La luna e il dito. Della primavera araba e della nostra inadeguatezza.
di Annamaria Rivera
1. Un sommovimento imprevedibile?
Si è ripetuto fino alla nausea che il sommovimento che percorre il mondo arabo non era prevedibile, tanto che neppure le cancellerie e i servizi d’intelligence occidentali lo avevano messo in conto. In realtà, per parlare solo della Tunisia, era sufficiente frequentare e osservare senza pregiudizi quella società per intuire che qualche focherello ardeva sotto lo spesso strato di cenere del regime. Sarebbe bastato parlare con persone comuni per cogliere l’insofferenza, spesso appena dissimulata con l’ironia e la battuta di spirito, verso gli aspetti del benalismo più torvi (la dura repressione dei dissidenti politici e di islamisti spesso presunti) o più grotteschi: dall’obbligo di esporre il ritratto del despota ovunque, perfino nelle più sperdute bottegucce nel deserto, alla neolingua che da un anno all’altro imponeva di cambiare i nomi delle vie secondo il tema propagandistico del momento. Così che, per dirne una, mentre la megalomania modernizzatrice e speculativa del clan di Ben Ali seppelliva sotto il cemento litorali, palmeti, architetture tradizionali, d’un tratto ogni boulevard si chiamava “de l’Environnement”.
Per illudersi che popolazioni per lo più giovani, vivaci, istruite, precocemente familiarizzate con internet e cellulari potessero sopportare ancora a lungo tiranni insediati da alcuni decenni (dai ventiquattro anni di Mubarak ai quarantadue di Gheddafi) si deve aver interiorizzato la tesi dell’eccezionalismo arabo fino ad averne fatto legge della natura. Insomma, mi sembra che a far da schermo siano stati principalmente il paradigma rozzo e fallace dello scontro di civiltà e l’islamofobia conseguente, nonché il preconcetto che rappresenta il mondo arabo come immerso nelle tenebre dell’arretratezza o comunque intrappolato fra la minaccia dell’islamismo radicale e il male minore di dittature asservibili o lusingabili. Questo schermo ideologico ha impedito di considerare, fra le altre cose, che molti paesi arabi stanno vivendo una fase di transizione accelerata, segnata da cambiamenti profondi in tutte le sfere: dalla struttura della famiglia e dei rapporti di autorità ai riferimenti culturali e ideologici, per non parlare dell’incremento della comunicazione informatica e della presenza crescente di giovani generazioni istruite e destinate alla disoccupazione o alla precarietà (questi ultimi fattori, in verità, citati in abbondanza ex post).
Per cogliere questi mutamenti basta uno sguardo ai dati demografici: la crescita dei livelli di alfabetizzazione giovanile (di uomini e donne), la diminuzione dei tassi di fecondità, il declino dell’endogamia, solo per fare alcuni esempi, sono tutti segni di un rapido processo di modernizzazione, come ci avevano avvertito non pochi specialisti, fra i quali Youssef Courbage ed Emmanuel Todd in un’opera lungimirante, pubblicata in Francia nel 2007 e in Italia nel 20091.
Certo, la demografia non rivela tutto di un paese e soprattutto delle sue sofferenze e dei suoi umori profondi, né è essa sola che determina la possibilità di ribellioni collettive. Risolutivo, in ultima istanza, è sempre qualche elemento soggettivo: un Mohamed Bouazizi che sceglie d’immolarsi piuttosto che patire umiliazione e disprezzo. Ma forse la demografia avrebbe potuto aprire qualche varco nel muro di ottusità politica dietro il quale si è rintanata la vecchia Europa. Che oggi appare smarrita, determinata solo a respingere i profughi travolti dal sommovimento e i giovani maghrebini per i quali libertà vuol dire anche conquista della mobilità. Ignara, la povera Europa, che la primavera araba ha decretato che già oggi viviamo in un’unica regione euromediterranea.
