L’Università che vogliamo

Molto volentieri pubblichiamo questo appello di due colleghi, a cui ho convintamente aderito.

L’Università che vogliamo
Un appello di docenti e ricercatori universitari al ministro Profumo e al Governo Monti

Per adesioni inviare una e-mail a universitachevogliamo@gmail.com
L’Università italiana sopravvive, difficoltosamente, in una condizione di disagio e di crescente emarginazione che ha pochi termini di confronto nella storia recente. Essa ha visto fortemente ridotte le risorse economiche per il suo funzionamento, molto prima che si manifestasse la crisi mondiale e malgrado le modeste dotazioni di partenza rispetto agli altri Paesi industrializzati. Tutti i saperi umanistici e buona parte delle scienze sociali sono da tempo sfavoriti, a beneficio di discipline che si immaginano più direttamente utili alla crescita economica, o genericamente al “Mercato”.
Si tratta di una tendenza in atto da anni che ci accomuna all’Europa e a larga parte del mondo. A tutti gli insegnamenti viene richiesto di fornire un sapere utile, trasformabile in valore di mercato,  altrimenti sono  ritenuti economicamente non sostenibili.

Perciò oggi si sta scatenando negli atenei la definizione dei “criteri di valutazione”, al fine di misurare la “produttività” scientifica degli studiosi, come si misura una qualsivoglia quantità calcolabile. Anche per questo, le Università europee  sono sotto l’assedio quotidiano di un flusso continuo di disposizioni normative, che soffocano i docenti in pratiche quotidiane di interpretazioni e applicazioni quasi sempre di breve durata. Sempre minore è il tempo per gli studi e la ricerca, mentre la vita quotidiana di chi vive nelle Facoltà – docenti, studenti, personale amministrativo – è letteralmente soffocata da compiti organizzativi interni mutevoli, spesso di difficile comprensione, quasi sempre pleonastici.

Noi crediamo che questo modello di Università europea, avviato con il cosiddetto “processo di Bologna” abbia rivelato il suo totale fallimento. Il numero dei laureati non è aumentato,  le percentuali degli abbandoni nei primi anni sono rimaste pressoché identiche, diminuiscono le immatricolazioni, si fa sempre più ristretta l’autonomia universitaria, i saperi impartiti sono sempre più frammentati e tra di loro divisi, tecnicizzati, mai riconnessi a un progetto culturale, a un modello di società. Tutto ciò riguarda non solo il nesso saperi/mercato, ma anche il modello sociale, come è evidente alla luce dell’innalzamento delle tasse d’iscrizione, delle politiche di numero chiuso e della scelta di segmentare, alla luce di politiche classiste, il sistema universitario nazionale facendosi schermo del mito dell’eccellenza.

Al fondo di questo fallimento c’è una esperienza storica recente che illumina sinistramente l’intero quadro europeo. È quello che possiamo chiamare il grandioso scacco americano. Gli USA, elaboratori del modello che l’UE ha voluto tardivamente imitare, sono il Paese che in assoluto ha investito di più nella formazione universitaria e nella ricerca, finalizzate ad accrescere la potenza economica. Ma a dispetto dell’immenso fiume di risorse e la finalizzazione spasmodica delle scienze alla produzione di brevetti e scoperte  strumentali, i risultati sono stati irrisori. La grande  ondata di nuovi posti di lavoro qualificati non si è verificata. Anzi, gli investimenti nel sapere hanno accompagnato un fenomeno dirompente: la distruzione della middle class. Per concludere con una apoteosi: gli USA, che hanno visto trionfare negli ultimi decenni nuove tecnoscienze come l’informatica e la genetica, hanno trascinato il mondo nella più grave crisi economico-finanziaria degli ultimi 80 anni.

Questa lezione storica ci dice che il sapere tecnoscientifico, da sé, interamente finalizzato alla crescita economica e senza un progetto equo e solidale di società, privo della luce della cultura critica, è destinato a fallire. Inseguire gli USA su questa strada è aberrante. La crisi in cui versa il mondo rivela l’erroneità irrimediabile di una strategia da cui bisogna uscire al più presto.

Per tale ragione, i firmatari del presente Manifesto indicano i punti programmatici cui dovrebbe ispirarsi un progetto di università che avvii la fuoriuscita dal modello liberistico di un’Europa ormai sull’orlo del collasso.

Occorre al più presto abolire il fallimentare sistema del 3+2 dall’organizzazione degli studi e ripristinare  i precedenti Corsi di Laurea, prevedendo lauree brevi per le Facoltà che vogliono organizzarli.

Occorre abolire i crediti (i famigerati CFU) come  criteri di valutazione degli esami. Il fatto che essi siano utilizzati anche nel resto d’Europa è una buona ragione per incominciare a scardinare il misero economicismo che è stato iniettato anche negli atenei del Vecchio Continente.

