Lettera aperta a Claudio Grassi: ma quale è la nostra proposta di fronte alla crisi?

Sabato scorso (29 maggio) si è svolta l’assemblea regionale di “Essere Comunisti”, la componente di Rifondazione Comunista cui aderisco ed, in quella occasione ho espresso i miei dubbi sulla attuale linea di Rifondazione  e della  Federazione della Sinistra. In particolare per quel che riguarda l’analisi della crisi e le conseguenti proposte.  Credo sia  utile associare anche i lettori di questo blog al dibattito e, per questo, ho deciso di  inviare questa lettera aperta a Claudio Grassi, “numero due” del partito, che mi ha promesso di rispondere. La attendo, ed invito anche altri dirigenti del partito e della federazioni ad intervenire.

Caro Claudio,
colgo l’occasione del tuo discorso conclusivo della riunione di “Essere Comunisti” sabato scorso a Milano per ragionare meglio su un punto che hai toccato di sfuggita ma che mi sembra essenziale per la definizione della linea politica di Rifondazione.

Mi riferisco alla tua affermazione per cui siano in presenza di una crisi da sovra produzione che, dunque, richiede interventi ti tipo classicamente keinesiano (rialzo dei salari, rilancio dell’occupazione ecc), per sostenere la domanda sul mercato e rimettere in equilibrio l’economia.
In effetti, sono presenti elementi di sovra produzione: la depressione del monte salari obbliga i ceti subalterni ad indebitarsi, questo genera masse di capitale fittizio che si svela per tale quando l’insolvenza dei debitori diventa conclamata; questo provoca una caduta della domanda che rende le merci prodotte invendibili, con la conseguente mancata realizzazione del profitto.

E’ quello che è successo con la crisi dei mutui e che  assomiglia da vicino ai meccanismi della grande crisi del 1929. Personalmente non credo che questa sia la definizione più adatta per la crisi attuale, perchè non è questo l’aspetto peculiare, ma potremmo anche scegliere questa definizione, tutto sta a capirsi sul significato delle parole.
I vari aspetti di questa crisi erano stati analizzati da Alberto Burgio nel suo pregevole “Senza Democrazia”, la cui lettura consiglio sempre a studenti ed amici, anche se, per la verità, Alberto non sempre ha tratto tutte le conseguenze delle tendenze che individuava ed, in alcuni tratti, mi è parso troppo suggestionato dal parallelo analogico con il 1929.

Tuttavia, ho l’impressione che si stia facendo strada una vulgata un po’ troppo semplificativa, che forza ancora di più l’analogia con la “Grande crisi”, sino ad una trasposizione meccanica delle ricette keinesiane.
A differenza di settanta anni fa, dobbiamo fare i conti con una serie di elementi del tutto nuovi. In primo luogo, è vero che anche la crisi del 1929 fu innescata dall’insolvenza della Germania di fronte al suo debito per le riparazioni di Guerra, ma è anche vero che essa ebbe uno svolgimento prevalentemente interno ai mercati nazionali. E pertanto, le soluzioni del New Deal, con i loro imponenti programmi di opere pubbliche, pur se non bastevoli a superare del tutto la depressione, ottennero comunque l’effetto di invertire la tendenza, avviando la ripresa e conducendola a buon punto. Si può discutere se il decollo degli Usa quale prima potenza economica mondiale sarebbe ugualmente avvenuto -ed in quei tempi- senza l’immenso consumo a fondo perduto della Guerra e la ricostruzione dei paesi europei, ma  è ragionevole supporre che, pur se in tempi più lenti, il New Deal avrebbe conseguito i suoi obiettivi.