2. “Sembra che la capacità di ragionare ci sia venuta meno”: confusione e abbagli in seno alla sinistra italiana
Il vento impetuoso della rivolta inaspettata ha ingarbugliato anche orientamenti e dibattiti in seno alla sinistra italiana largamente intesa, anch’essa in buona parte presa in contropiede o comunque impotente a scuotere l’indifferenza dell’opinione pubblica: a conferma della perdita della facoltà di analisi e di previsione che è pari al provincialismo e alla povertà politica e programmatica. A sinistra non manca peraltro chi condivide il teorema complottista che nega ogni ruolo autonomo alle rivolte contro l’oppressione, soprattutto se scoppiano in un mondo che si credeva intrappolato nella tenaglia di cui ho detto prima. Per fortuna, alcune eccezioni esistono: singole personalità, i Radicali2, alcune aree dei partiti di sinistra-sinistra nonché piccole testate, Ong, qualche sindacato, realtà associative, piccole e grandi, fino all’Arci. A sostenere la primavera araba, anche con iniziative concrete, è soprattutto chi è parte di movimenti internazionali –in primis quello altermondialista- e che quindi, per conoscenza diretta di paesi e persone, ha una percezione più realistica di quel che si muove e cambia oltre i confini europei.
Disorientamenti e vivaci controversie intorno alla rivoluzione araba si sono manifestati perfino -e più apertamente- in seno all’area del manifesto, il quotidiano che più di ogni altro soggetto rappresenta la continuità di un pensiero di sinistra radicale, colto e impegnato. A far scoppiare la polemica nella “comunità” del giornale (intesa come l’insieme dei fondatori, redattori, collaboratori, abbonati, lettori) è stato il caso libico, in effetti meno agevole da decifrare. Ma l’atteggiamento tiepido o alquanto pessimistico verso la rivoluzione araba di una parte della componente “storica” del giornale sembrava abbozzato fin dalla Rivoluzione dei gelsomini: “Golpe militare. Ben Ali fugge” era il titolo secco e parziale del primo pezzo (14 gennaio) a commento della fuga del tiranno cleptomane3.
Questo atteggiamento, peraltro discordante da quello di altri giornalisti -da Rossana Rossanda a Michele Giorgio, che ha garantito ottimi réportage- si è poi palesato in rapporto con l’insurrezione della Cirenaica. Le ragioni, si può ipotizzare, sono molteplici. Forse ha pesato la solidarietà espressa a Gheddafi da Chavez, Oriega e soprattutto Fidel Castro, che già il 21 febbraio, sulle colonne del Granma, denunciava “il crimine della Nato”, a suo parere già pronta a invadere la Libia. Ma più di ogni cosa è prevalso il timore, fondato e condivisibile, che l’insurrezione finisca per essere il pretesto per una nuova guerra “umanitaria”. Per Tommaso Di Francesco, ad esempio, la soluzione balcanica è ineluttabile: “Interverranno perché, qualsiasi sia il potere che arriverà dopo Gheddafi, svolga per noi la stessa funzione (…): elargire petrolio per i consumi dell’Occidente e impedire l’arrivo dei disperati relegandoli in un nuovo sistema concentrazionario”4.
Di certo lo scetticismo verso l’insurrezione libica non può attribuirsi principalmente alla relazione di stima e di amicizia fra il Colonnello e una delle colonne del quotidiano, Valentino Parlato. Il quale, il 18 febbraio, subito dopo la “giornata della collera” repressa nel sangue, rilascia un’intervista al Sole 24 Ore, in cui ribadisce senza sfumature la “stima convinta” per Gheddafi e l’ammirazione per il Libretto verde, “un testo ancora valido”, un “messaggio roussoiano di potere diffuso, di democrazia diretta”5.
All’opposto, Rossana Rossanda -che fin dal 31 gennaio aveva salutato la primavera araba come “un movimento straordinario, coraggioso, laico, nel quale è tornato a soffiare il vento dei sollevamenti di libertà”6- in un editoriale del 24 febbraio denuncia lucidamente le nostre “illusioni progressiste”: quelle che hanno affidato l’intero peso della lotta anticoloniale e/o antimperialista all’autocrate di turno, il quale, in società prive di istituzioni intermedie a garantire la partecipazione popolare, nel corso del tempo rivela la propensione delirante e repressiva. “Nel caso di Gheddafi, scrive, con le sue uniformi rutilanti e i mantelloni da cavaliere del deserto, la convinzione di essere un liberatore e la disposizione ad ammazzare ed essere ammazzato, l’elemento di delirio è evidente”7.
