Il prezzo del petrolio basso è una minaccia o un’opportunità?

Di Lamberto Aliberti. Un turbine si è recentemente abbattuto sul mondo, sulla sua fragile incerta ripresa economica, dopo 5 anni di crisi nera: il crollo del prezzo del petrolio. E dopo un primo momento, in cui gran parte degli economisti, senza troppo rifletterci sopra, si stracciavano le vesti, diventa utile, per non dire necessario, porsi una domanda: il petrolio a basso prezzo è un’opportunità o una minaccia per la crescita? Magari tenendo conto di un consuntivo, a 7 mesi dalla svolta. Servendoci di strumenti rigorosi: un modello  dinamico, e che altro? E partendo da un quadro statistico adeguato. Più avanti, in prossime puntate, la domanda successiva: quanto durerà il basso prezzo?

Il crollo.
Il colpo non poteva essere più drastico, improvviso, profondo. (Fonte: Ministero dello Sviluppo. Gennaio e febbraio 2015 ricalcolati). Presentiamo la serie storica mensile, in griglia trimestrale,  da gennaio 2013 a febbraio 2015, accompagnata da 2 interpolanti, che ci verranno utili più avanti.

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La svolta è di agosto e, dopo una una brevissima incertezza, discesa a rotta di collo fino a tutto gennaio. Si va dai 110$/barile ai 50 scarsi, meno della metà. Lo possiamo capire il pianto a dirotto delle Big Oil. E la speranza che sta suscitando tuttora l’inversione di tendenza di febbraio, un dollaro a barile.

Il lunghissimo termine ci può dire se stiamo entrando in una nuova condizione.

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Due periodi:

1. Preistorico, che si stabilizza (si fa per dire: l’irregolarità è un connotato inscindibile del prezzo di questa commodity) all’inizio degli anni ‘30 e prosegue su valori molto bassi, fino all’inizio degi anni ‘70;

2. L’odierno, caratterizzato dallo shock del rincaro della seconda metà degli anni ’70, cui segue una precipitosa caduta e la nuova impennata forse terminata l’anno scorso. Siamo in presenza di un ciclo? Vale la pena di esaminarlo da vicino, fermandoci sulla sola serie a prezzi costanti.

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Ecco le dinamiche del lungo periodo in atto: vi abbiamo interpolato una curva ciclica, a svolte settennali. Calza decisamente bene. La richiameremo più avanti. Per ora basta a fornirci un minimo di ordine, di cui c’è bisogno, investigando un fenomeno la cui componente irregolare è tanto spiccata, che si stenta a riconoscervi una minima possibilità di spiegazione.

Così torniamo al problema di questo pezzo: se l’accentuato calo dura, come il ciclo fa sospettare, dobbiamo piangere, come molti commentatori suggeriscono? Per una risposta definitiva e poco controvertibile, entriamo a fondo nelle dinamiche dei fattori salienti.

Gli scambi.
Ecco il valore mensile degli scambi, dal 2013 a 15 giorni fa. Sono espressi secondo i tre prezzi dei contratti internazionali: FOB netto, FOB lordo, con nolo del mezzo di trasporto, pagato dal venditore, CIF, nolo pagato dal compratore.

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A parte l’ovvia evidenza della discesa, da agosto del 2014, che cancella quasi del tutto le precedenti, ben note instabilità, di prezzi e volumi scambiati, emerge l’entità dei valori in gioco: in termini FOB netti, cioè al solo prezzo della merce, si tratta di quasi 42 miliardi di dollari nel 2013, appena più di 38 nel 2014.

Queste dinamiche ci suggeriscono una prima considerazione in termini di crescita. Se la misuriamo in PIL, se teniamo presente che il PIL è la somma algebrica di consumi delle famiglie (più bazzecole), consumi pubblici, investimenti, export e import, dove quest’ultimo figura col segno meno, è chiaro che si può disegnare un mondo, nel quale il prezzo del petrolio disegna un quadro di vincenti (importatori netti) e perdenti (esportatori netti).

La mappa di Zero Hedge, pubblicata il 15 marzo 2015, nell’articolo: “Who’s Hurting From Slumping Commodities” ce ne dà un’icastica testimonianza:

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Notiamo che i colori individuano anche le classi di incidenza sul PIL, rispettivamente come import ed export, netti, quindi ci cominciano a fornire il livello di vincita e perdita. Gran parte della crisi economica della Russia e del Venezuela, con effetti geopolitici di primo piano, è indubbiamente nel loro rosso acceso. Curiosamente sembra che l’impatto negativo sia assai più rapido a manifestarsi di quello positivo. L’intera Unione Europea, nonché Brasile, Cina, India, ecc. stanno tuttora alle prese con la crisi o con intoppi e bolle e le speranze di risollevarsi sono affidate ad altri mezzi, mentre si trascura il petrolio, anzi addirittura molti economisti, da noi, hanno fatto proprio il lamento  delle Big Oil, come se il basso prezzo del petrolio fosse una jattura. Fanno eccezione gli Stati Uniti, che dalla recessione sembrano usciti, eppure di ragioni di piangere ne avrebbero, con gli investimenti, costosi non solo sul piano monetario, ma anche ecologico, fatti sulle nuove fonti: shale (ovvero l’estrazione dagli scisti bituminosi) e fracking (ovvero fratturazione di uno strato roccioso profondo, con acqua a fortissima pressione, per aumentare lo sfruttamento dei pozzi esausti).