Però gli Usa di Roosevelt erano un paese altamente industrializzato che produceva la gran parte di quello che si acquistava sul mercato interno. Qui, invece ci troviamo di fronte a questa situazione:

a- un ventennio di delocalizzazione ha ridotto fortemente il potenziale industriale degli Usa (ed, in misura inferiore, dell’Europa)
b- per cui gli Usa nel loro complesso consumano circa il 20-25% in più di quello che producono e da ormai da un quindicennio
c- i consumatori americani hanno retto la domanda sul mercato interno soprattutto grazie al massiccio indebitamento privato (mutui, carte di credito, rate auto ecc.) che è alla base della bolla finanziaria
d- le banche americano hanno trovato  modo di “esportare” i loro crediti (più o meno inesigibili) sotto forma di prodotti finanziari atipici sbolognati alle banche europee, giapponesi ecc.
c- l’Amministrazione americana, dal canto suo, ha rimediato al suo surplus di spese emettendo masse crescenti di titoli di debito pubblico (appioppati soprattutto alla Cina ed ai paesi mediorientali)
d- la quadratura finale del cerchio è stata assicurata dai diritti di signoraggio sulla moneta unica di riferimento e di scambio mondiale, appunto, il dollaro
e- in misura diversa, questi processi hanno riguardato anche l’Eurozona, dove si affiancano paesi creditori (come la Germania o l’Olanda) e paesi debitori (soprattutto quelli meridionali ma anche l’Irlanda)

Già questo scenario rende manifestamente insufficienti le classiche ricette keinesiane: limitarsi ad aumentare il monte salari negli Usa o in Europa otterrebbe solo il risultato di peggiorare ulteriormente la bilancia commerciale con i paesi asiatici (Cina in primo luogo, ma anche India , Indonesia, Corea, Taiwan, Giappone), con le conseguenze che è facile immaginare.
Per un riequilibrio complessivo, sarebbe auspicabile una crescita salariale nei paesi maggiori esportatori (in particolare in Cina) o un riallineamento complessivo delle monete, in modo da attenuarne la competitività e permettere una ripresa produttiva dei paesi importatori. Ma nè l’una nè l’altra cosa sembrano soluzioni praticabili, per lo meno a breve. D’altra parte, un cambio meno vantaggioso delle monete occidentali rispetto a quelle asiatiche (reminbi in particolare) se, da un lato ridurrebbe le importazioni da quei paesi, dall’altro peggiorerebbe il potere d’acquisto dei salari.

Ma il guaio peggiore , è ancora un’altro: questa crisi non presenta solo  e tanto aspetti di sovra produzione, ma anche di scarsità. E non si tratta affatto di un dato  di poco conto. Noi siamo in presenza di:
a- un boom demografico che non accenna a calare (stiamo toccando quota 7 miliardi)
b- una esplosione dei consumi dovuta al fatto che, per la prima volta, masse ingentissime, come quelle dei paesi asiatici, accedono a beni sin qui preclusi (dal miglioramento dei generi alimentari al possesso di oggetti elettronici ecc.)

Ne consegue una scarsità generalizzata di quasi tutte le commodities –dal rame allo zinco, dal litio al platino, dai platinoidi al cacao, dal ferro alla soya, dal mais, per non dire di oro e petrolio-.
Per di più questo innesca nuove bolle speculative attraverso il meccanismo dei future.
Il che significa, in buona sostanza, che, contrariamente a quanto accade normalmente nelle grandi crisi seguite da fasi depressive, non dobbiamo aspettarci la prosecuzione della tendenza alla deflazione (peraltro modestissima) di questi anni, ma, al contrario, il rischio di una forte fiammata inflazionistica. Ed è già chiaro che il rischio si presenterà imponente nel 2012, quando verranno a scadenza una considerevole massa di titoli di debito pubblico, in buona parte americani: se l’asta dovesse andare male (come tutto fa presagire), questo spingerebbe gli stati (Usa in testa) ad emettere moneta in quantità, dando il via alla spirale inflazionistica.

