M5s: eletti e sanzioni.
Come si sa, il M5s si appresta a lanciare in nuovo regolamento per i suoi eletti, nel quale l’eventuale dissenso o abbandono del movimento comporterebbe una sanzione pari a 150.000 euro, a titolo di risarcimento (se abbiamo capito bene, per danno all’immagine). Ovviamente si tratterebbe di un negozio privato al momento della sottoscrizione di candidatura, per cui il candidato si impegna in questo senso. A questo il Pd avrebbe risposto indignato proponendo la approvazione di una legge di regolamentazione dei partiti.
Lasciamo per il momento da parte l’aspetto dell’auspicabilità politica dell’eventuale sanzione, per parlare dell’aspetto giuridico della faccenda.
In primo piano sta l’articolo 67 della Costituzione che impone la libertà del parlamentare che, rappresentando la Nazione, esercita il suo incarico “senza vincolo di mandato”. Dunque, stante questa Costituzione per i parlamentari nazionali (ed a mio avviso a maggior ragione per quelli europei) l’eventuale patto sarebbe nullo ed inopponibile giuridicamente (su questo c’è una giurisprudenza costituzionale mai smentita a cominciare dalla sentenza 7 marzo 1964 n 14). Dunque, per ora neanche a parlarne perché nessun tribunale accoglierebbe una istanza risarcitoria siffatta.
Il discorso si fa meno scontato e più delicato per gli eletti negli enti locali che, ovviamente, non rappresentano la nazione e sono chiamati a decidere su atti amministrativi e non leggi (ma, per la verità i consiglieri regionali hanno potere legislativo).
Si può estendere la tutela costituzionale anche a loro? Il problema tocca i fondamenti stessi della democrazia rappresentativa per la quale il voto non è un atto di diritto privato, ma l’esercizio di un potere pubblico in cui intervengono tre soggetti irriducibili uno all’altro: l’elettore, il candidato ed il partito. L’elettore delega sia il partito che l’eventuale candidato eletto a rappresentare la sua volontà, e non può revocare il mandato all’uno ed all’altro sino alle successive elezioni, né può ricorrere contro l’eventuale disapplicazione del programma elettorale sulla base del quale ha dato il suo voto. E questo sia per ragioni di carattere teorico che pratico. Sul piano pratico chi è l’elettore (o chi sono gli elettori) che avrebbero titolo a ricorrere, stante il carattere segreto del voto? Sul piano teorico il ricorso sarebbe improponibile perché non esisterebbe il soggetto ricorrente: i 10.000 elettori (per dire un numero qualsiasi) che hanno dato il loro voto ad un determinato partito e/o candidato non costituiscono un soggetto politico dotato di una sua individualità ma la sommatoria di una serie di volontà individuali che realizzano una momentanea convergenza. Concluso l’atto elettorale, non esiste nessun soggetto che possa esigere l’applicazione di questa o quella parte del programma come farebbe un creditore verso un debitore insolvente in un negozio privato. Chi e quanti elettori riterrebbero ingiustificata la non applicazione di una parte del programma? Come stabilirlo? E se la mancata applicazione fosse solo parziale? Nella democrazia rappresentativa non è delegabile la volontà dell’elettore ma solo il suo potere decisionale e la sanzione è la revoca di quel voto in una successiva occasione elettorale. Anche per questo, la Costituzione ha introdotto il referendum come correttivo agli eventuali abusi della classe politica rispetto ai rispettivi elettori, che possono votare il modo difforme ai loro rappresentanti, abrogando una legge già approvata. Mentre non è prevista dal nostro ordinamento né alcuna revocabilità degli eletti (un rimedio discutibile di cui parleremo in altra occasione) né la decadenza dell’eletto in caso di cambio di partito (altro meccanismo di cui torneremo a parlare). D’altra parte, anche i candidati non eletti escono di scena non avendo più causa ad agire (salvo eventuali ricorsi sulla regolarità del computo dei voti).
