La crisi del sapere umanistico.

La crisi del sapere umanistico è ormai conclamata: negli Usa 54 membri dell’American Accademy of Arts and Sciences hanno denunciano il rischio della rapida scomparsa delle materie umanistiche dalle università americane; in Inghilterra la storia è stata esclusa da quasi tutti i corsi di studio; la geografia è quasi scomparsa dai corsi di insegnamento di metà Europa e resiste qua e là solo come geografia economica; gli studenti disertano i corsi di lettere, filosofia, storia, persino scienze politiche e giurisprudenza, anche in Francia, Italia,  Spagna. Resisticchiano le facoltà di lingue e letterature straniere o simili. Trionfa solo economia.

Questo collasso è uno dei fenomeni culturali più inquietanti del tempo presente, contro il quale non servono a nulla le solite geremiadi.  Esso è determinato da due cause principali fra loro connesse: le caratteristiche proprie del neo liberismo e il rifiuto degli umanisti di reinventarsi le loro discipline e ridefinire la loro figura sociale.

Il neo liberismo ha prodotto una vistosa regressione culturale: la visione pan economicista e la riduzione della stessa economia al solo filone walrasiano e derivati sono stati il brodo di coltura del maggior arretramento intellettuale mai registrato in epoca moderna. A questo si sono sommati a ricaduta: la delegittimazione di ogni pensiero che non fosse quello liberista-liberale, che ha inaridito ogni confronto di idee, la pretesa di imporre comunque e dovunque la lingua inglese funzionale solo alla dittatura culturale della produzione culturale made in Usa, una versione assai pedestre dell’utilitarismo, per cui qualsiasi attività è valutata in funzione del guadagno immediato eccetera eccetera.

Da questo discendono i tagli alle spese culturali e per l’istruzione, di cui oggi gli intellettuali umanisti si risentono, ma dopo anni di acquiescenza. L’ondata neo liberista si è accompagnata ai cori festanti degli economisti massicciamente convertitisi a questo verbo, ma non ha trovato resistenze neppure fra i giuristi, gli storici, i sociologi, i politologi, ecc, che non hanno manifestato che rare ed occasionali obiezioni spesso improprie o più arretrate del fenomeno che avrebbero voluto criticare. E già questa scarsa attitudine a confrontarsi con l’ondata neo liberista è assai eloquente sulla capacità degli umanisti di confrontarsi con il tempo presente. La produzione storica, sociologica, politologica, giuridica, filosofica ecc. dell’ultimo quarto di secolo è, nella maggior  parte dei casi, paccottiglia di nessun valore intellettuale. E’ tutto molto ripetitivo, stantio, privo di originalità e le opere di valore, per ciascuna disciplina, si contano sulle dita di un paio di mani. Diciamocelo sinceramente: se si trattasse di questo attuale assetto delle scienze umane, la loro scomparsa non sarebbe un gran danno.

Il punto è che le discipline umanistiche non si sono adeguatamente confrontate con le vastissime conseguenze culturali della globalizzazione. Non che manchino studi sul fenomeno in sé (ad esempio quelli, peraltro non sempre soddisfacenti, di Zygmunt Bauman, Manuel Castells, Ulrich Beck Alain Touraine, ecc.), ma si tratta di punte individuali, che non si innestano su un solido reticolo di opere minori indispensabili a determinare una svolta complessiva di questa area di studi. E, infatti, si tratta in larga parte di opere che non si sottraggono ad un’ottica eurocentrica e non sfuggono ad un taglio specialistico disciplinare, che precludono molti sviluppi alla ricerca. La globalizzazione implica sia la mondializzazione dei rapporti sia una stretta interdipendenza fra le sfere politica, economico finanziaria, sociale, culturale, militare e, se il primo aspetto richiede imperiosamente un punto di vista più “centrale” e meno sbilanciato verso occidente,   il secondo impone una capacità di analisi transdisciplinare, che allo stato si intravede solo in pochissime opere. Occorre un cambio di passo complessivo nei metodi, ripensare, soprattutto, la storica frattura fra scienze umane e scienze logiche, matematiche e naturali: i fisici, i biologi, i neurologi, ecc. lo hanno capito e fanno sempre più frequenti incursioni nel mondo delle scienze umane, mentre gli umanisti (con l’eccezione di quei filosofi e psicologi che partecipano a progetti di scienze cognitive) tardano a comprenderlo e si tengono ancora troppo al di qua della linea di demarcazione che li separa dall’ “altra metà del cielo”. Quanti storici, sociologi, politologi immaginano di poter lavorare usando un modello di simulazione? E quanti di loro sono in grado di misurarsi con il campo delle scienze cognitive? Nelle nostre università si respira un’aria viziata perché da troppo tempo non si aprono le finestre.