Man mano che si fa più irriducibile la ribellione cirenaica, più feroce la sua repressione e che si profila il rischio di un intervento militare occidentale, la voce equilibrata di Rossanda si perde fra gli articoli di Luciana Castellina, Manlio Dinucci, Maurizio Matteuzzi e altri. Da inviato a Tripoli dichiaratamente embedded ma per obbligo, Matteuzzi impiega buona parte delle sue corrispondenze per polemizzare contro la campagna di disinformazione, condotta dai media mainstream, e la tendenza conseguente a gonfiare il numero delle vittime del regime. Così, per foga polemica, nell’inciso di una di esse gli sfugge il lapsus calami sui libici che “al contrario di molti altri arabi, sono straordinariamente gentili, senza essere mai servili” (27 febbraio)8.
In quella fase, e paradossalmente, proprio qualcuno dei “pesi massimi” che dalle colonne del giornale invita a giusta ragione a non dimenticare la storia sembra aver mummificato il Colonnello nel ruolo di Guida della Rivoluzione, per quanto invecchiata e decaduta9. In tal modo non solo finisce per collocarne in secondo piano la figura di repressore d’ogni forma di dissenso, di “dittatore crudele e vanaglorioso”, per dirla con Robert Fisk10 che non è sospettabile di connivenza col nemico Nato; senza volerlo, ne attenua anche il ruolo di gendarme della Fortezza Europa. A quel punto, l’indulgenza imbarazzata che trapela da certi articoli, essa sì sembra immemore della storia più recente: mette da parte i campi di concentramento nonché i lager-bordello per migranti subsahariane, le violenze e le torture, i rastrellamenti e le deportazioni in container blindati, lo sfruttamento schiavile dei lavoratori terzomondiali, il razzismo istituzionale contro di loro e quello popolare, alimentato ad arte e ampiamente diffuso.
La reticenza di alcuni del giornale rispetto a questa e ad altre gravi questioni in gioco finisce per sollecitare le reazioni di lettori e collaboratori, testimoniate dalle numerose lettere di protesta che arrivano al giornale. Uno dei commenti è affidato a Luciana Castellina. Per comprendere come mai, scrive, “ovunque sia finita così male”, è d’obbligo “analizzare il passato, con tutte le sue contraddizioni”, quel che non farebbero gli indignati lettori del manifesto. Se sacrosanto è l’appello a riconsiderare la storia, più debole sembra la tesi di fondo, mutuata da Paolo Franchi che l’aveva proposta il 28 febbraio sul Corriere della Sera: la controversia sarebbe il frutto della divaricazione generazionale11. Questa frattura si manifesterebbe sotto la forma dell’inconsapevolezza della storia propria dei giovani, tutti: italiani, tunisini, egiziani, libici…Sarebbe facile replicare che, per quanto possa farci piacere, è arduo collocare fra i giovani Slavoj Žižek12, Robert Fisk e tanti altri sostenitori della primavera araba, compresa me stessa.
Decisivo a riequilibrare il dibattito, il 6 marzo compare l’intervento, netto quanto pacato, di Farid Adly, intellettuale e giornalista libico che vive in Italia, collaboratore del manifesto. Adly rovescia l’argomento centrale della smemoratezza della storia avanzato dai detrattori deboli di Gheddafi, per obiettare che le riflessioni che essi propongono “non inquadrano la questione libica nel suo contesto storico”, poiché sottovalutano la “tragedia di un popolo che viene ucciso ogni giorno, nelle piazze delle città libiche e nelle piazze d’affari del mondo industrializzato”. E si schiera decisamente in favore degli insorti: “La matrice democratica che li spinge a ribellarsi agli ordini del tiranno è fuori discussione” 13.
Finalmente il 9 marzo è ancora merito di Rossana Rossanda se la controversia si chiude in modo degno della storia del manifesto. Il suo editoriale, limpido e incisivo, si apre con la constatazione basilare: “Al manifesto non riesce di dire che la Libia di Gheddafi non è né una democrazia né uno stato progressista, e che il tentativo di rivolta in corso si oppone a un clan familiare del quale si augura la caduta”. E alla domanda di fondo: “Perché tanta cautela da parte di un giornale che non ha esitato a sposare, fino ad oggi, anche le cause più minoritarie, ma degne?”, Rossanda dà una risposta altrettanto schietta e nitida: “Sembra che la capacità di ragionare ci sia venuta meno” 14.
E’ proprio questo il dubbio cruciale: che perfino dalle parti del manifesto, nato da un atto di solidarietà verso la Primavera di Praga, vi sia chi non ha saputo sottrarsi alla tenaglia degli schieramenti precostituiti per timore di fare il gioco del Nemico imperialista. In ciò dimentichi, alcuni, della propria stessa storia. Anche a quel tempo non si poteva prevedere come sarebbe andata a finire: non c’era forse chi li accusava di fare il gioco del Capitale e dell’Imperialismo? Nondimeno essi ebbero il coraggio di scommettere su quell’insurrezione e di difenderla generosamente.