Insomma, tanto all’interno dei vincitori come dei perdenti, conviene andare con l’aiuto del modello, dopo aver fissato la posizione dei vari paesi, sui flussi dell’enorme ricchezza, mossa dal petrolio nel mondo.

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Fonte dei dati sono le Nazioni Unite. Purtroppo si è dovuto prendere l’ultimo aggiornamento non omogeneo, sul piano temporale, e comunque in terribile ritardo. Ma era indispensabile per una cornice alle fonti internazionali usate abitualmente di provenienza aziendale o di associazioni aziendali.

Vediamo anzitutto gli importatori. I nomi ci dicono subito che è il gruppo più interessante, non fosse perché il più complesso da stimare nel suo impatto con la crescita.

Non sfugge una correlazione piuttosto significativa con la potenza industriale, se guardiamo l’ordine dei paesi. E qui il ritardo ci nuoce,  perché con lo sviluppo degli ultimi anni e una produzione interna decisamente statica e bassa, per non dire minimale, la Cina dovrebbe essersi avvicinata notevolmente agli Stati Uniti, la cui ripresa è cominciata solo di recente, mentre l’estrazione cresce a passi da gigante. Il resto dovrebbe invece essere ancora valido.

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Tutt’altro panorama ci offrono gli esportatori. I paesi sono diversi o in posizioni nettamente diverse, ma di nuovo abbiamo un leader minacciato, ma a una notevole distanza dal secondo. La posizione della Russia, con un export circa doppio dei paesi che seguono, è sorprendente e spiega, in larga misura, la sua profonda crisi economica.

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Come detto in precedenza, ci fermiamo sugli importatori netti (import meno export, maggiore di zero) principali, perché è qui la difficoltà della stima degli effetti economici del petrolio. Nessuna sorpresa, ma forse qualche bisogno di aggiornamento, cui provvederemo direttamente col modello. Gli Stati Uniti sovrastano gli altri due leaders, con un valore quasi doppio. Cina e Giappone si staccano a propria volta dal resto del gruppo, che si distribuisce via via molto più uniformemente, avvicinandosi alle gerarchie del PIL reale, con eccezioni ben riconoscibili, quali il Regno Unito, che gode tuttora della rendita del Mare del Nord e, sorpresa, della stessa Italia.

Chiudiamo con un quadro necessario e doveroso, oltretutto finalmente omogeneo sotto il profilo temporale, l’anno 2011, della stessa fonte: consumi e produzione.

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Nei consumi, le gerarchie cambiano alquanto, rispetto  all’import netto. Entra in gioco quel processo, tuttora in corso, di sottrazione alla dipendenza dall’Oro Nero, che percorre molti paesi, prima di tutto per ragioni ecologiche, in secondo luogo economiche. E non si dovrà trascurare che tali ragioni finiranno per  indebolirsi, se la crisi dei prezzi perdurerà.

La produzione ci offre un quadro molto meno disperso, meno paesi in gioco, in modo significativo e meno distacco l’uno dall’altro, come emerge soprattutto dai pesi %.

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Appare notevole che l’Arabia  Saudita, in posizione di preminenza, ma sotto attacco da Russia e USA, sia riuscita – o forse era la sua ultima possibilità – ad imporre la sua politica di prezzo, fatta di sconti e di volumi estratti, che fanno piangere la Russia e gettano un enorme punto interrogativo sugli ingenti e costosissimi – in denaro e in ambiente – investimenti americani.

Per concludere la dipendenza dal petrolio, dal rapporto fra import netto e consumi.

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Sono i paesi dell’Europa continentale a soffrirla di più, con l’eccezione, ben nota, del Giappone.

È qui a nascere il peso della cosiddetta bolletta petrolifera, che comprende, lo sappiamo tutti, il gas, che del petrolio segue fedelmente le dinamiche di prezzo.

Gli effetti macroeconomici.

La complessità del tema non ci permette di arrivare immediatamente, in modo aggregato, al quadro mondiale. Ci soffermiamo perciò, in dettaglio, sui 3 paesi leader, più i grandi europei, cominciando dove il calcolo è più facile, cioè il commercio estero. Bilanciamo il risparmio nell’import con la perdita di export, (verso il gruppo dei paesi perdenti) e lo esprimiamo come % addizionale. L’orizzonte temporale è il 2015-2018. I valori sono la media del periodo.

