La morte di Andreotti

Andreotti è stato il più longevo fra i maggiori esponenti della Prima Repubblica e non solo per la veneranda età raggiunta, ma soprattutto per lo straordinario periodo di “durata politica”: sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel 1945, era Presidente del Consiglio 47 anni dopo. Mezzo secolo di ininterrotta presenza in primo piano, un primato sfiorato (ma non raggiunto) dal solo Fanfani. Ed è anche il più controverso fra i nostri uomini politici, al punto da ispirare un film di successo sulla sua figura. E’ facile prevedere che gli storici dell’Italia repubblicana continueranno a lungo a chiedersi se il “divo Giulio” sia stato un lungimirante statista o l’”anima nera” della Repubblica, un grande artista della realpolitik o solo il “grande Vecchio” di ogni trama ed ogni scandalo. E non mancherà neppure chi sosterrà che si è trattato del “Grande perseguitato” di una macchinazione ordita da lontano, costretto ad una lunga e defatigante lotta per difendersi dall’immagine di “amico della Mafia”.

Alcuni ne ricorderanno l’inossidabile centrismo e l’ostilità al centrosinistra, altri l’essere stato il Presidente del Consiglio della solidarietà nazionale e l’alleato di Zaccagnini nel XIV congresso democristiano.

Parlando del 1970 c’è chi ne ricorderà il sospetto coinvolgimento nel golpe Borghese e chi la sua collaborazione con il gruppo comunista per l’approvazione dei nuovi regolamenti parlamentari. C’è chi ne ricorderà il granitico atlantismo degli anni cinquanta e chi le tacite confluenze con la politica sovietica negli anni ottanta (e si pensi alla politica filo araba, ai rapporti con il regime etiopico di Menghistu Hailè Mariam con la vicenda dell’autostrada del Tana Beles, alla freddezza verso il dissenso dell’et –a cominciare da Solidarnosc-, alla vicenda di Sigonella).

C’è chi ribadirà le accuse di collusione con l’estrema destra e chi ricorderà l’intervista a Caprara su Giannettini e la decisione di svelare Gladio. Chi sottolineerà l’amicizia con Lima e chi la legge antimafia fatta dal suo governo.

Ma Andreotti non è riducibile a nessuno di questi aspetti o momenti, è stato tutto questo insieme e qualcosa di più. Ancora oggi ci sono passaggi della sua biografia politica (la secessione della corrente dorotea nell’ottobre 1969, il tentativo di “governo degli equilibri più avanzati” nel luglio 1970, la denuncia dei colpi di Stato nell’estate 1974, il ruolo realmente svolto nel caso Moro ecc) sui quali si possono fare supposizioni anche fondate, ma senza certezze definitive. Occorrerà studiare ancora molto e trovare documenti che ci illuminino. Pertanto, qui tentiamo solo di suggerire qualche chiave interpretativa da discutere.

Ed occorre dire subito che c’è il grande rischio di banalizzare una figura così complessa, appiattendola su una sola delle sue dimensioni. Qualunque sia il giudizio morale o politico che possiamo avere su di Lui occorre tener presente che si tratta di un personaggio storico di primaria importanza che ha provocato mutamenti profondi nel modo di essere della politica. Mutamenti su cui si possono esprimere dissensi e persino condanne, ma che richiedono comunque di essere studiati e compresi.

In primo luogo, Andreotti è l’inventore di un nuovo (per gli anni sessanta e settanta) modo di concepire il potere. Sino a quell’epoca, la separazione fra politica ed economia (soprattutto finanza) era molto ben delineata e fondava uno dei patti costituenti del sistema di potere dell’Italia repubblicana: ai cattolici sarebbe spettata la seie A della politica (Presidenza del Consiglio, Ministero dell’Interno ed almeno la metà di quelli a più spiccata valenza politica) ma nel mondo bancario avrebbero dovuto accontentarsi della serie B (banche di raccolta) mentre ai laici sarebbe spettata la serie B della politica ma la serie A della finanza (le grandi banche d’affari). E sino alla fine degli anni sessanta si trattò di una separazione molto rispettata. Poi le cose iniziarono a mutare con l’alleanza di Andreotti con Sindona prima e con Calvi dopo e con la sua manovra per dare l’assalto a Mediobanca.

Quella andreottiana rappresentò un unicum  fra le correnti della Dc: tutte le altre correnti avevano i propri uomini di riferimento fra i monsignori vaticani, fra gli alti ufficiali dei servizi segreti, fra i boiardi di Stato, ma solo nella corrente andreottiana poteva accadere che un monsignore di Curia (Fiorenzo Angelini) o un alto ufficiale del servizio militare (Roberto Jucci) ne facessero parte organicamente e partecipassero alle sue riunioni.