In queste condizioni, le soluzioni keinesiane sperimentate non appaiono pertinenti o efficaci. Questo porta inevitabilmente ad uno scontro sugli assetti di potere (fra stati, classi, imprese) che va ben al di là di qualche intervento sui salari.
D’altra parte, definire una linea credibile, che permetta ai ceti subalterni di entrare in gioco e farsi valere, non è cosa che possa esaurirsi in ambito nazionale (o ridursi a qualche modesta trovata come la “michetta ad un euro”) ed allora, perchè Rifondazione non prova a promuovere un incontro con le altre forze della sinistra europea (tedeschi, francesi, greci, portoghesi, spagnoli, islandesi ecc.)? Potrebbe essere l’occasione per avviare almeno alcune campagne internazionali come, ad esempio, la nazionalizzazione delle banche, il superamento del dollaro come moneta di riferimento internazionale,  l’istituzione della Tobin Tax, la tassazione dei redditi manageriali, la revisione del regime delle stock options ecc.

Come sai io sono molto scettico, a questo punto, sulla sorte di Rifondazione comunista e  della Federazione della Sinistra  (e ti ho chiaramente espresso i miei dubbi proprio sabato) ma sarei felicissimo di ammettere di aver sbagliato, constatando che Rifondazione e la Federazione sono vitali e in grado di dare un contributo effettivo alla formazione di una convincente linea di sinistra al livello dei problemi che abbiamo davanti.

Con l’amicizia di sempre

Aldo, 30 maggio ’10

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Aldo Giannuli

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Comments (7)

  • Sono assolutamente d’accordo con l’analisi e i suggerimenti di Giannuli. Personalmente la vedo così: c’è una drammatica crisi di sovranità politica sulle dinamiche economiche, aggravata in Europa dalla mancanza di un effettivo potere federale in grado (almeno potenzialmente) di lanciare una specie di nuovo New Deal per promuovere una crescita più socialmente giusta e ambientalmente sostenibile. Ovviamente, la maggioranza dei capitalisti europei, liberisti e subalterni agli USA, non ha alcuna intenzione di darsi un progetto federale e riformista europeo. Questo è invece essenziale per i lavoratori e i ceti popolari europei, e anche per quella frazione di capitalisti, per quanto minoritaria, capace di intraprendere fuori dalle regole del gioco statunitensi. Se questi sono i termini della questione, ancor più desolante appare l’incapacità della sinistra italiana di rapportarsi realmente e organizzativamente con la sinistra socialista e ambientalista degli altri Paesi europei, per cambiare politicamente di segno la costruzione di un’Europa Unita.

  • Maurizio Melandri

    Ho appena finito di leggere. Lo rileggerò diverse volte.
    A commentarlo parto dal basso: vedo che tu e Ferrero partite dalle identiche premesse, solo una sinistra che riprenda in mano l’internazionalismo può realmente opporsi a quanto sta succedendo. Concordo anch’io, ma ritengo che questa sia una crisi sistemica, non una delle tante, per non so fino a che punto risolvibile con ricette standard, che dall’altro sono, per forza di cose, le bandiere della sinistra.
    Insomma, dobbiamo prendere le bandiere lasciate (nazionalizzazione banche, Tobin Tax etc..) ben sapendo però che la crisi è maggiormente complessa in quanto sistemica e per cui non sapremo come se ne uscirà realmente. Di sicuro cambierà il ns modo di vita, ma non sappiamo come. La Rivoluzione Francese fu un altra crisi sistemica, ci fu un cambio sia economico, sia di diritto, ma il tutto era sottotraccia, doveva esplodere. Qui invece siamo in un mondo con un unica economia, per cui non dovrebbero essere i marxisti, a questo punto ad intervenire portando con se una nuova economia? Io credo di si, ma citando Staino: “Marx aveva ragione, il capitalismo è in crisi…ma noi non sappiamo più che fare!” 🙁