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Chi ci guadagna di più (4/5 di PIL nominale) sono gli Stati Uniti, scarsa vocazione all’export, unita a una dipendenza notevole dalle importazioni di petrolio. Subito dopo il Giappone, le cui esportazioni (automobili ed elettronica) sono dirette in massima misura verso USA, Europa e altri paesi con alta dipendenza petrolifera. La Cina invece, per la sua fortissima vocazione esportatrice finisce quasi per perdere gran parte del beneficio del prezzo basso.

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I grandi europei vedono in una posizione marginale il Regno Unito, praticamente autosufficiente nel petrolio e decisamente minoritario come attività industriale. La Francia ci guadagna più di tutti (2/3 di PIL), in ragione della sua dipendenza dalla bolletta petrolifera. Noi ce la giochiamo con la Germania, sofferenti per le esportazioni, il cui calo va indubbiamente al di là degli effetti del prezzo del petrolio. Basta pensare a quanto sta succedendo alla Russia, destinatario di entrambi. La Spagna è in posizione defilata.

Il gioco degli effetti è dunque prevalentemente interno. E la sua lettura rende indispensabile un modello dinamico. Ecco la rete.

Si noti anzitutto il carattere esogeno assegnato al prezzo del petrolio. È un’impostazione ardita, ma plausibile, come emerge dalle dinamiche recessive, iniziate lo scorso agosto, quanto meno nel breve periodo. C’è poi da considerare la relazione inversa prezzo – investimenti. Vale in sistemi caratterizzati, nel complesso, da dipendenza  petrolifera e ne è proporzionale.

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Non si può trascurare infine l’effetto sull’inflazione, tanto temuto dai nostri economisti. Per una visuale chiara del sistema l’abbiamo illustrato a parte. Ma senza dubbio si sovrappone agli altri fattori, mostrando ancora un groviglio di feed back, che per la loro posizione sull’asse dei tempi finiscono per dare una dimensione tridimensionale al sistema.

A questo punto possiamo evidenziare gli scenari, che già ci hanno soccorso nel calcolo del bilancio import-export.

L’orizzonte temporale è il 1915-1918. Sono presentati gli estremi, ma tutti i fattori si muovono nel tempo, dal minimo al massimo o viceversa, compreso il prezzo del petrolio, che segue la traiettoria, del tutto arbitraria, del ciclo presentato in precedenza. Inoltre, per la loro bassa reciproca correlazione, i min e max sono stati mescolati, fino a crearci diversi scenari di 10 simulazioni, considerate necessarie e sufficienti a misurarci l’impatto del basso prezzo del petrolio sulla crescita. Allo scopo ogni simulazione è stata raddoppiata, da un’ipotesi zero col petrolio a 100 dollari costanti a barile e l’altra coi valori appena detti. Tutto il resto dello scenario uguale per entrambe. La crescita l’abbiamo intesa come differenza del PIL reale, cioè a prezzi costanti, fra la simul e la zero. Presenteremo per i due gruppi di paesi, già visti prima, la differenza minima e massima, dovute evidentemente ai diversi fattori di scenario, e per comodità, ma senza nessun appoggio logico, ne daremo anche la media.

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E, a proposito dei vari paesi, si è dovuto considerare che l’effetto del prezzo – in pratica, per quelli che esaminiamo, è come l’effetto di uno sconto – vale nella misura in cui non sia assorbito dalla pesante tassazione (accise e quant’altro) diversamente gravante quasi dovunque.

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Le due soglie della tabella devono considerarsi perciò diverse e diversamente dinamiche da paese a paese, per es. quasi stabile e vicino alla soglia minima per gli Stati Uniti, verso i massimi per l’Europa, soprattutto per chi è in odore di deficit e sanzioni.

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Chi beneficia maggiormente del prezzo basso è la Cina, da metà a quasi 9/10 di punto. Seguono da vicino gli Stati Uniti e lontano il Giappone.

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Compatti sono gli effetti su Francia, Italia e Germania, più contenuti per la Spagna, decisamente marginali per il Regno Unito. È importante notare che i massimi presuppongono sempre una tassazione costante in valore assoluto.
Chiudiamo con una misura del temuto impatto deflazionistico.

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Differenziati, ma sempre sensibili. Seguono, forse accompagnano la crescita.

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Anche per l’Europa notevole correlazione con la crescita.

Lamberto Aliberti, Milano, 23 marzo 2015

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Lamberto Aliberti

Lamberto Aliberti, già Ceo della Maspa Italia, società leader nella system dynamics, è da sempre impegnato anche nel campo della formazione. Da alcuni anni coordina il gruppo Dext,Designing Models for Economics and Politics.

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