La corrente del Divo Giulio rappresentava una sorta di “conglomerata del potere” che anticiperà quella contaminazione fra poteri che è la norma della seconda Repubblica.

In secondo luogo, Andreotti fu l’ “artista” della dimensione coperta del potere politico. Intendiamoci: anche altri politici di primo piano sia Dc (Taviani, ma anche Moro) sia di altri partiti (il socialista Mancini o il comunista Cossutta, tanto per fare due nomi) furono frequentatori sistematici del “cono d’ombra” della politica. Ma Andreotti ne fece un uso sistematico senza pari, comprendendo sino in fondo quale fosse il peso dell’intelligence nel mondo seguito alla II guerra mondiale.

Ancora, Andreotti rappresentò l’esempio più riuscito di prevalenza della tattica sulla strategia. Una visione della politica che si basa sull’assunto per cui la migliore strategia è non averne alcuna e dare prova di una inesausta capacità di adattamento.

E uno dei pochi punti su cui le controversie su Andreotti tacciono è c’è  generale accordo è la sua immagine di grande tattico. E questo ci suggerisce un’immagine: quella del cavallo che, negli scacchi, è il “pezzo tattico” per eccellenza. Grazie al suo particolare modo di muovere (due caselle in avanti o indietro ed una di lato o, al contrario, due di lato ed una avanti o indietro) il cavallo è il pezzo meno “prevedibile” e difficilmente neutralizzabile. Infatti altra proprietà del cavallo è quella di “scavalcare” gli altri pezzi, per cui non ha alcuna efficacia frapporre altri pezzi sulla sua traiettoria. Per la sua mossa asimmetrica rispetto agli altri, il cavallo è l’unico pezzo che può minacciare qualsiasi pezzo senza esserne minacciato. Insidioso ma non potente: il cavallo ha  un corto raggio d’azione di tre caselle e, dunque, è un pezzo lento, ma, nello stesso tempo, con un “ventaglio” molto aperto di sviluppi: nella posizione più favorevole, tiene “sotto tiro” otto case.

Dunque, un pezzo ideare per il controllo del centro scacchiera. Al contrario, gli scacchisti sanno che “il cavallo nell’angolo è triste” cioè ha poco sviluppo (solo due caselle) nell’angolo più periferico. E, pertanto, per dare il meglio di sè deve cercare sempre di guadagnare le caselle centrali il che richiede una accorta architettura di “appoggi” reciproci con altri pezzi. Ed è esattamente quello che Andreotti ha sempre cercato di fare: non restare mai isolato, “combattere” con le truppe degli altri, fare di tutto per restare al centro del sistema, pur se muovendosi al suo interno.

Il cavallo (come Andreotti) è un pezzo ottimo per un impiego tattico ed è meno adatto ad un impiego “strategico” per il quale risulta più adatta la regina per la sua capacità di movimento.

Volendo restare nella metafora scacchistica, possiamo dire che se Moro è stato “la regina” della Dc, per i suoi progetti di lungo periodo, Andreotti è stato l’incarnazione più perfetta del cavallo con le sue rapide inversioni di marcia, il suo schema di gioco di corto raggio, le incursioni improvvise sui fianchi, ma nel costante tentativo di tenersi al centro della scacchiera.

E questo rinvia ad un altro aspetto abbastanza evidente della personalità del “divo Giulio”: la diffidenza per il pensiero astratto e la netta preferenza per le questioni “concrete” (e “Concretezza” si chiamò, appunto, la sua rivista). Convinto della centralità del potere (che, appunto, “logora chi non ce l’ha”) diffidava dell’ideologia e si faceva beffe di ogni pensiero strategico.

Ma di Andreotti occorrerà parlare ancora a lungo.

Aldo Giannuli

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Aldo Giannuli

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Comments (11)

  • Apprendo solo adesso grazie al blog della notizia. Volevo proprio chiederle giorni fa cosa era certo e cosa no, cosa era verosimile e cosa si potesse dire senza prove ma con realistica sicurezza circa le trame più turpi che lo hanno riguardato, come le accuse di omicidio. Ho sempre considerato Andreotti forse l’uomo più intelligente della nostra politica e l’ho sempre ammirato per questo, ma nel contempo l’ho sempre considerato un genio del male… neanche a farlo a bella posta la puntata di Report della scorsa settimana parlava dell’apporto di Andreotti alla carriera di manager di case farmaceutiche del figlio… potrebbe spiegare meglio il discorso sullo “strategismo” di Moro? Grazie.

  • sono quelli come andreotti,che hanno generato gli attuali voraci, ladri,corrotti,privilegiati e sconclusionati politici,i nuovi mostri,questi che che,con la disoccupazione,smembrano le nostre famiglie,costringendo i nostri figli ad emigrare all estero,quando non ci armano direttamente le mani e spazzarli e spazzarci via, per non farci, e non farli soffrire!

