“Mani pulite brasiliana”: a rischio tutto il sistema politico

Direttamente da Porto Alegre, vi propongo l’articolo di Jacopo Bottacchi, laureato in Scienze Internazionali e Istituzioni Europee alla Statale di Milano e laureando in Cooperazione, Sviluppo e Innovazione nell’economia globale all’Università di Torino. Il contatto con Jacopo è stato stabilito grazie a Dario Clemente, che spesso ha scritto su questo sito dall’Argentina, dove studia: ringrazio vivamente entrambi per la disponibilità e l’impegno. Jacopo Bottacchi attualmente si trova a Porto Alegre per la fase di ricerca della sua tesi magistrale sull’ultimo ciclo economico e politico brasiliano. Buona lettura! A.G.

Gli ultimi mesi sono stati senza ombra di dubbio i più complicati della storia recente del Brasile, così come di quella del principale partito di governo, il Partido dos Trabalhadores. Fin dai primi momenti successivi alle elezioni presidenziali del 2014 era chiaro che il secondo mandato della Presidente Dilma Rousseff sarebbe stato tutt’altro che facile, come testimoniano le manifestazione del marzo 2015, quando milioni di brasiliani scesero in piazza in tutte le principali città del paese per chiedere l’impeachment della stessa Rousseff.

Il paese, dopo una fase di grande crescita economica e di risultati senza precedenti nella lotta alla povertà, soprattutto durante il governo Lula,  si trova ormai da alcuni anni in una condizione economica particolarmente difficile e, dopo un paio di anni praticamente a crescita zero è oggi in fase di recessione, con una decrescita del PIL del 3.5 % nel 2015 e con una previsione ancora peggiore per l’anno in corso.

A questo clima (o forse, proprio a causa di esso) è andata ad aggiungersi la più grande inchiesta contro la corruzione della storia del paese, la cosiddetta “Operação Lava Jato”, che ormai da due anni coinvolge i principali gruppi economici e politici del paese. Nonostante tutto questo però, nessuno poteva aspettarsi un’evoluzione così rapida e drammatica come quella avvenuta negli ultimi 15 giorni; una nuova fase dell’Operação Lava Jato, la 24esima dell’operazione, ha fatto deflagrare la più grande crisi politica degli ultimi anni nella storia del Brasile.

Il 4 marzo 2016 il giudice federale della procura di Curitiba, Sérgio Moro, ha emanato più di 40 mandati di cattura o comparizione, tra cui quello per l’ex presidente Luis Inacio da Silva. Per lo storico leader del PT era previsto l’obbligo di comparizione davanti al pubblico ministero, con la Polizia Federale che si recava direttamente nella sua abitazione per portarlo a deporre; dopo quasi 3 ore di interrogatorio l’ex presidente veniva rilasciato, ma fin dal primo istante dai banchi del PT si sono alzate accuse contro la Procura Federale, ritenuta colpevole di voler spettacolarizzare la vicenda, usando metodi coercitivi non necessari. Secondo i giudici Lula e la sua famiglia sarebbero colpevoli di aver ricevuto tangenti, sotto forma di lavori di ristrutturazione per un appartamento nella città di São Bernardo do Campo, in cambio di favori negli appalti per i lavori pubblici.

La settimana successiva, il 10 di marzo, il Pubblico Ministero dello Stato di San Paolo emetteva una nuova ordinanza di misura cautelare per Lula, questa volta arrivando addirittura a chiederne la carcerazione preventiva, per riciclaggio di denaro e falso ideologico, in una vicenda legata all’acquisto di un appartamento a Guarujà, città del litorale Paulista. La carcerazione preventiva è stata richiesta dai giudici in quanto Lula “rappresenterebbe un pericolo per l’opinione pubblica”, aggiungendo che “sfruttando la sua condizione di ex autorità massima del paese possa infiammare la popolazione, per farla rivoltare contro le indagini”.

Naturalmente la leadership del PT ha rinnovato le accuse al sistema giudiziario del paese, iniziando a parlare addirittura di un vero e proprio golpe in corso contro il governo Rousseff. Il partito sottolineava anche il tempismo della pubblicazione delle indagini, che ovviamente sono in corso da diversi mesi ma che sono state rese pubbliche proprio alla vigilia della nuova manifestazione nazionale contro Dilma Rousseff, da lungo tempo fissata per domenica 13 marzo. Nel frattempo iniziavano a circolare anche le prime voci secondo cui lo stesso Lula sarebbe potuto ritornare a far parte del governo, diventando ministro, creando un precedente inedito nella storia brasiliana dell’era democratica, dato che nessun ex presidente ha poi ricoperto una carica non elettiva.