  • Caro Giannulli,ho sentito il tuo intervento alla riunione di sabato e le considerazioni finali di Grassi.Direi che il dibattito,quello vero,non è ancora iniziato.
    Di fronte ai comunisti vi sono problemi enormi,di natura teorica,programmatica,di azione politica e di lotta sia in campo internazionale che nei singoli Paesi e nelle singole realtà comunali e aziendali.
    Voglio solo ricordare a tutti noi che non più tardi di qualche mese fà (20 e 21 novembre 2009) a Delhi si è tenuta una importante riunione di Partiti Comunistia a cui hanno partecipato quasi 60 Partiti Comunisti (per l’Italia erano presenti sia il PRC che il PdCI) ed hanno redatto una risoluzione finale che ti invito a leggere sul sito http://www.resistenze.org.
    Qualche giorno fà su Liberazione è apparso un interessante servizio di AM Calderoli che
    descriveva anche il lavoro che molti PC nel mondo stanno facendo anche attraverso le nuove tecnoligie di comunicazione.
    Stà rinascendo un nuovo movimento comunista internazionale? Credo di si e ne auspico non solo la necessità ma anche una accelerazione perchè i problemi che la crisi mondiale del capitalismo ( perchè di questo si tratta)stà riversando sulla classe operaia,sul mondo del lavoro dipendente e non solo,sulle masse popolari sono enormi e abbastanza comuni a gran parte dei Paesi ( e delle masse popolari) del mondo.
    Ritornano pressanti e urgenti le ultime righe del”Manifesto del Partito Comunista”.
    Dobbiamo evitare l’attendismo ed operare in ciascun Paese per unificare le forze di coloro che sanno che la prospettiva è costruire una nuova società,un nuovo sistema ,in poche parole è urgente rilanciare,nella condizione contemporanea,la necessità del socialismo come unica e vera alternativa al sistema oggi dominante (anche sul piano culturale).Dice un passaggio del documento di Delhi:”Se il sistema capitalista è intrinsicamente percorso dalla crisi,non crolla automaticamente.”
    Quindi non aspettiamo che passi il cadavere del capitalismo perchè esso non si suicida.
    Occorre uno scatto,superare il pessimismo attraverso l’agire organizzato ovunque sono i comunisti.
    Ho ,qualche giorno fà,visitato un sito enciclopedico multimediale ed ho letto (ma lo sapevo già,ne volevo solo la conferma) che esistono l’internazionale liberale,quella democristiana,quella delle destre e quella socialista.Perchè non svolgere più frequentemente riunioni di confronto e decidere azioni comuni come è stato fatto a Novembre in India?
    Fraternamente
    Jorfida Enzo

  • Io ritengo che il PRC sia fermo agli 70-80 come analisi, e bene ha fatto Giannulli a provare a dare una scossettina al buon Claudio.

    Voglio fare notare una cosa anche io però:

    Qua in Italia si è data una enorme importanza all’incontro di Delhi, e quasi nessuna al poco antecedente incontro di Caracas dove si parlò della creazione di una V internazionale socialista.
    Questi due incontri erano abbastanza simili ma animati da due approcci differenti.
    Se non sbaglio PRC e PdCI si sono limitati ad andare in India, altri come i cubani sono apparsi in entrambi.

    L’incontro di Delhi per molti versi riassume i limiti anche dei cumunisti in Italia. Infatti leggendo il documento finale sono rimasto piuttosto deluso sia dall’analisi che dalla proposta politica.
    Per l’analisi ci si limitava a constatare che il capitalismo fallisce come sistema, dunque che Marx aveva ragione, senza ne approffondire ne provare un’analisi un po originale, tra l’altro tutta incentrata sul rapporto proletariato urbano-capitalisti. La proposta politica consisteva nel invito rivolto ai popoli di mettersi al fianco dei partiti comunisti (probabilmente quelli europei), sotto la direzione dei quali soltanto sarebbero potuti arrivare alla loro emancipazione.

    Un documento totalmente occidentocentrico (a dispetto della collocazione dell’incontro) e con un’approccio universalista anch’esso tipico occidentale.