Certo che occorre continuare a studiare la letteratura greca e la guerra dei sette anni, Leopardi e Weber, la secessione austriaca e la riforma protestante, ma occorrerà ripensarli comparativamente agli sviluppi delle altre civiltà che, naturalmente, bisognerà studiare.

Da due secoli e mezzo l’Europa (e tutto l’Occidente) ha costruito la sua identità intorno all’idea di modernità: l’Occidente è moderno per definizione e la modernità è occidentale allo stesso modo. E la globalizzazione è stata pensata come “modernizzazione del Mondo” cioè come progetto di omologare tutto il Mondo al modello occidentale. Ma le cose non stanno andando così: quello che le nostre scienze sociali pensavano fosse un modello universale si è rivelato solo il racconto di “come è andata in Europa”. La modernità è stata pensata come l’intreccio organico di sviluppo economico ed urbanizzazione, di specificazione individuale e di secolarizzazione, di affermazione dello stato di diritto e di disincanto del mondo, di nazione e di acculturazione di massa, un insieme in cui ogni aspetto presuppone e rafforza l’altro. Ed abbiamo pensato che tutto questo avesse regole precise, che permettessero di replicarlo in ogni contesto, salvo trascurabili varianti locali. Ebbene, non sta andando affatto così: lo sviluppo economico non trascina dietro di sé quei processi di democratizzazione, secolarizzazione, ecc. di cui si diceva ed ogni contesto sta avendo un suo sviluppo particolare. Questo obbliga a ripensare anche molte delle nostre convinzioni sulla nostra storia e sul modo con cui l’abbiamo interpretata ma, più ancora, ci obbliga ad una opera di mediazione e di traduzione  culturale: sia noi che i cinesi, gli indiani o gli egiziani abbiamo il concetto di nazione, ma siamo sicuri di dire tutti la stessa cosa? E lo stesso potremmo dire per concetti come classe, popolo, potere, secolarizzazione ecc. ecc.
E questo lavoro di riesame non riguarda solo storici, politologi e sociologi, ma anche giuristi, filosofi, letterati ecc.

Questo è il piano su cui le scienze umanistiche devono impegnarsi trasformandosi ed è quello che ci dà la misura esatta del ritardo accumulato in questi anni, in gran parte dovuto allo statuto sociale dei nostri intellettuali umanisti che da troppo tempo non hanno stimoli verso l’innovazione. Dopo gli anni ottanta, cessate le passioni politiche, che costituivano l’unico vero stimolo alla ricerca, gli umanisti si sono seduti sulla rendita di posizione di intellettuali burocratici retribuiti dallo Stato. Tutto oggi si riduce alla stucchevole rivendicazione del ruolo del “sapere inutile che ci renderà liberi”. Questa emerita sciocchezza, in realtà, vorrebbe dire che ci sono altre utilità oltre quelle economiche, il che è giusto, ma questo non implica che non debba esserci un calcolo dei costi e dei benefici dell’investimento e, se anche è accettabile l’idea che non sempre i benefici di un investimento culturale siano misurabili in termini monetari, non ce la si può cavare con i luoghi comuni sul “sapere critico” e simili.

Un po’ di rapporto con il mercato non guasterebbe, per dare una scossa ai nostri intellettuali sedentarizzati. Non sto pensando all’università privata, che è un disastro anche peggiore che ha prodotto autori  terribili come Francis Fukuyama, Niall Ferguson o Samuel Huntington. Sto pensando ad imprese autogestite degli intellettuali umanisti che si misurino con il mercato. Servirebbero anche cose minime, come ad esempio retribuire i docenti in base al numero di studenti che hanno, lasciando ovviamente gli studenti liberi di scegliere. Vediamo quante aule restano disperatamente vuote?

Concludendo: certo che occorre difendere le materie umanistiche, ma questo sarà possibile solo cambiandole profondamente e mutando altrettanto radicalmente lo stato sociale dei suoi operatori, da “intellettuali” in “lavoratori della cultura”. La cultura non serve per i salotti.