Nel mezzo di questo clima domenica 13 si sono svolte in tutto il paese, in forma assolutamente pacifica, le manifestazioni contro il governo. I numeri “ufficiali” del giorno dopo raccontano di oltre 3 milioni di persone in piazza in più di 200 città; naturalmente è l’Avenida Paulista di San Paolo il principale ritrovo a livello nazionale, ma in tutto il paese una marea verde e gialla è scesa per le strade chiedendo l’impeachment di Dilma e la prigione per Lula, che per la prima volta si trova pubblicamente contestato a questi livelli, nonostante fino allo scorso anno secondo tutti i sondaggi fosse considerato il miglior presidente della storia da più del 50 % dei brasiliani.

I leader di opposizione, tra cui Aécio Neves e Geraldo Ackim del PSDB, hanno cercato in qualche modo di “sfruttare” la protesta popolare, venendo però duramente respinti dai manifestanti, con grida, sputi e insulti vari.  Gli stessi problemi valgono anche per l’altro grande partito brasiliano, il PMDB, che beneficerebbe più di tutti dell’impeachment della Rousseff, assumendo la guida del governo;  sia il vice presidente Temer che il Presidente della Camera Cunha sono a loro volta sospettati, e soprattutto il secondo è accusato di riciclaggio di denaro, con conti all’estero praticamente accertati per milioni di dollari. L’unico eroe delle piazze è proprio il Giudice Sergio Moro, che al momento gode di un enorme popolarità e di una grande stima in tutto il paese.

Nei giorni successivi alle manifestazioni nel frattempo prendeva sempre più corpo l’ipotesi di Lula ministro, secondo il PT per “ricostruire la base di supporto del partito, sia in Parlamento che nell’opinione pubblica, e per aiutare il Governo Dilma a superare la difficile situazione economica e politica del paese”. L’opposizione e soprattutto i mass media però non mancano di sottolineare come, diventando ministro, Lula avrebbe potuto sottrarsi alla procura di Curitiba, ottenendo invece un accesso privilegiato al Supremo Tribunal Federal, massimo organo giuridico del paese. L’opposizione sottolinea come questo sarebbe un modo di sottrarsi alla legge, anche perché una buona parte dei giudici dell’STF sono di nomina politica, quasi sempre del PT, che governa il paese da ormai 14 anni. Se possibile, la situazione è peggiorata ulteriormente nella giornata di mercoledì 16, quando la Presidente Rousseff annunciava ufficialmente i nuovi ministri, tra i quali compariva anche Lula, che il giorno seguente avrebbe giurato come Ministro della Casa Civil, uno dei ministeri più importanti in assoluto.

Poche ore dopo la Procura Federale di Curitiba rendeva pubbliche una serie di intercettazioni telefoniche, tra cui alcune tra la stessa Dilma e Lula, nella quali appare evidente come l’attribuzione di un ministero all’ex presidente fosse da diverso tempo nei piani del partito, un’arma da usare solo “nel caso in cui tutto prenda fuoco”.
E’ inevitabile di conseguenza che migliaia di persone scendano nuovamente in piazza, sia davanti alle sedi istituzionali a Brasilia che a San Paolo e nelle altre città, chiedendo le dimissioni del governo, accusato di essere “arrogante” e di porsi al di sopra della legge.

Il giorno seguente Lula ha prestato comunque giuramento come nuovo ministro del governo Rousseff, ma poche ore dopo un nuovo giudice ha “congelato” il giuramento stesso fino a quando la posizione legale di Lula non verrà chiarita. “Il congelamento” è stato poi annullato da un secondo grado di giudizio, salvo poi venir nuovamente ripristinato dal Supremo Tribunal Federal, organo di ultima istanza.

E’ ormai evidente nel paese una sorta di “guerra istituzionale” tra il potere esecutivo e quello giudiziario. Il PT e i suoi intellettuali continuano a parlare di un golpe, per la prima volta nella storia del paese esercitato non per mano militare ma tramite il potere giudiziario, usando la corruzione, arma storicamente sventolata dalla destra per mobilitare la classe media. Viene sottolineato anche il carattere illegale delle intercettazioni alla Presidenza della Repubblica e l’ampio uso dei mass media da parte dalla procura come strumento volto a destabilizzare il governo, a creare confusione nel paese e ad aprire la strada per la destra conservatrice del paese. Proprio per questo venerdì 18 marzo in migliaia sono scesi in strada, in una manifestazione nazionale convocata per “tutelare l’ordinamento democratico del paese e lo stato di diritto”. Dall’altro lato il sistema giudiziario del paese fa quadrato quasi intermente intorno alla procura di Curitiba. Il giudice Moro, ormai personaggio pubblico di primissimo livello nel paese, anche nel caso delle intercettazioni ha sottolineato come il governo stia tentando di intralciare la giustizia.

La discussione si inserisce in un contesto già messo duramente alla prova dall’enorme polarizzazione territoriale e sociale, già molto marcata nelle elezioni del 2014, quando Dilma riuscì a vincere soprattutto grazie all’appoggio della regione più povera del paese, il nord-est, dove si concentrano la maggior parte dei beneficiari di Bolsa Familia e in generale dei programmi sociali del governo, “contro” gli interessi della classe media e alta delle grandi città, dove i risultati elettorali sono stati particolarmente negativi.

