente Usa sara’ Willy Coyote, un vero cartone animato! Altro. Che ciuffo biondo! Beep beep ha i gjorni contati.

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