Dunque, superato il momento elettorale, non esistono più i “candidati”, e restano in campo solo gli eletti ed il partito, unici soggetti giuridici entrambi legittimati dal voto degli elettori. Si badi che anche gli eletti ricavano la loro legittimazione dal voto ed anche nel caso di designazione automatica da parte del partito ed in assenza del voto di preferenza, perché l’elettore potrebbe aver deciso il suo voto sulla base della presenza in lista di determinati nomi. In qualche modo, partito e candidati si garantiscono a vicenda: il partito garantisce per il candidato presentandolo, ma è anche vero il contrario, i candidati garantiscono con la propria notorietà per il partito (e questo è il senso della “caccia al nome” cui danno luogo i partiti al momento della formazione delle liste), di talchè non è distinguibile, nelle ragioni del voto, quanto abbia influito la fiducia nel partito e quanto quella nel candidato. E questo anche nel caso in cui non ci sia voto di preferenza, perché potrebbe bastare la semplice presenza in lista per determinare quel rapporto fiduciario che si sostanzia nell’espressione di voto. Ed in questo senso va anche la sentenza del 3 dicembre 2013 della Corte costituzionale che ha invitato il legislatore a reintrodurre il voto di preferenza o accorciare le liste per rendere più evidente e riconoscibile la rosa dei candidati.
Ma, per di più, nel caso di elezioni comunali e regionali, c’è il voto di preferenza, per cui il ruolo del candidato è pienamente valorizzato.
E dunque, la pretesa di sanzionare l’eventuale dissenso di consiglieri locali si scontrerebbe contro queste considerazioni di ordine generale: sulla base di quali considerazioni potremmo sostenere che il partito è il legittimo rappresentante della volontà dell’elettorato nei confronti degli eletti?
Nessun programma può prevedere tutti i possibili argomenti di voto e le possibili mediazioni che potrebbero prospettarsi, per cui non si è in grado di stabilire quale e quanta parte dell’elettorato si schiererebbe con la posizione maggioritaria nel partito e quale e quanta con gli eventuali dissidenti, né la questione sarebbe sanabile con un referendum (più o meno on line) perché il corpo dei votanti sarebbe per definizione diverso da quello che ha eletto i rappresentanti.
D’altra parte, appare di per sé incongruo introdurre una tutela di natura privatistica in un rapporto di natura pubblicistica e non so quanti giuristi se la sentirebbero di sostenere l’ammissibilità di un simile accorgimento.
Dunque, per quanto la Costituzione riservi la sua tutela agli eletti in Parlamento, credo che plausibilmente la Corte Costituzionale la estenderebbe anche agli eletti negli enti locali.
Cautelativamente suggerirei al M5s di interpellare qualche autorevole giurista di sua fiducia e di pubblicarne in parere, prima di andare incontro ad uno scontro esterno ed interno su una cosa che poi si rivelasse inattuabile.
Per di più, mi sembra un po’ bizzarra questa situazione in cui l’anti-partito per eccellenza, quello che si definisce puntigliosamente movimento, per non dirsi partito, poi chieda di comportarsi come il partito più partito di tutti.
Quanto alla legge di regolamentazione dei partiti: personalmente ne ritengo auspicabile l’approvazione dagli anni ottanta e nel 1993 collaborai alla stesura di una proposta in questo senso, per cui non posso contraddirmi e resto di quella opinione. Il fai da te in materia mi sembra deleterio. Però è ovvio che molto dipende da cosa c’è scritto dentro, potrebbe essere un’ottima legge che garantisca maggiore democrazia ma anche una pessima legge che la affossa: vediamo prima di che si tratta.
Aldo Giannuli
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francesco cimino
Il noto Di Maio ha citato la costituzione del Portogallo come presunto esempio di vincolo di mandato, a difesa delle misure dei 5 stelle, aggiungendo che vorrebbero instaurare quel vincolo a livello nazionale. In realtà, se ho ben compreso la faccenda, nel caso portoghese il ” vincolo di mandato ” è puramente formale: perde la carica il parlamentare che volontariamente lascia il partito, senza che sia obbligato a votare come vuole il partito; così può restare formalmente nel partito e votare come gli pare. In effetti, il vincolo di mandato è vietato in tutte le democrazie, per grandissime difficoltà nella sua attuazione o sbaglio? Forse si potrebbe attuarlo in determinati, delimitati casi e rispettando precise condizioni, se ne può discutere. Mal’incompetenza del famoso parlamentare pentastellato non mi piace per niente: raggiunge i confini della menzogna politica, per quanto, credo, inconsapevole.
Herr Lampe
In linea di massima concordo con lei professore, ma le pongo anche una domanda: in risposta alla polemica non ricordo più quale esponente del M5S ha replicato affermando che questa prassi è già stata seguirà in altri casi. Le risulta?
Il che peraltro non cambierebbe i termini del problema, ma renderebbe anche chiaro che trattasi, nel caso specifico, di una polemica montata ad hoc.
marco bechini
Se ti riferisci alla multa, la regola è già stata applicata per le candidature M5S al parlamento europeo nel 2014.