  • Faccio notare che, come per altri politici, si possono fare solo commenti relativi al potere esercitato da Andreotti. Articoli su quanto ha fatto di bene per gli italiani non potranno mai essere scritti perchè si è sempre fatto gli affaracci suoi.

  • alessandro smerilli

    I commenti che hanno accompagnato la dipartita di Giulio Andreotti sono in prevalenza negativi. Vorrei mettere in luce alcuni lati positivi dell’uomo. Essenzialmente due. Il primo si riferisce alle sue azioni nell’autunno del 1974 quando, da ministro della Difesa assecondò le inchieste giudiziarie e operò degli improvvisi trasferimenti dei capi militari che preparavano il colpo di Stato (quello di Ricci-Sogno) che fu in questa maniera sventato. Fu quella la circostanza nella quale il gen. Palumbo, comandante della Pastrengo “tradì” i congiurati passando dalla parte di Andreotti che era spalleggiato dal capo dell’ufficio D del Sid, Maletti, in lotta con il capo supremo del Sid, Miceli il quale finì prima in carcere poi in parlamento fra le file del Msi di Almirante. Il capo del governo dell’epoca era Rumor, lo stesso che era sopravvissuto al millantato attentato di Vinciguerra a suo dire istigato da Maggi.
    Il secondo episodio positivo riguarda uno scandalo a sfondo sessuale che scosse la dirigenza democristiana che si combatteva senza esclusione di colpi per agguantare l’eredità di De Gasperi. In breve la storia è questa. Wilma Montesi, una bella ragazza romana di famiglia modesta, fu trovata morta sulla spiaggia di Torvaianica l’11 aprile 1953. Indossava soltanto una sottoveste e sul suo corpo non furono rilevate tracce di violenza, ma la tesi del suicidio non resse e si disse che il corpo era stato abbandonato sulla spiaggia quando la Montesi era ancora viva. La faccenda sarebbe stata probabilmente archiviata senza particolari clamori se non fosse intervenuta un’altra giovane tuttavia mitomane, una certa Anna Moneta Caglio, bene introdotta negli ambienti della dirigenza democristiana. Scrisse un memoriale fasullo fin nelle virgole che accusava gente del tutto innocente (ma ci vollero anni per chiarirlo) tra i quali il giovane musicista Piero Piccioni figlio di Attilio, erede politico designato di Alcide De Gasperi. Andreotti cestinò correttamente le carte ma non così fece il furbissimo Fanfani, all’epoca ministro deli interni che incaricò delle indagini i carabinieri. Un colonnello interrogò più volte segretamente la mitomane (dove ho già sentito una storia simile?) e un gigantesco giudice (nel senso di grande obeso) di nome Sepe ebbe modo di dispiegare tutta la sua vanità divenendo popolarissimo e apprezzatissimo anche dai comunisti che lo avrebbero visto volentieri come presidente della Repubblica. Arrestò Piero Piccioni malgrado costui esibisse un alibi di ferro e lo tenne per tre mesi in carcere preventivo. Il processo che lo scagionò fu celebrato quattro anni dopo quando ormai la carriera politica di suo padre era stata definitivamente stroncata. In seguito compose una quantità sterminata di musiche da film. Ma né i carabinieri né il giudice Sepe avrebbero potuto dare credito alla mitomane se questa non fosse stata sostenuta dal suo confessore, tale Alessandro Dall’Olio sj (che sta per societas jesu, attributo anche del papa bis) ambizioso gesuita che, a differenza del giudice Sepe spesso fotografato mentre girava su una enorme automobile nera, era noto per la sua bicicletta dotata di un manubrio sovradimensionato. Della serie dimmi quale protesi usi e ti dirò chi sei. il giudice Sepe, finiti i clamori mediatici guadagnati da magistrato, si dette da fare per capitalizzare la sua popolarità alla guisa di futuri colleghi più fortunati di lui che dovette risolversi a chiedere a Andreotti. Pare di vedere quest’omone davanti a un omino con gli occhi da mandarino cinese collocati su una testa di tartaruga che si sporge timidamente dal guscio. Un omone col cappello in mano che si propone come capo dell’Ufficio legislativo. Andreotti gli chiede :” c’è la prova che Piero Piccioni conoscesse la Montesi?” Sepe: “onorevole, lei conosce il figlio del ministro Piccioni? “ “Vagamente” Sepe: “Cosa vuole, fa il musicista jazz , è l’amante di Alida Valli…” “ E allora?”. Giulio Andreotti mandò a cacare il giudice Sepe a anche il gesuita. Quest’ultimo però si riciclò, e divenne direttore dell’istituto Stensen a Firenze dove ostentava un ricercato progressismo, che si estendeva dall’ammirazione per Fabrizio De Andrè al rischioso apprezzamento per un gesuita in odore di eresie evoluzionistico-darwiniane, Teilhard de Chardin. Si diceva anche che fosse il confessore della moglie di Berlinguer. Era però piuttosto venale tanto che quando incappai in una trappola che mi tese nell’istituto nel quale erano avvenuti una quantità di episodi di danneggiamenti e goliardate (era ospitata anche una università americana) pensò di risolvere i suoi problemi incastrandomi e chiedendomi un risarcimento molto elevato. Per mia fortuna avevo scoperto casualmente lo scheletro che teneva nell’armadio e così gli risi in faccia sfidandolo a citarmi in giudizio che mi sarebbe servito per pubblicizzare un libro bianco che stavo scrivendo coi giovani della fgci sul caso Montesi (non era vero). Lo vidi diventare prima bianco poi rosso mentre perdeva le staffe e mi buttava fuori ghignando. Tagliai la corda col massimo dell’eleganza possibile ma non ebbi altri fastidi da lui a parte insinuazioni gesuitiche diffamanti che servirono solo a guastami i rapporti (ero minorenne) con mio padre. Quando, anni dopo, ho sentito Andreotti parlare con disprezzo del “gesuita”, gli avrei voluto dare una pacca sulla spalla. In fondo porta fortuna, no?

