Caso Falcone, caso Moro: ma quanti nuovi (tardivi) testimoni!
Da qualche tempo, si sta infittendo il fenomeno di testi che riferiscono “novità” sul caso Moro (sul quale sono spuntati gli artificieri che affermavano essere presente Cossiga in via Fani ben prima della telefonata di Moretti; poi la guardia di Finanza che ha sostenuto che i servizi sapevano della prigione di Moro già da aprile ecc.) e, più recentemente sulla strage di Capaci i cui mandanti sarebbero stati Craxi ed Andreotti. Quale credibilità possiamo dare a questi testi? Forse conviene astrarre da singoli casi per fare una riflessione generale di metodo.
Il testimone tardivo è quello che si presenta spontaneamente -o che viene individuato dalla polizia giudiziaria- fuori tempo massimo, cioè quando il processo di sia già concluso e da parecchi anni. Si tratta del teste più difficile da valutare per qualsiasi tipo di inchiesta penale. In primo luogo per ragioni di ordine strettamente giuridico: se il processo si è concluso, le sue eventuali dichiarazioni possono dar luogo ad una nuova inchiesta solo a condizione di indicare nuovi possibili imputati o, quantomeno, nuove piste investigative rispetto al giudicato penale formato.
Questo perché, se gli imputati del processo precedente sono stati condannati, la sua deposizione non aggiunge nulla a quanto già stabilito dalla sentenza, se sono stati assolti non sono più processabili. Tuttavia, le rivelazioni del teste tardivo possono essere funzionali ad inchieste di tipo storico o giornalistico, ma questo aggiunge più problemi di quanti non ne risolva. Infatti, in sede giudiziaria, il teste risponde penalmente delle sue affermazioni ed anche delle sue eventuali reticenze, non può rifiutarsi di rispondere alle domande postegli ecc., nel caso di inchieste extragiudiziali il teste tardivo al massimo può incorrere in una querela per calunnia –se ve ne sono gli estremi- ma non è obbligato a rispondere a nessuna domanda e non incorre nel ben più pesante reato di testimonianza falsa o reticente e questo ridimensiona il valore delle sue affermazioni. E’ bene chiarirlo perché spesso si tende a mettere sullo stesso piano le affermazioni di un teste sentito fuori da un giudizio e quelle contenute nelle carte processuali.
Naturalmente può darsi che un teste mai sentito dall’Autorità giudiziaria sia più veritiero e credibile di un altro che abbia deposto in dibattimento, ma, in linea di massima, si immagina che chi sia ascoltato sotto vincolo di giuramento sia più credibile di chi lo faccia in sede extra giudiziale. Questo non vuol dire che, in sede di ricostruzione storica, non si debba tener conto di quanto dica un teste extra dibattimentale, quando le sue affermazioni contrastino con quelle raccolte in sede processuale, semplicemente si rende necessaria un’attività di riscontro particolarmente accurata.
Anche perché il teste tardivo suscita per definizione scetticismo. La prima domanda che, inevitabilmente, egli si sentirà porre sarà “Perché solo ora?”. Il teste può aver avuto molti buoni motivi per non aver parlato prima, ad esempio, la paura (la ragione più comune e probabile), oppure il non volere compromettere altre persone che, magari, nel frattempo sono decedute o il cui eventuale reato sia caduto in prescrizione, oppure ragioni politiche (non voler avvantaggiare un determinato partito o non danneggiarne un altro), ecc. E, come è logico, ci sono motivi più credibili -come quelli appena indicati- ed altri meno credibili come, ad esempio “non avevo capito l’importanza di quello che avevo visto”, oppure “pensavo fosse una circostanza nota”. Una spiegazione di questo tipo potrebbe avere una sua relativa credibilità nel caso di processi di scarsa eco mediatica, ma in “casi celebri” che, hanno ricevuto una forte attenzione di giornali e televisioni, questa spiegazione convince assai poco. In ogni caso, l’onere di dimostrare la propria buona fede ricade sul dichiarante che, in qualche modo, deve giustificare il suo lungo silenzio. Il dubbio di essere di fronte ad un mitomane o un depistatore è lecito. Come anche quello di un teste, pure genuino, ma che amplifichi i suoi ricordi oltre quello che effettivamente sa.