Herr Lampe
Danke sehr.
Aldo Giannuli
è stata introdotta ma non applicata
WOW
Professore,
la legge sui partiti che vuole il Pd è esclusivamente scritta per impedire al M5S di partecipare alle prossime elezioni politiche.
In pratica o diventa un partito come tutti gli altri o resta fuori…
E tra l’altro è probabile che questo scherzetto lo facciano all’approssimarsi delle elezioni stessi,tipo 3 mesi prima proprio per dare poco tempo per adeguarsi.
Quindi se fossi in lei consiglierei al M5S di affidarsi davvero a dei buoni legali per anticipare la stessa normativa e per i dovuti ricorsi alla Corte Costituzionale.
Comunque,un articoletto sui programmi del M5S per questo paese mai?
Perchè ormai sul web vedo solo discorsi teorici su problemi interni o amministrativi che non hanno nulla a che fare con ciò che il M5S ha in mente di fare.
E non mi si venga a dire che non c’è un programma perchè questo è chiarissimo e viene esposto in continuazione sul blog di Grillo.
Solo che i media se ne fregano dei contenuti e soprattutto se non vedono certe tematiche propagandistiche e formulate in modo bambinesco(tipo nozze gay-sì o no agli ammigrati-meno tasse per tutti)è come se non ci fosse un programma per loro.
Ma almeno in altre sedi esporlo per bene che ne dice?
marco bechini
Buona sera Professor Giannuli,
vorrei farle presente che invece è profondamente anti sistema come metodo.
Nella mia ignoranza in materia costituzionale e di diritto comunque gliela pongo cosi:
Nessun partito ha clausole per le quali un eletto, date le dimissioni o non rispettato le regole liberamente firmate prima di essere candidato, punisce chi poi cambia casacca o lede l’immagine del suddetto partito, anzi!
I partiti tradizionali contano proprio sull’assenza di vincolo di mandato per poi catturare con favori monetari o promesse di poltrone i transfughi confluiti nel gruppo misto, dove scattano delle vere e proprie gare a chi si accaparra per primo il deputato o il senatore in questione, parcheggiato ad aspettare offerte e a beccarsi un lordo di 20.000 euro mensili nella noiosa attesa.
Indipendentemente se la richiesta di eventuale risarcimento venga cassata da qualsiasi giudice a cui si faccia ricorso è comunque un ottimo deterrente.
Chiariamo che non è una regola retroattiva, i parlamentari non rischiano la sanzione (altro invece fanno passare all’opinione pubblica i media unificati)
Se ho intenzione di candidarmi per il movimento in consiglio romano al momento della firma sul regolamento sono a conoscenza del fatto che non rispettando le regole rischio 150.000 euro di tasca mia, mi guarderò bene quindi dal firmare e candidarmi se ho la coscienza sporca e so che i miei propositi sono di salire sul carro e buttarmi in corsa fra le braccia di un altro partito al momento opportuno.
E’ un’ottima selezione dei candidati: il cambia-casacca sarà meno propenso a farsi avanti, superato in numero da coloro che credono fermamente nel programma e nelle regole e vedono la multa come una cosa da ridere, perche sanno che saranno onesti già prima di entrare e non la rischieranno.
Un saluto!
Herr Lampe
Domanda: e se per caso la dirigenza cambiasse linea e lei in quanto eletto mantenesse quella precedente?
Non è un’ipotesi di scuola, si veda quello che fecero passare, Bertinotti in primis, ai – pochi – parlamentari del Prc che mantennero nonostante tutto un voto di contrarietà ai finanziamenti delle missioni militari all’estero.
Federico Erario
Rassegni le dimissioni e te ne vai a casa.
francesco cimino
Un programma non può mai esser immutabile, perché si presentano degli imprevisti o perché spesso un partito non ha da solo la maggioranza. Chi giudica se l’eletto dev’esser destituito? Non possono essere ” gli elettori di quel partito ” perché il voto personale è segreto. Dovrebbe essere allora ” il partito “, in pratica la direzione del partito. Se quest’ultima potesse destituire a piacimento gli eletti, finirebbe qualsiasi pluralismo interno ai partiti e la politica sarebbe ancor più oligarchica di quello che è.
Si potrebbe forse imporre il vincolo per poche, determinate questioni di governo e a patto che la perdita della carica sia decisa da un’assemblea o una giuria sorteggiata, interne al partito. E solo in questo modo.