    Questa è la marcetta forse più nota di Piero Piccioni : http://www.youtube.com/watch?v=78lMAEgJ3Wg

  • E uno dei pochi punti su cui le controversie su Andreotti tacciono e c’è generale accordo è la sua immagine di grande tattico. E questo ci suggerisce un’immagine: quella del cavallo che, negli scacchi, è il “pezzo tattico” per eccellenza. Grazie al suo particolare modo di muovere (due caselle in avanti o indietro ed una di lato o, al contrario, due di lato ed una avanti o indietro) il cavallo è il pezzo meno “prevedibile” e difficilmente neutralizzabile. Infatti altra proprietà del cavallo è quella di “scavalcare” gli altri pezzi, per cui non ha alcuna efficacia frapporre altri pezzi sulla sua traiettoria. Per la sua mossa asimmetrica rispetto agli altri, il cavallo è l’unico pezzo che può minacciare qualsiasi pezzo senza esserne minacciato. Insidioso ma non potente: il cavallo ha un corto raggio d’azione di tre caselle e, dunque, è un pezzo lento, ma, nello stesso tempo, con un “ventaglio” molto aperto di sviluppi: nella posizione più favorevole, tiene “sotto tiro” otto case.

  • E uno dei pochi punti su cui le controversie su Andreotti tacciono e c’è generale accordo è la sua immagine di grande tattico. E questo ci suggerisce un’immagine: quella del cavallo che, negli scacchi, è il “pezzo tattico” per eccellenza. Grazie al suo particolare modo di muovere (due caselle in avanti o indietro ed una di lato o, al contrario, due di lato ed una avanti o indietro) il cavallo è il pezzo meno “prevedibile” e difficilmente neutralizzabile. Infatti altra proprietà del cavallo è quella di “scavalcare” gli altri pezzi, per cui non ha alcuna efficacia frapporre altri pezzi sulla sua traiettoria. Per la sua mossa asimmetrica rispetto agli altri, il cavallo è l’unico pezzo che può minacciare qualsiasi pezzo senza esserne minacciato. Insidioso ma non potente: il cavallo ha un corto raggio d’azione di tre caselle e, dunque, è un pezzo lento, ma, nello stesso tempo, con un “ventaglio” molto aperto di sviluppi: nella posizione più favorevole, tiene “sotto tiro” otto case.

  • E uno dei pochi punti su cui le controversie su Andreotti tacciono e c’è generale accordo è la sua immagine di grande tattico. E questo ci suggerisce un’immagine: quella del cavallo che, negli scacchi, è il “pezzo tattico” per eccellenza. Grazie al suo particolare modo di muovere (due caselle in avanti o indietro ed una di lato o, al contrario, due di lato ed una avanti o indietro) il cavallo è il pezzo meno “prevedibile” e difficilmente neutralizzabile. Infatti altra proprietà del cavallo è quella di “scavalcare” gli altri pezzi, per cui non ha alcuna efficacia frapporre altri pezzi sulla sua traiettoria. Per la sua mossa asimmetrica rispetto agli altri, il cavallo è l’unico pezzo che può minacciare qualsiasi pezzo senza esserne minacciato. Insidioso ma non potente: il cavallo ha un corto raggio d’azione di tre caselle e, dunque, è un pezzo lento, ma, nello stesso tempo, con un “ventaglio” molto aperto di sviluppi: nella posizione più favorevole, tiene “sotto tiro” otto case.

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