E questo anche perché le sue successive dichiarazioni saranno tanto più difficilmente riscontrabili quanto più lontana sarà l’epoca dei fatti: a distanza di 15 o 20 anni, dove trovare un altro testimone che confermi, pure marginalmente, la deposizione tardiva? E dove trovare il particolare oggetto descritto e che chissà dove è finito? Ma è anche vero che è parimenti difficile trovare smentite per le stesse ragioni.
Questo, ovviamente, lascia le dichiarazioni tardive in un limbo nel quale non le si può dichiarare false ma neppure vere.
A complicare le cose, c’è anche l’inevitabile offesa alla memoria recata dal tempo. Anzi, un teste che, a distanza di venti anni, ricordi con grande precisione troppi particolari, magari di poco conto, induce ad ulteriore scetticismo. Una quindicina di anni fa, a Roma, in un caso di terrorismo, un teste sostenne di aver riconosciuto –a distanza di dieci mesi dal fatto- l’autore della telefonata di rivendicazione, per averlo incrociato all’uscita dalla cabina telefonica dalla quale, ad una certa ora, era partita quella telefonata ed aggiungeva di essere anche certo dell’ora. Il caso, poi, non ebbe grande seguito ed a ragion veduta: quanto è credibile un teste –per quanto fisionomista e dotato di buona memoria- che riconosce con certezza, dieci mesi dopo il fatto, uno sconosciuto accidentalmente incrociato per una manciata di secondi? Per di più, ricordando perfettamente l’ora in cui questo è accaduto?
Ancora peggio se si tratta di “casi celebri” che hanno avuto ampio risalto sui mezzi di informazione: il depistatore potrebbe intenzionalmente usare una notizia marginale, uscita su un organo del tutto minore, perché questo dopo risulti come riscontro, mentre il teste genuino o il mitomane potrebbero sovrapporre cose lette o sentite ai propri ricordi, modificandoli. La memoria del teste tardivo, infatti, anche nel migliore dei casi non è una memoria “pulita”, ma necessariamente contaminata da trasmissioni televisive, libri, articoli, conversazioni ecc.
In queste condizioni non è facile stabilire quanto possa esserci di vero nelle affermazioni di un teste di questo genere. Nei casi citati sia per Moro che per Falcone, le rivelazioni riguardano essenzialmente Andreotti (in altri due casi Craxi e Cossiga) e, guarda caso, emergono solo dopo qualche mese dalla sua morte. Dunque, il silenzio sarebbe stato dettato dal timore di mettersi contro un uomo potente e temibile. Verissimo, però, ora l’uomo in questione non è in grado di smentire, dire la sua versione, difendersi e questo, per definizione, toglie ulteriormente credibilità al tutto.
Nel merito, peraltro, tanto le dichiarazioni di Francesco Onorato su Capaci, quanto quelle degli artificieri Vitantonio Raso e Giovanni Chirchetta, ma soprattutto del finanziere Giovanni Ladu, presentano incongruenze interne allo stesso racconto che lasciano molto perplessi.
Insomma: di che stiamo parlando?
Aldo Giannuli
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Franco Romanò
Caro aldo leggerò con attenzione come sempre ma una cosa la voglio dire subito. Perchè stupirsi delle testimonianze ritardate? Non è solo una questione di fare o non fare l’eroe o della paura per un uomo potente. Ma se io so, come so e come sai anche tu che se vado a denunciare qualcosa le probabilità che ho di parlare con lo sceriffo sono esattamente uguali a quelle di parlare con il capo della banda, capirai che forse un po’ di cautela è necessaria,
menici60d15
Stiamo parlando di fatti di eccezionale gravità, sui quali è da incoscenti e poveracci accettare che non sia fatta chiarezza, perchè riguardano anche le nostre esistenze personali. Sul caso Ladu sto scrivendo un breve pezzo (attendo che mi arrivi il libro di Imposimato ”I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia”) dove commento anche sulla mia proposta di Imposimato come candidato alla Pdr in risposta a quella di Giannuli di Guariniello (A. Giannuli Ancora sulle candidature al Quirinale
, 5 marzo 2013). Quando lo avrò pubblicato posterò il link su questo sito, sperando di fare cosa utile.