Pare particolarmente difficile una ricomposizione “pacifica” della situazione. Nelle ultime ore non sono mancati i primi scontri in strada tra sostenitori e oppositori del PT. A livello istituzionale il PMDB, principale sostenitore del PT nell’assemblea legislativa, sembra solo attendere che il governo Dilma giunga alla fine, in modo da poter assumere la presidenza con Temer, come testimonia il divieto per tutti i suoi membri di assumere ruoli governativi fino a nuovo ordine.

Il PT stesso sembra annaspare, davanti alla crisi più grande della sua storia non pare avere più grosse armi a sua disposizione, se non un ritorno ad un’agenda politica più “radicale” rispetto a quella degli ultimi anni, cercando di mobilitare la base storica del partito. Questo però, pur potendogli garantire nel medio periodo la sopravvivenza, potrebbe portare danni enormi ad un paese in cui la polarizzazione tra i vari attori è costantemente in aumento e la cui opinione pubblica è ormai stanca dei tradizionali partiti politici e di alcuni dei suoi leader, percepito come corrotti e distanti dai reali bisogni della cittadinanza.

Come sempre non esistono soluzioni semplici per problemi complessi, ma nel caso brasiliano non sembra esistere nessuna alternativa all’attuale configurazione di potere, in quanto tutto il sistema partitico pare coinvolto nello stesso schema di corruzione. I media si stanno affrettando a sottolineare le innumerevoli somiglianze con il caso di “Mani Pulite”, anche perché lo stesso giudice Moro è un profondo conoscitore del contesto italiano, avendolo studiato a fondo (come dimostra il suo modus operandi, con le rivelazioni praticamente quotidiane di nuovi dettagli delle inchieste, in modo da mantenere alta la tensione e l’attenzione dell’opinione pubblica) e avendo dedicato al tema anche alcuni articoli.

La questione, oggi come allora in Italia, è cosa potrà emergere da questa situazione: resta da capire se la Procura Federale deciderà di andare fino a fondo con le inchieste, con il rischio di distruggere interamente l’economia e il sistema di quella che fino a poco tempo fa era vista coma la grande potenza emergente regionale,  oppure se si troverà una sorta di pacificazione nazionale, che in verità appare fortemente improbabile. Nel primo caso il Brasile avrà sicuramente bisogno di “uomini nuovi”, in quanto quelli attuali risultano difficilmente presentabili ad un opinione pubblica che viene costantemente bombardata con l’Operazione giudiziaria.

L’unica cosa da fare è aspettare le nuove evoluzione di una situazione che al momento è davvero di difficile lettura non solo per quanto riguarda il futuro, ma anche per le evoluzioni immediate e per la sopravvivenza stessa del governo, formalmente in carica fino al 2018 ma oggi particolarmente fragile e quasi incapace di governare effettivamente.

Da Porto Alegre, Jacopo Bottacchi

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Aldo Giannuli

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Comments (3)

  • rimane la questione Lula e Dilma hanno gestito la corruzione, hanno fatto finta di non vedere, o evitano un processo nel quale non hanno niente a che vedere? l’articolo non chiarisce la questione

  • Le accuse lanciate contro Lula, ammesso che siano fondate, riguardano illeciti di entità microscopica, mentre l’uomo ha i meriti che nessun altro politico brasiliano neanche si sognava di raggiungere, per paura di dispiacere ai signori del Nord America. Viceversa gli illeciti dei magistrati e degli organi di polizia giudiziaria potrebbero offrire materia per un nuovo film di Costa-Gavras, da intitolare magari “A Confissão Curitibana”.
    Dunque la situazione è sì di difficile lettura, ma non troppo: il Brasile “deve” ad ogni costo ritornare sotto piena influenza statunitense e distaccarsi da quella cinese, perché quando il gioco imperiale si fa duro i vassalli devono rimettersi in riga e la recessione indotta con strumenti finanziari è il principale strumento di coercizione da adoperare sulle “masse pigre di cervello”, affinché si diano la zappa sui piedi.
    Su questo punto c’è un dettaglio interessante da notare, la Stepchild Adoption brasiliana. Non è ancora legge del Parlamento, ma solo giurisprudenza della Suprema Corte. Due donne brasiliane già oggi possono legittimamente decidere di mettersi insieme, e, per sbarcare il lunario, una di loro può partire come contractor al soldo dei signori del Nord America lasciando i figli all’altra. Se invece intervenisse il parlamento ed esplicitasse il divieto alla Stepchild Adoption, questa potrebbe essere definitivamente cancellata dall’ordinamento giuridico brasiliano, togliendo a coloro che stampano valuta internazionale dal nulla, il più cospicuo bacino di reclutamento femminile dell’America Latina. Ed ora che la “Légion Neolatine Orientale” si sta formando, guarda caso a guida Franco-Belga (ma sotto ferreo controllo statunitense per andare a rompere le uova nel paniere asiatico), occorre riportare il pianeta Brasile nell’orbita del sole anglosassone, anche sotto il profilo parlamentare.

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