    A Caracas hanno effettivamente sacrificato un poco l’analisi per concentrarsi su proposte operative. però almeno l’approccio è più innovativo, è globale e specifico assieme, non pretende di esportare modelli ma unire lotte diverse in un fronte comune. Superare vecchie contrapposizioni, già col nome: V internazionale.

    Il marxismo deve essere dinamico, innovativo, sennò diventa roba da preti.

    Io credo che Marx e Lenin per i comunisti spesso anzichè strumenti utili, divengano dei paraocchi, delle citazioni erudite. Lo trovo molto triste.

    Paradossalmente il patrimonio marxista (e tutto ciò che vi si è aggiunto in seguito) diviene più utile, più micidiale quando usato da non Comunisti. Si pensi al PSUV di Chavez o ad Hezbollah (uno dei partiti più leninisti nell’organizzazione).

  • Caro Aldo, un po’ di tenerezza me l’ha fatto questo tuo articolo, che condivido come un sogno, anche se non sto dalla tua parte. Sento aria di Lenin, palazzo d’Inverno, incrociatore Aurora. Un fantasma si aggira per l’Europa.
    Se l’incrudirsi della crisi non offrirà opportunità a chi cerca la palingenesi sociale (spero evitando i vestiti tagliati su misura e la erre agnelliana di Bertinotti) vuol dire che la storia non ha logica.
    Ma allora perché non vi battete seriamente e mettete in campo le misure appropriate (tassazione fortemente differenziata sulle famigle e patto con le imprese)? Non eviterete l’inevitabile arretramento economico, ma almeno riuscirete a rdurre l’area dei dannati della terra, che sta arrivando, non solo da noi, alla middle class. E una sponda internazionale, quanto meno europea, vi eviterà la catastrofe.

  • Caro Aldo,
    la tua lettera, come già il tuo intervento in assemblea, è di grande stimolo. Mette i piedi nel piatto di una questione – la politica economica dei comunisti per fronteggiare la crisi – molto importante.
    Non dico “essenziale”, lasciandomi trascinare dalla retorica, perché un’analisi oggettiva, foss’anche sommaria, dello stato della sinistra in Occidente, e in primo luogo in Italia, non ci suggerisce di assegnare alla carenza soggettiva di proposte in materia economica il ruolo di causa principe della crisi storica del nostro consenso. Molto di più rileva il contesto oggettivo di profonda lacerazione del sistema produttivo, che ha portato con sé, dai primi anni Ottanta in poi, una frammentazione del ciclo e dunque della classe operaia che ha determinato a livello strutturale l’affievolirsi di quei legami di classe che hanno determinato tanta parte del consenso (e, aggiungo, del senso) della proposta politica dei comunisti nel secolo scorso. Da qui gli stravolgimenti epocali di carattere sociale e culturale in senso lato, l’arretramento della coscienza di classe, l’affermazione veicolata di controvalori reazionari e individualistici. E dentro questo quadro, da ultimo, l’inadeguatezza di gruppi dirigenti che hanno compiuto scelte politiche profondamente sbagliate (con le dovute proporzioni: dalla svolta della Bolognina al secondo governo Prodi e all’Arcobaleno).
    Questa prima considerazione fa il paio con una seconda: tu esprimi dubbi sulla linea di Rifondazione comunista e della Federazione della sinistra a partire dalla contestazione di un punto di analisi (la crisi è di sovrapproduzione). In questo secondo me compi un errore metodologico prima che analitico.
    Ammettiamo che non sia esattamente (o, come tu affermi, non soltanto) una crisi di sovrapproduzione: in che cosa viene intaccata la linea politica del Prc e della Federazione e, dunque, il profilo complessivo della nostra impresa politica?
    Risponderai che una analisi precisa e scientifica è all’origine di ogni scelta politica. Ma sai bene che nessuna comunità scientifica, nemmeno quella marxista, è in condizione di definire in termini di verità assoluta l’insieme di cause e concause che determina una congiuntura economica. Si formulano ipotesi, provando a corroborarle con dati e analisi empiriche.
    Ribadisco che il punto centrale dell’analisi – centrale, e dunque dirimente anche nell’elaborazione conseguente della proposta politica – è il seguente: la crisi non è finanziaria, ma è di sistema.