Un commento al post ““Non vollero salvare Moro”. Indagato per calunnia ex finanziere” Il Fatto quotidiano, 5 novembre 2013
Paradosso di Gettier e depistaggi
Una tra le varie possibilità è quella del paradosso di Gettier, dove una credenza è vera nonostante sia ritenuta tale sulla base di una giustificazione falsa (il libro “Il diavolo, certamente” di Camilleri ne contiene alcuni esempi). In questo caso il finanziere potrebbe avere effettivamente prodotto delle false evidenze; che supportano però un fatto vero. Il paradosso di Gettier costruito ad arte può essere una tecnica di depistaggio, per screditare una pista valida o intorbidire le acque su una verità raggiunta.
Col conseguente procedimento per calunnia intimidisce il pubblico dal profferire ciò che d’altra parte si lascia intravedere: “L’iniquo che è forte … può adirarsi che tu mostri sospetto di lui, e, nello stesso tempo farti sentire che quello che tu sospetti è certo.” (Manzoni). Una nota, questa del negare e mostrare, presente in tutta la vicenda Moro.
Bisogna distinguere tra valore di verità e giustificazione di una credenza, quando si tratta dei Misteri d’Italia. Nel caso Moro appare esserci stato almeno un altro caso di giustificazione falsa di una verità. Cossiga diceva che lui e i DC avevano ucciso Moro; intendendo di avere causato la morte di Moro indirettamente, come effetto collaterale previsto ma non voluto, e per una scelta autonoma di difesa dello Stato; mentre, come mostrano studi come quelli di Flamigni e De Lutiis, fu una responsabilità di tipo diretto, e in esecuzione di volontà esterne.
MAURIZIO BAROZZI
Caro prof. Giannuli, le sue sono osservazioni ineccepibili.
Ora è pur vero che su certi avvenimenti di grande portata ci sono spesso persone che “sanno” o pretendono di sapere certi particolari sconosciuti ai più e allo stesso tempo una semplice analisi della letteratura in argomento mostra lacune e fornisce obiettive ragioni per sostenere che le cose non possono essere andate come riportato, ma quando questo, a distanza di molti anni e scomparsi altri possibili testi, viene rivelato, bisogna sempre andarci molto cauti,a meno che non lo si comprovi con documetazioni. Ed invece spesso, con molta superficialità, su queste “rivelazioni” ci si imbastiscono nuove versioni e ci si pubblicano libri. Il risultato è quello di aumentare la confusione e di rendere con il tempo il tutto incomprensibile. Un caso evidente è quello dell’omicidio Kennedy, che a intervalli di decenni vede spuntare nuovi “testimoni” o nuove rivelazioni, il che ha prodotto decine di versioni antitetiche e spesso fantasiose, tanto che oggi possiamo dire che oramai sarà praticamente impossibile trovare la verità in quell’omicidio. Questo è il danno più evidente.
MAURIZIO BAROZZI
A proposito di Moro e delle tardive testimonianze raccolte dall’ex magistrato Imposimato, con le quali ha suffragato buona parte della sua tesi che Moro fu SEMPRE tenuto prigioniero in via Montalcini, vorrei spendere due parole per sostenere l’assurdità di questa ipotesi.
Non sto qui a riportare un gran numero di sospetti e di prove indiziarie, brillantemente esposte, tra gli altri, dal fratello di Moro e da Sergio Flamigni, senza contare le “dritte” provenienti da Pecorelli che, come sappiamo, non solo erano sempre veritiere, ma provenivano da “ambienti” ben informati, per le quali Moro non fu sempre nella stessa prigione, in particolare negli ultimi giorni di vita. Ma soprattutto vi è una ovvia considerazione che pur non costituendo prova inoppugnabile, ci si avvicina molto.
