La retorica dello slogan e quel sessantottino di Mario Monti

Sono un vecchio sessantottino (in quell’anno avevo 16 anni e conobbi le mie prime assemblee e le mie prime manifestazioni), come storico ho sempre difeso il sessantotto dai suoi detrattori e resto dell’idea che quel movimento fu il più grande fenomeno di mutamento sociale della storia repubblicana. Questo non significa che di quella esperienza tutto vada accettato e difeso. Ci sono molte critiche da fare e non su aspetti secondari. Una delle eredità meno positive del sessantotto è stata il “parlare per slogan”, su cui conviene fare una riflessione. Gli studenti del sessantotto (ed anni seguenti) erano in gran parte “teleutenti nativi”: chi aveva 20 anni in quell’anno aveva avuto esperienza della televisione già quando ne aveva avuti otto o dieci. E con la televisione aveva assimilato il linguaggio della pubblicità commerciale filtrato attraverso il mitico “Carosello”. E la pubblicità è la negazione del mercato: dove questo presuppone un consumatore razionale ed informato che sceglie con cognizione di causa il miglio rapporto prezzo-qualità, la pubblicità vuole un consumatore suggestionato che sceglie sulla base di pulsioni che non hanno nulla a che rare con la razionalità economica. Si sceglie quel caffè non perché è buono ma perché il suo testimonial è quel celebre attore, quell’auto promette di far colpo sulle donne, quel gin è bevuto dai giovani, quella sigaretta è molto “virile” e così via. E questo esige un messaggio breve, facile a memorizzarsi (magari per una rima o una costruzione ad effetto), fulminante ed inverificabile: “Vecchia Romagna etichetta nera: il brandy che crea un’atmosfera”, “Finsec: ti dà la carica, ti manda in estasi”, “Atlantic: con meno il meglio”.. ricordate?

Poi non è affatto necessario che Atlantic sia davvero il prodotto migliore ed al costo più basso o che il Finsec potesse realmente mandare in estasi e tantomeno che la Vecchia Romagna (che ricordo con un  insuperabile dopobarba) crei veramente una atmosfera. L’importante è che questo entri nell’immaginario dell’ascoltatore che a sua volta se ne faccia portatore ripetendo lo sloga, magari a mo’ di battuta, al bar con gli amici. La forza di questo tipo di comunicazione sta nella semplicità perentoria con la quale afferma qualcosa come se fosse una verità auto evidente, che non ha bisogno di alcuna prova. Come dire: “guarda fuori: è giorno”. Questo è lo slogan. Il movimento studentesco di quell’anno importò lo slogan nella politica: “Potere studentesco!”, “Operai a scuola, studenti in officina: faremo in Italia come hanno fatto in Cina”, “Imperialismo tigre di carta”, “Vietnam vince perché spara” “Lo stato borghese si abbatte e non si cambia” e così via. I vantaggi di questa innovazione erano diversi: lo slogan ritmato nella manifestazioni ed assemblee creava un senso di soggetto collettivo come i canti politici, il messaggio era breve ed immediato, era una forma di propaganda che n costava poco o nulla richiedendo al massimo un megafono, il che è essenziale per un movimento povero di mezzi, ecc. Ma comportava degli effetti negativi alla lunga prevalenti su quelli positivi. In primo luogo tendeva ad essere ripetitivo, ad essere ripreso anche all’interno di testi un po’ più articolati (come un volantino o il pezzo di un giornale murale) favoriva un notevole standardizzazione e, dunque, un impoverimento del linguaggio. A sua volta questo spingeva verso l’impoverimento dell’analisi ed, in definitiva, verso un discorso politico scarsamente articolato. Cosa significa “Lo stato borghese”? Lo “stato borghese” può essere molte cose: può identificarsi con il fascismo o anche con il Welfarestate, con una dittatura militare o un regime parlamentare… “E che ce frega? Tanto lo dovemo abbatte!”. Ricordate “Ecce Bombo”? Ecco, avete capito di cosa parlo.

In secondo luogo, il carattere assertivo e privo di incertezze degli slogan (d’altra parte, che successo avrebbe uno slogan dubitativo?), non incoraggiava né un atteggiamento laico né, tantomeno la mediazione politica. E questo è stato sempre uno dei punti deboli della cultura politica del sessantotto: il non capire che la mediazione politica non implica né rinuncia ai principi né un atteggiamento meno radicale. Lenin aveva un fortissimo senso della mediazione politica e non mi pare che fosse un moderato. Ma i sessantottini preferirono sempre pensare che la politica fosse sempre e solo brutale esercizio dei rapporti di forza, in una dimensione militaresca che ignorava di fatto l’idea di egemonia che non è fatta solo di forza, ma anche di consenso. Ad una cultura politica così fatta, il linguaggio un po’ primitivo degli slogan calzava come un guanto di morbida pelle. Poi, però, l’avventura del partito armato tirò le somme di quella incapacità di passare ad una età adulta della pratica politica.