Occorre ripensare i criteri di valutazione che riguardano i saperi umanistici. Noi crediamo giusto che l’Università resti pubblica, sostenuta da risorse pubbliche. Una condizione che implica anche un controllo – certamente mediato, ma serio, non propagandistico – del buon uso delle risorse provenienti dal contributo fiscale di tutti i cittadini. Ma tale controllo deve riguardare soprattutto i Consigli di Amministrazione degli Atenei, che devono diventare assolutamente trasparenti, con adeguata pubblicità, nelle loro scelte e nei loro bilanci.

L’organo di autogoverno degli Atenei sul piano didattico e della ricerca non può essere comunque il CdA, ma il Senato Accademico, democraticamente eletto, in modo da rappresentare equamente tutte le discipline e tutte le figure di coloro che nell’Università lavorano e studiano.

Occorre ripristinare la figura del ricercatore a tempo indeterminato abolita dalla legge Gelmini. Occorre immediatamente dar vita a un meccanismo di rapido reclutamento di nuovi ricercatori, con liste nazionali di idoneità, che tengano conto della produzione scientifica, dell’esperienza maturata nell’attività didattica, nell’attività gestionale, e nell’organizzazione culturale: le Facoltà dovranno poter scegliere all’interno di quelle liste e chiamare liberamente gli idonei.

Ma è necessario al più presto bandire concorsi per la docenza in tutte le Facoltà. I docenti (compresi i ricercatori) italiani sono i più vecchi d’Europa e i numerosi pensionamenti hanno sguarnito gravemente tante Facoltà. Oggi si piangono ipocrite lacrime sulla disoccupazione della gioventù. Ma quale migliore occasione per il governo in carica  di fornire risorse ai ricercatori  senza lavoro, ai tanti giovani che passano dai dottorati ai master senza mai trovare un approdo, una istituzione in cui continuare studi e ricerche?

È infine necessario spendere le energie dei docenti per riorganizzare i saperi, il loro studio e la loro trasmissione nelle Università. La complessità sempre più interrelata del mondo vivente e della società ci impone un diverso modo di studiare, ci chiede un dialogo tra le discipline, una organizzazione degli studi che non esalti la solitaria eccellenza individuale, ma la cooperazione fra campi diversi della conoscenza, così come la società ci chiede la cura collettiva dei beni comuni.

15 gennaio 2012

Piero Bevilacqua (Storia contemporanea, Sapienza, Roma)
Angelo d’Orsi (Storia del pensiero politico, Università di Torino)

aldo giannuli, angelo d'orsi, piero bevilacqua, università


Aldo Giannuli

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Comments (8)

  • Dr Giannuli la ringrazio per i suoi continui interventi sul suo blog.
    Purtroppo dobbiamo anche riconoscere che questo modello fallimentare che continua a perpetuarsi non puo’ cambiare nemmeno con il vostro suggerimento appena pubblicato.
    Sappiamo che parecchi rettori e professori e parenti loro son stati insediati nelle universita’ col lo stesso rapporto di nepotismo partitico,quindi ovviamente vi faranno solo sognare che avvenga quanto avete scritto!
    In piu’ c’e’ da riconoscere che la privatizzazione degli anni novanta delle aziende pubbliche non ha portato i risparmi o il miglioramento del sistema anzi ha favorito la delocalizzazione delle aziende all’estero quindi di conseguenza i loro centri di ricerca non hanno piu’ modo di esistere i laureati non servono nemmeno piu’e tanto meno troppe facolta’ che si utilizzino per far studiare gli studenti!!!!
    Infatti tutti i tagli alla scuola son stati finalizzati a colmare questo divario di laureati che qua in Italia non servono piu’ ;di fatto con le nuove liberalizzazioni avanzate ieri si permette solo di far aprire imprese a soli un euro di capitale, ma per fare cosa???? Per vendere prodotti cinesi??? Ci siamo ben resi conto che gli immigrati senza alcun titolo di studio sono capaci di farlo meglio di noi e senza orari.
    C’e’ poi da prendere in considerazione che non possiamo competere con cinesi ed indiani che lavorano per 120 dollari al mese e per 12 al giorno.
    Allo stesso tempo hanno rapporti di giovani e anziani inverso al nostro e non per nulla le loro universita’ ormai producono piu’ brevetti degli stessi americani .Ringrazio voi tutti per il vostro lavoro !!!!