Dunque, noi sappiamo che Mario Moretti, che gestiva il sequestro Moro, quasi ogni giorni usciva al mattino presto dall’appartamento ubicato in via Gradoli, (strano palazzo con appartamenti e locali in proprietà dei Servizi) per recarsi nella prigione di Moro che, con una certa ragionevolezza possiamo attestare in via Montalcini (anche se forse non come prima prigione).
Orbene, il 18 aprile 1978, circa un mese dopo il rapimento, e poco meno di un mese alla uccisione del prigioniero, venne diffuso il falso comunicato Lago della Duchessa, ma soprattutto venne scoperto, con modalità e particolari divulgati anche alla stampa, il covo di via Gradoli dove Moretti viveva con la Balzerani. Anche uno sprovveduto poteva capire che la scoperta non era stata casuale, ma “programmata”.
E ovvio che le BR non potevano non aver subito compreso che il covo di via Gradoli era da tempo sotto osservazione e quindi mettere in conto che gli spostamenti di Moretti erano stati notati con tanto di pedinamento. Pertanto la prigione di Moro in via Montalcini era stata sicuramente individuata, ma per qualche convenienza del “potere”, Moro non era stato liberato.
Chiunque, in questa situazione e tanto più le BR che hanno sempre mostrato una eccessiva e maniacale prodenza, avrebbe immediatamente spostato il prigioniero da via Montalcini.
Ergo Moro non può proprio essere stato sempre in via Montalcini.
Ma probabilmente, da quel 18 aprile, le BR dovettero anche “cedere” la gestione del rapimento Moro ad altre “mani”.
Gianluca
A tal proposito volevo chiederle cosa pensa delle dichiarazioni rilasciate da Steve Pieczenick a Minoli nell’intervista di due settimane fa, riguardo la morte di Moro.
Rosario
Anche io mi associo all’intelligente domanda di Gianluca riguardo alle inquietanti dichiarazioni di Steve Pieczenick ambiguo ed inquietante “esperto” accolto da Cossiga tra i suoi consulenti. Ma chi è questo personaggio?
C.Kurtz
Caro dott. Giannuli, alle domande che si pone in questo articolo credo abbia già risposto efficacemente il sig. Romanò.
Chi scrive non ha vissuto direttamente quell’epoca, ma da ex uomo dello stato, posso confermare non solo da “Radio Fante” in anni più recenti, ma anche semplicemnte analizzando i fatti e gli elementi a disposizione, che il fatto che i Servizi sapessero benissimo dove era imprigionato Moro è un segreto di Pulcinella. E che non fecero volontariamente nulla per liberarlo (ma nazi favorirono il sequestro) in quanto inviso agli atlantisti come uomo che voleva il PCI al governo e troppo filo arabo.
Questo ultimo ex militare , che ritengo credibile anche per altri motivi su cui non mi dilungo, è solo uno dei tanti che potevo incontrare e ascoltare negli ultimi 10 anni parlare di quei fatti.
Credo abbia valutato che , essendo deceduti i 2 terminali politici, che gestirono quella vcìicenda (Cossiga e Andreotti) potesse togliersi qualche sassolino dalla scarpa.
Purtroppo ha valutato male, in quanto già gli stanno facendo passare qualche guaio.
Probabilmente c’è ancora qualche elemento a cui potrebbe disturbare la parte finale della carriera…
Saluti
menici60d15
Segnalo il post “L’omertà manzoniana su Moro”:
http://menici60d15.wordpress.com/2013/11/14/5064/
sul mio sito
http://menici60d15.wordpress.com/
MAURIZIO BAROZZI
Osservazione azzeccata quella di C. Kurtz, però non cambia il problema: come facciamo a stabilire quali tardive testimonianze sono valide e quali no?
CONSIDERAZIONI INTERESSANTI QUELLE DEL SIG. MENICI60d15. DA LEGGERE NEL SITO.