Il più recente editoriale di Rossanda infine ha ricollocato il manifesto sulla retta via. Una strada tutt’altro che lineare, irta di dubbi, con una sola indicazione certa: le difficoltà delle transizioni, ostacolate fra l’altro da agenti dei vecchi regimi, e il rischio dell’intervento militare atlantico in Libia non ci autorizzano a sminuire l’importanza enorme del 1848 arabo –per usare l’analogia di Tariq Ali15- e a negare che, comunque esso vada a finire, ribellarsi alla tirannia è stato giusto e possibile. Forse non è più il tempo delle Brigate internazionali, evocate dalla stessa Rossanda. Appartengono a un tempo remoto perfino la generosità e l’intelligenza politica che spinsero alcuni ad accorrere nella Spagna degli anni sessanta-settanta che resisteva al franchismo o nel Portogallo della Rivoluzione dei garofani (eppure non era sconcertante che a condurla fossero i giovani ufficiali?). Ma almeno che si denunci la repressione e si esprima rispetto per i caduti. Che si riconosca il Consiglio temporaneo libico per la transizione16 mentre ci si schiera contro l’intervento occidentale. Che si dia sostegno e solidarietà attiva a chi insegna a noi depressi o smemorati che al mondo vi sono ancora esseri umani disposti a morire per la dignità, la giustizia e la libertà. E un giorno forse anche per l’uguaglianza.
menici60d15
Quando è lo stupido che guarda alla luna
Boh. E gli interessi dei Liberatori? Come l’energia, forse a partire da quella solare:
http://menici60d15.wordpress.com/2011/03/29/energia-solare-e-take-over-della-libia/
Il contrasto alla Cina; l’estensione alla sponda nordafricana dell’economia di mercato occidentale (penso anche al mercato della medicina; anche in relazione alla spinta per la “civilizzazione” della nostra sanità meridionale, e ai delitti forse non solo mafiosi che l’hanno accompagnata).
“Primavera araba”? O forse voglia dei fiumi di latte e miele e delle urì sempresane del nostro Paradiso consumista; a costo di sostituire a dei vistosi dittatori locali le ombre dei poteri stranieri, seguendo il nostro fulgido esempio di asservimento (tanta sinistra per prima) agli USA & c. ?
L’epiteto di stupido affibbiato a chi non accetta le razioni di verità del comando militare Alleato – chi le cucina in mille salse invece è un vero intellettuale di sinistra – fa riflettere che forse in certi casi è il babbeo (o il furbo) che guarda la luna quando gliela indicano; mentre occorrerebbe studiare meglio il ditino, e guardare in faccia il suo possessore.
massimo Copetti
Grazie ad Annamaria Rivera per averci illuminati: chi come me esprime più dubbi che certezze sull’entità della rivolta libica, da oggi sa di aver interiorizzato “il paradigma rozzo e fallace dello scontro di civiltà e l’islamofobia conseguente”.
Paradosso della storia: nel 2003 se eri contro la guerra in Iraq eri un anti-americano, oggi se sei contro quella di Libia se un neo-con.
Tutto mi sarei aspettato, tranne che a sinistra si parlasse come Fukuyama. Accolgo molto volentieri l’invito di Aldo ad aggiornare ai nostri tempi gli schemi concettuali della sinistra, perché la questione è estremamente urgente. Se però il modello a cui si aspira è quello dei Radicali (significativamente citati come esempio virtuoso in questo articolo) basta dirselo e risparmiamo tutti un sacco di tempo.
carlo
Le Riflessioni del compagno Fidel
La Guerra Fascista della NATO
L’Avana. 29 Marzo 2011
(da CubaDebate)
Non era necessario essere indovini per sapere quello che io ho previsto con rigorosa precisione nelle tre Riflessioni pubblicate nel sito Web CubaDebate, tra il 21 febbraio e il 3 marzo: “Il piano della NATO è occupare la Libia”, “Danza macabra di cinismo”, e “La Guerra inevitabile della NATO”.
Nemmeno i leaders fascisti della Germania e dell’Italia furono tanto enormemente svergognati alle radici della Guerra Civile Spagnola, scatenata nel 1936, un episodio che molti forse hanno ricordato in questi giorni.