  • una proposta debolissima e borbonica puramente finalizzata al mantenimento delle capacità di autoriproduzione e alle necessità di tutela della casta accademica.
    Quella che deve essere preservata è la funzione della ricerca non le presunte sedi dove essa abita nell’immaginario collettivo.
    Da tempo ormail l’innovazione e la formazione di qualità non abitano più le aule universitarie mortificate dallo scandaloso abbattimento qualitativo imputabile quasi per intero al sistema dei concorsi truccati, della cultura baronale che permea l’istituzione, della frammentazione disciplinare, del provincialismo dei docenti e direi anche del senso di impunità tipico del baronato.
    Ho vinto un dottorato presso una università del centro Italia, ho visto casi di plagio, docenti improvvisarsi su discipline di cui ignoravano tutto (ah! l’elearning) per fare incetta di fondi, ho visto pianificare percorsi di alta formazione (master e affini) avendo in mente come solo criterio quello di piazzare i membri del proprio clan accademico (e venivano fuori mostri senza capo nè coda) ho visto parenti e affini essere indecorosamente paracadutati in cattedre e organismi amministrativi, ho visto senati accademici deliberare posti a concorso fino a devolvere la quasi totalità del bilancio di ateneo alla copertura degli stipendi (poi non trovano i soldi per la ricerca) ho visto libri di nessuna qualità venire pubblicati solo perchè assorbiti dal mercato coatto degli studenti universitari…
    Di fronte a tutto questo l’opzione non può che essere una, abolire il valore legale del titolo di studio, chiudere buona parte delle sedi universitarie (prepensionandone in maniera coatta i docenti) investire in programmi di ricerca indirizzati a reti internazionali di giovani ricercatori, creazione di consorzi tra le tutte le realtà produttrici di conoscenza presenti sul territorio (associazioni culturali, centri di ricerca privati, fondazioni, imprese, realtà editoriali, etc) selezionandole in funzione dei risultati prodotti e sull’impatto ottenuto DENTRO la realtà socioculturale in cui hanno operato.
    Come sosteneva il buon Giordano Bruno ne “il Candelaio” le università sono luoghi di stagnazione di un sapere morto e autorefenziale. Ripristiniamo le accademie, i luoghi di libera discussione e forse potremo rivitalizzare l’innovazione e la ricerca in questo paese.
    Carthago delenda est: l’università italiana deve essere rasa al suolo.

  • Non capisco la necessità di eliminare i crediti (CFU) a mio avviso (parlo per esperienza diretta essendo studente universitario) essi hanno una loro utilità, se non altro servono a regolare il tempo che lo studente deve dedicare all’esame a seconda del “peso” dell’esame stesso. Per quanto riguarda il sistema 3+2 non lo ritengo un male, anzi penso che il dover fare una “tesina” trascorsi i primi tre anni di studio sia un buon esercizio in vista della tesi definitiva della laurea specialistica (o magistrale che dir si voglia).

    • Appena ho un po’ di tempo ti rispondo articolatamente per spiegarti perchè sia i crediti che il 3+2 sono una delle più solenni scemenze di mezzo secolo di politica universitaria ( e te lo spiuego con la mia esperienza di docente). Per ora scusami se la chiudo così ma devo prima finire di scrivere un libro e dopo sarò più libero

  • Il problema, a mio avviso, è che non si riesce a trovare una via di uscita da tutto ciò, da questo “orrore dell’economico” che pervade ogni aspetto delle nostre vite, e il tempo stringe.
    Poichè guardate, infatti, che non è detto che una via d’uscita vada trovata per forza. Molti mondi sono tramontati, con i lori valori, le loro categorie, i loro modi di strutturare il senso, senza che noi si sia qui a compiangerli. Pensate, ad esempio (ne parla diffusamente Platone) quale “catastrofe”, quale rivolgimento epocale nel modo di pensare, di vivere, di rapportarsi al reale, ha prodotto il passaggio da una civiltà dell’oralità a quella della scrittura. Chi, oggi, potrebbe concepire anche solo nel più remoto dei suoi sogni un ritorno a tale forma di civiltà?
    Ebbene, per noi vale lo stesso. La tecnicizzazione, l’iperspecializzazione, la finanziarizzazione, ecc. , sono realtà divenute ormai antropoietiche: in-formano e plasmano le nostre anime al punto che, se riflettiamo onestamente, ci rendiamo conto che per una gran parte degli uomini dell’Occidente liberale e democratico tutti i discorsi sull'”altro mondo possibile” (per riassumere in un’etichetta istanze differenti) sono ASSOLUTAMENTE INCOMPRENSIBILI. Siamo ormai divenuti uomini a una dimensione, consumatori dell’insignificante, e da ciò traiamo la nostra ragion d’essere. Da ciò ci definiamo in quanto umani.
    Tanti illustri nomi si sono accapigliati su ciò (è questa una crisi da superare oppure il compimento destinale dell’occidente?); ciò che io penso è che, se si vuol far qualcosa, se si vuole far prendere alla storia un’altra piega, il tempo non è molto. Fra un po’, non ci sarà più nessuno in grado di recepire questi discorsi, men che meno di operare per il cambiamento.

  • L’Università come laureificio baronale e di casta, famigliare e parentale di dottori inutili ovvero come centro di ricerca a disposizione delle imprese del territorio in cui insiste?

    A quando una Università dell’Olio e dell’Olivo?

    A quando una Università della Pasta e del Pane?

    A quando una Università delle Mozzarelle e dei Formaggi?

    Pare sia arrivata l’ora di uscire dalla convegnistica ed entrare nel vivo della produzione agro-alimentare supportata e garantita dalla ricerca universitaria.

    Altrimenti, questi laureifici baronali possiamo anche chiuderli e risparmiare un sacco di denari dei contribuenti.

    http://www.ilcittadinox.com/blog/universita-produttivita-una-difficile-conciliazione.html

    Gustavo Gesualdo
    alias
    Il Cittadino X

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