Man mano, la riduzione della politica militante a frenetico attivismo senza meta finì per svotare di senso la stessa militanza e gli slogan furono la colonna sonora di questo poco esaltante film. Tutto questo non è passato senza conseguenze. Intendiamoci, non è stata solo colpa del sessantotto che al massimo ha fatto da involontario facilitatore di qualcosa che ci sarebbe stato comunque: la trasformazione della propaganda politica in termini sempre più affini alla pubblicità commerciale. Era una conseguenza logica del dominio televisivo. Il sessantotto ha avuto la responsabilità specifica di formare la cultura politica di una generazione e non solo nella sua fiancata di sinistra: quello degli slogan non fu il linguaggio solo della gioventù di sinistra ma di tutta quella generazione.

Da questo punto di vista, possiamo ritenere Monti (che, in fondo, appartiene a quella generazione avendo avuto 25 anni  nel 1968) un “sessantottino ad honorem”, pur non avendo mai avuto esperienze di movimento studentesco. Certo, oggi gli slogan non sono più in rima e non sono gridati nei cortei, ma possono assumere la forma di un documento politico pronunciato con voce pacata come lo è la sua Agenda. Quello che resta è l’assertività, con frasi brevi e staccate, che non ammette verifiche, l’assoluta mancanza di laicità, la suggestività del messaggio basata sull’indifferenza verso il contenuto. La stessa perentoria affermazione di verità auto evidenti che non richiedono prove e non ammettono mediazioni: “L’Europa è il futuro certo ed unico del nostro paese; ci sono state difficoltà, ma adesso faremo l’unità politica.”

E se obietti che non c’è nessun segno di questa prossima unità ed, anzi, che le dinamiche segnalano, semmai, un allontanamento dei paesi membri fra loro, lo sloganista ti risponderà che non è vero e sei tu che non vedi i segni di questa prossima unità (che però non ti dirà quali sono). Ed, al massimo, l’altro aggiungerà una banalità qualsiasi come quella del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto e che lui è un ottimista. E se poi, dopo qualche anno, l’unità politica europea non si fa e magari salta tutto in aria? Nessun problema: si cambia slogan, con l’aria di chi ha sempre detto la stessa cosa. L’Europa, nella retorica montiana, assolve alla stessa funzione che aveva la Cina nel discorso dell’ala maoista del sessantotto: un mito-attaccapanni cui appendere le proprie aspettative ed i propri disegni. Ed i miti non ammettono discussioni: si accettano o si respingono, senza incertezze e sfumature. A venti anni questo può essere l’ingenuo rifugio di un acerbo immaginario. A sessanta è solo l’espediente cinico di operazioni poco confessabili.  Ma il meccanismo retorico resta lo stesso.

Aldo Giannuli

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Aldo Giannuli

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Comments (8)

  • Sono abbastanza d’accordo anche se io mi ricordo anche assemblee di ore solo per decidere se fare o meno una manifestazione.
    In quel periodo (io sono uno del ’77 🙂 dato che nel ’68 avevo 11 anni) le forme di comunicazione c’erano entrambe, sia quella sintetica a slogan sia quella più analitica (le B.R. in analisi erano dei maestri).
    Ora purtroppo sono rimasti solo gli slogan e la delega, le primarie e la televisione.
    Tutto questo non è democrazia, è un’altra cosa, ma vallo a far capire…

  • Analisi interessante, ma non sono d’accordo.
    Certo il carattere del documento è assertivo, costituito da una successione di tesi; manca un’approfondita analisi, che sarebbe stata del resto difficilmente immaginabile in un documento destinato per scelta del proponente ad avere ampia diffusione. Infatti, l’agenda Monti è introdotta come “primo contributo per una riflessione aperta”, con un esplicito invito rivolto a “tutti coloro che siano interessati a leggere il documento, a condividerlo e a commentarlo con spirito critico, portando il loro contributo di idee e di proposte”. Non mi pare una differenza da poco rispetto agli slogan del ’68 o del ’77…

  • Intervento molto opportuno. Solo che io non darei la colpa a Carosello (povero Carosello!).

    Gli slogan sono antichi quanto la comunicazione.

    Anche alcuni degli interventi sulla candidatura Ingroia erano stereotipati e sloganisti. Nessuno pero’ ha vauto la gentilezza di ricordare, per es., quello che leggo nell’articolo di Bolzoni di oggi (30.12.2012) su Repubblica: il network europero Flare contro il crimine organizzato aveva chiesto al PD di candidare il suo presidente Franco La Torre, figlio di Pio. Silenzio per due settimane, poi un contatto quando La Torre aveva gia’ dato la sua disponibilita’ ad Ingroia.