Sono passati da allora quasi esattamente 75 anni; ma i cambiamenti avvenuti sembrano di 75 secoli o, se lo desiderate, di 75 millenni della vita umana nel nostro pianeta.
A volte sembra che noi che serenamente opiniamo su questi temi, siamo esagerati. Mi azzardo a dire che invece siamo ingenui quando supponiamo che tutti dovremmo essere coscienti dell’inganno o della colossale ignoranza in cui è stata trascinata l’umanità.
Esisteva nel 1936 un intenso scontro tra i due sistemi e le due ideologie, approssimatamente alla pari nel loro potere militare.
Le armi allora sembravano giocattoli, paragonate a quelle attuali. L’umanità aveva la sopravvivenza garantita, nonostante il potere distruttivo e localmente mortale delle stesse.
Città intere potevano essere virtualmente spazzate via, ma mai gli esseri umani nella loro totalità avrebbero potuto essere varie volte sterminati dallo stupido e suicida potere sviluppato dalle scienze e dalle tecnologie attuali.
Partendo da queste realtà sono vergognose le notizie che si trasmettono continuamente sull’utilizzo dei potenti missili indirizzati da laser di totale precisione, cacciabombardieri che viaggiano al doppio della velocità del suono; potenti esplosivi che fanno saltare metalli induriti con l’uranio e il cui effetto sulle popolazioni e sui loro discendenti dura per un periodo indefinito.
Cuba ha esposto nella riunione di Ginevra la sua posizione rispetto il problema interno della Libia. Ha difeso senza esitare l’idea di una soluzione politica al conflitto in questo paese e si è opposta categoricamente a qualsiasi intervento militare straniero.
In un mondo dove l’alleanza degli Stati Uniti e delle potenze capitaliste sviluppate dell’Europa s’impadronisce sempre più delle risorse e del frutto del lavoro dei popoli, qualsiasi cittadino onesto, qualunque sia la sua posizione di fronte al governo si opporrebbe ad un intervento militare straniero nella sua Patria.
La cosa più assurda della situazione attuale è che prima d’iniziare la brutale guerra nel nord dell’Africa, in un’altra regione del mondo, a quasi 10.000 chilometri di distanza, era avvenuto un incidente nucleare in uno dei punti più densamente popolati del pianeta, dopo un tsunami provocato da un terremoto forza nove, che in un paese laborioso come il Giappone è costato già quasi 30.000 vittime. Questo incidente non sarebbe potuto avvenire 75 anni fa.
In Haiti, un paese povero e sottosviluppato, un terremoto di appena 7 gradi della scala di Richter ha provocato la morte di 300.000 persone, incalcolabili feriti e centinaia di migliaia di lesionati.
Senza dubbio, il fatto terribilmente tragico in Giappone è stato l’incidente nell’impianto nucleare di Fukushima, le cui conseguenze sono ancora da determinare.
Citerò solo alcuni titoli delle agenzie di notizie:
“ANSA.- La centrale nucleare di Fukushima 1 sta diffondendo ‘radiazioni estremamente forti, potenzialmente letali”, ha detto Gregory Jaczko, capo della Nuclear Regulatory Commission (NRC), l’ente nucleare statunitense.”
“EFE.- La minaccia nucleare per la critica situazione di una centrale in Giappone dopo il terremoto, ha costretto a sottolineare le revisioni di sicurezza degli impianti atomici nel mondo ed ha portato alcuni paesi a paralizzare i loro piani.”
“Reuters.- Il devastante terremoto del Giappone e l’aggravamento della crisi nucleare potrebbero generare perdite sino a 200.000 milioni di dollari nella sua economia, ma l’ impatto globale è difficile da valutare per il momento.”
“EFE.- Il deterioramento di un reattore dopo l’altro nella centrale di Fukushima ha continuato ad alimentare oggi il timore di un disastro nucleare in Giappone, senza che i disperati tentativi per controllare una fuga radioattiva aprano una spiraglio di speranza .”
“AFP.- L’imperatore Akihito ha espresso preoccupazione per il carattere imprevedibile della crisi nucleare che sta colpendo il Giappone dopo il terremoto e il tsunami, che hanno ucciso migliaia di persone e ne hanno lasciate senza tetto 500.000. Riportato un nuovo terremoto nella regione di Tokio”.