    Ciò che ha scatenato la crisi finanziaria ormai due anni fa – e cioè l’esplosione della bolla speculativa dei mutui subprime negli Stati Uniti – è una pratica di indebitamento di massa che ha alla radice la povertà endemicamente diffusa della società nord-americana e una politica di compressione salariale che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni del l’intero capitalismo occidentale tesa all’estorsione, in concomitanza con l’aumento generale della produzione, di maggiore plusvalore. Il punto centrale è quindi che la crisi si colloca nel meccanismo di accumulazione reale e non nelle regole della finanza.

    Questo cosa significa? Che qualunque intervento pubblico debole sul piano strategico e non orientante non serve a nulla, perché non interviene a modificare alla radice la falla che ha prodotto la crisi. In questo concordo pienamente con te.

    La logica conseguenza di questo assunto è allora che il tema strategico da porre con forza la modifica del modo di produzione, con ciò che questo comporta sul piano della proprietà dei mezzi di produzione e dunque della gestione politica («l’autonomia dei produttori») dell’economia.

    Ma da qui al socialismo ci sono misure che ricostruiscono un equilibrio economico virtuoso nel quale il soggetto operaio accresce, contemporaneamente al suo potere d’acquisto, il proprio potere di contrattazione costruendo rapporti di forza tra le classi più adeguati all’obiettivo strategico? Nel ciclo di lotte Sessanta-Settanta che ha prodotto conquiste e tutele (e l’avanzamento politico-elettorale dell’egemonia della sinistra) si è trovato un compromesso virtuoso di stampo socialdemocratico con un intervento economico sostanzialmente keinesiano.

    Oggi, un intervento statale che rialzi i salari e rilanci l’occupazione, investendo – come è ovvio – in particolare sui settori ad alta innovazione tecnologica e sulla ricerca, a tutti i livelli, è una risposta alla crisi che consente contestualmente il miglioramento dei rapporti di forza tra le classi? Io penso di sì, e non penso che vi siano risposte statali diverse migliori di questa, a maggior ragione perché l’alternativa più praticata è l’indebitamento degli Stati nei confronti di organismi sovranazionali per loro natura iper-liberisti (come il Fmi) i quali impongono agli Stati (e cioè attraverso esborsi di denaro pubblico, e cioè dei alvoratori) politiche economiche anti-sociali.

    Il quadro che tu correttamente descrivi e che, in buona sostanza, è caratterizzato dal venir meno della forza produttiva interna di ogni singolo Stato (per tramite di delocalizzazioni, maggiore dipendenza dalle importazioni dei maggiori Paesi capitalistici, una finanziarizzazione molto spinta), non modifica l’assunto di fondo. Semplicemente chiama in causa nuovi soggetti, dall’Europa (cosa ben diversa dall’Unione Europea liberista di Maastricht) alla Russia, alla Cina, all’India, al bacino economico latino-americano, dall’interazione possibile dei quali (e, fai bene tu stesso a ricordarlo, dalla crescita salariale dei nuovi Paesi esportatori) possono nascere alcune delle risposte che attendiamo.

    Quanto all’invito che tu rivolgi in conclusione al partito (farsi promotore di un raccordo a livello europeo con le altre forze della sinistra nel Continente), lo condivido e penso debba essere uno degli obiettivi principali di un partito che vuole costruire, oltre al Gue, un luogo dove si incontrino tutte le forze comuniste e anticapitaliste interessate a costruire risposte comuni alla crisi del capitalismo.

    Con altrettanta stima,

    Claudio Grassi

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