    Un argomento da utilizzare, se lo avessero saputo, e che invece e’ stato sostituito da ragionamenti di principio astrattamente cristallini (e chi li puo’ rifiutare?).

    Circa le “operazioni inconfessabili” di Monti: parliamone su questo blog.

  • perfettamente d’accordo, anche se penso che un discorso molto simile possa essere fatto anche per gli arancioni, che data la loro totale mancanza di organizzazione (dovuta a una scelta dei tempi assolutamente irrazionale*)sono stati costretti anche loro a ripiegare sugli slogan, quando non direttamente sul carisma personale (non sto parlando solo di ingroia, ma anche del programma economico che, ad esempio si basa sulla persona di gallino).

    e, infine, dopo le porte chiuse ancora una volta da grillo ad ingroia, e dopo che si è vista per l’ennesima volta questa triste scena di accattonaggio politico finita a pesci in faccia, chiedo ancora una volta: ma siamo sicuri che la scelta di aprire a grillo sia stata in generale una mossa positiva? non sarebbe stato meglio essere ostili a grillo e rivendicare in modo più razionale quei punti proposti dai 5 stelle che possono essere ritenuti di sinistra? essere riusciti a farsi fregare l’elettorato perchè si è stati incapaci di rispondere a un paio di slogan antikasta è stata una vera e propria vergogna.

    *dico irrazionale dato che se volevano rispettare scadenze a breve termine si sarebbero dovuti muovere prima, se volevano costruire un’alternativa sarebbero dovuti restare movimento e agire dall’esterno. così sembra che il loro unico obiettivo è quello di salvare il soldato ferrero

  • Solo un commento a beneficio (spero) dei più giovani. Ho la stessa età di Aldo, e di quel periodo ricordo soprattutto la cesura fra il “’68 vero” e quanto è seguito. A mio parere, il “’68 vero” incomincia col la morte del Che nel 1967 e termina con la strage di piazza Fontana nel 1969. Protagonisti sono soprattutto studenti universitari ancora in gran parte figli della classe dirigente: urlano slogan un po’ ridicoli in piazza, ma sono abbastanza colti (e socialmente “scafati”) da poter sostenere un ragionamento politico articolato. Sono capaci di gestire, pubblicamente e privatamente, metafore e doppiezze. Le bombe del ’69 non sono però metaforiche, fanno male davvero: la maggioranza dei “contestatori” rientra nei ranghi e spesso fa brillanti carriere (alcuni si distingueranno per essere dirigenti particolarmente carogna con i sottoposti, proprio grazie alla dialettica acquisita in quegli anni). Dopo una pausa dei primissimi anni ’70 (ricordo che all’Università di Pavia, dove ho studiato, il movimento si era quasi completamente dissolto), arriva la carica della mia generazione, i proletarizzati della Scuola Media Unica: né borghesi né operai, un po’ travet e un po’ disoccupati, collettivamente crediamo ai nostri slogan e al mondo caricaturale che disegnano. Giustamente, arriveranno i settantasettini a seppellirci con le loro risate (ma non combineranno di meglio).

  • Penso che Monti, malgrado i requisiti anagrafici, non possa essere inserito tra i ragazzi del ’68 (sia di destra sia di sinistra). Gli mancano proprio i requisiti emozionali tipici di quella generazione. Devo dire, guardando l’età media dei nostri governanti, che qui qualcuno ci ha venduto un prodotto scaduto da troppo tempo. Mentre gli altri Paesi cambiano i loro leaders e le idee con molta più frequenza, noi restiamo ancorati agli schemi di pensiero degli anni ’50 e ’60 senza riuscire a sganciarci.

  • Effettivamente “l’Europa di Mao” è il nuovo attaccapanni per tutte le stagioni. Per ora ha vinto il “marketing” che ha sbaragliato la conoscenza, le idee, la partecipazione. Le aggregazioni, come al supermercato, si realizzano attorno ai “marchi” senza curarsi dei contenuti. Nella periferia dell’Occidente, emblematicamente rappresentata dall’Italia degli ultimi 40 anni, si scodellano opinioni spacciandole per idee. La società iper-catodica e digitale ha potenziato lo svilimento delle idee. Rispetto al passato, quando esisteva il sapere cartaceo e il tempo lento, l’oligarchia economica si è consolidata e controlla capillarmente ogni emozione sociale, svuotando di contenuti la politica. Il nuovo populismo dei 140 caratteri sembra essere il destino immediato dell’Occidente (democratico). Con un guizzo di intelligente immaginazione, Orwell l’aveva visto già negli anni ’30… L’allargamento su vasta scala del modelo orwelliano porterà all’implosione scomposta e cruenta. Questione di tempo (poco).

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