Ci sono dispacci che parlano di temi ancora più preoccupanti. Alcuni parlano della presenza di iodio radioattivo tossico nell’acqua di Tokio, con il doppio della quantità tollerabile che possono consumare i bambini più piccoli, nella capitale giapponese. Uno dei dispacci parla delle riserve di acqua imbottigliata che stanno finendo a Tokio, città ubicata in una prefettura a più di 200 chilometri da Fukushima.
Questo insieme di circostanze determina una situazione drammatica per il nostro mondo.
Posso esprimere i miei punti di vista sulla guerra in Libia con totale libertà.
Non condivido con il leader di questo paese concezioni politiche e di carattere religioso. Sono marxista-leninista e martiano, come ho già espresso.
Vedo la Libia come un membro del Movimento dei Paesi Non Allineati, uno Stato sovrano dei quasi 200 dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Mai un paese grande o piccolo, in questo caso di appena 5 milioni di abitanti, è stato vittima di un attacco tanto brutale, della forza aerea di un’organizzazione guerrafondaia che conta su migliaia di cacciabombardieri, più di 100 sottomarini, portaerei nucleari ed un arsenale sufficiente per distruggere numerose volte il pianeta. Questa situazione, la nostra specie non l’aveva mai conosciuta prima e non esisteva nulla di simile 75 anni fa, quando i bombardieri nazisti attaccarono gli obiettivi in Spagna.
Adesso, senza dubbi, la disonorata e criminale NATO scriverà una ‘bella’ storiella sui suoi ‘umanitari’ bombardamenti.
Se Gheddafi fa onore alle tradizioni del suo popolo e decide di combattere, come ha promesso, sino all’ultimo respiro assieme ai libici che stanno affrontando i peggiori bombardamenti che un paese ha mai sofferto, farà affondare nel fango dell’ignominia la NATO e i suoi criminali progetti.
I popoli rispettano e credono negli uomini che sanno compiere il proprio dovere.
50 anni fa, quando gli Stati Uniti assassinarono più di cento cubani con l’esplosione della nave mercantile La Coubre, il nostro popolo proclamò ‘Patria o Morte’. Ha rispettato ed è stato sempre disposto a rispettare la sua parola.
“Chi tenterà d’impadronirsi di Cuba, esclamò il più glorioso combattente della nostra storia, raccoglierà solo la polvere del suo suolo annegata nel sangue”.
Chiedo scusa per la franchezza con cui affronto il tema.
Fidel Castro Ruz
28 Marzo del 2011
Ore 20.14
Paola Pioldi
Ciao a tutti.
Posso anche condividere la tesi sulla legittimità e autenticità delle rivolte in Nord Africa (pur con i dubbi espressi dai due interventi precedenti al mio), ma ritengo che l’articolo di A. Rivera sia di vecchio stampo e assai stantio. Con tutta l’ammirazione per il Manifesto, credo che alcuni dinosauri dovrebbero davvero rivisitare la Storia e non solo la LORO storia, forse qulche domanda sulle responsabilità che tutti abbiamo per come si sono sviluppate le cose sarebbe dovuta. Il dibattito serrato a cui tutto l’articolo fa riferimento, secondo me, rivela uno scarso spettro di vedute pur con tutto il rispetto per cariche accademiche e pubblicazioni. Lo dice: Che non siano sempre quelle! Mamma mia che barba! Sarebbero questi i nuovi riferimenti? Citazioni e paragoni con passate rivoluzioni? Tralascio sull’accenno al femminismo (non mi incuriosisce il suo libro di prossima pubblicazione). Sarò presuntuosa ma ho trovato l’articolo grossolano e assai ridondante. eppur … sono pure io una “nonna Abelarda” anagraficamente parlando, ma, che dio me ne scampi, di sclerotizzarmi così. Peccato, speravo meglio. Capita. Perdonate l’enfasi, ma sono profondamente delusa.
Paola
Ennio Abate
«Il più recente editoriale di Rossanda infine ha ricollocato il manifesto sulla retta via».
Eh, sì, la via ora è retta!
Solo che, invece delle Brigate internazionali che accorsero nella Spagna repubblicana minacciata da Franco, qui accorre la NATO.
La sinistra, invece di dire almeno «No a Gheddafi e No alla guerra Sarkozy-Camerun-Nato», sempre più moderna, sempre per non essere tacciata di veteroimperialismo, fa la tifosa per i più forti e prepotenti.
Oh, quante belle figlie (applaudono con Napolitano la guerra senza chiamarla più con il suo semplice nome), madama d’oré!