Aldo Giannuli

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Aldo Giannuli

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Comments (28)

  • Tenerone Dolcissimo

    Aridaje coi liberali vecchi o nuovi.
    In primis, capire l’economia senza studi umanistici alle spalle è quasi impossibile.
    Infine, penso che la scomparsa (presunta e poi dirò perché) delle materie umanistiche sia addebitabile a scuole di pensiero aristocratiche, prime fra tutte quelle marxiste (e derivate come quella che gravita intorno alla UE), le quali intendono riservare lo studio delle materie umanistiche alle sole elite. Il liberalismo ha alla base la coscienza che è necessaria una competizione e, quindi, un ricambio periodiche.
    Non a caso gli USA -stato liberale per eccellenza- vivono sulla competizione e hanno come scopo garantire opportunità e non diritti. Ho l’impressione che Lei attribuisca pensiero liberale a falsi liberali, come quelli dell’articolo 18, che vogliono il liberalismo e la competizione selvaggia ma non per sé. Come un certo fiorentino che vo’ fa’ l’ammericano ma i soldi glieli da’ la borsetta di mammà. Cordiali saluti

  • Non mi sono ancora informato sugli ultimi dati ufficiali, né su quelli di altri paesi ma ho letto che le immatricolazioni nelle università italiane (in generale) sono diminuite del 50% negli ultimi anni.
    Questo è un dato tragico, da società in declino, da tardo impero romano, ridicolizzato da vecchi ministri del governo monti che allora dicevano “non è mica obbligatorio avere la laurea” mentre i loro omologhi in altri paesi europei per fortuna spingevano i giovani a studiare. Le discipline umanistiche sicuramente soffriranno particolarmente questa situazione e il contesto della crisi, ma è il dato generale che resta allarmante: questo è un nuovo medioevo in cui a vario titolo viviamo un piccolo grande ruolo di giullari o armigeri o monaci o consiglieri (o cortigiane) mentre la maggior parte del popolo (e dei popoli) è servo dello smartphone ma senza lavoro o carne da annegamento nel mediterraneo o da crociata contro binladesi o gli infedeli dell’Is. Come si esce dal Medioevo senza farsi male e senza scoprire l’America?

  • Buongiorno Prof. Giannuli,

    sicuramente la decadenza delle discipline umanistiche è figlia della globalizzazione e del neo-liberismo, ma aggiungo un fattore.

    Creare un’opera umanistica, si pensi ad un romanzo, comporta fantasia. Tanta. E la fantasia nasce prima di tutto dalla necessità di averla; un tempo, quando noi Italiani eravamo un popolo di poveracci, avevamo bisogno della nostra fantasia per sopravvivere, per inventarci tutte le maniere possibili di sbarcare il lunario; questa continua ricerca del nuovo si riverberava nelle classi più agiate (eh, quella volta chi ci comandava non stava a Bruxelles o a Washington, viveva in mezzo a noi) e di conseguenza in chi scriveva.
    Oggi i giovani, quantunque vivano in un contesto di rapida decadenza economica, sono pur sempre figli di una società dei consumi e per sopravvivere non hanno bisogno di inventare niente. Risultato, della proverbiale “fantasia del popolo Italiano” tra chi ha meno di 30 anni Lei non troverà praticamente nulla. Non so se ha notato la qualità al limite del ridicolo dei giovani scrittori, e la costante del loro continuo parlare solo di sé stessi, in un egoismo al di là di ogni decenza.
    Di fronte ad una realtà del genere, non c’è nessun tentativo di recupero del sapere umanistico che regga.
    Saluti
    Marco

  • @Tenerone Dolcissimo

    la solita solfa che il sistema funziona se lo si applica correttamente e non come noi lazzaroni italiani,come avviene già negli Stati Uniti che dal suo punto di vista,suppongo,sono una sorta di Eldorado dove la crisi è un ricordo si veleggia di nuovo verso la prosperità di un tempo, vero?Felice risveglio…

  • Caro Tenerone Dolcissimo, mi fai molta tenerezza quando affermi ” penso che la scomparsa (presunta e poi dirò perché) delle materie umanistiche sia addebitabile a scuole di pensiero aristocratiche, prime fra tutte quelle marxiste “. Un tale profondissimo pensiero si commenta da solo.

  • Tenerone Dolcissimo

    Gaetano 9 ottobre 2014 alle 13:32
    Gli USA conoscono piu crisi di noi, ma ne escono sempre e velocemente. Gli italiani non sono fatti per essere liberali. Hanno bisogno di un padrone da servire. Salvo poi appenderlo a piazzale Loreto.

  • Penso che il discorso sulle difficoltà delle materie umanistiche nel rinnovarsi riguardi l’ambito della ricerca, insomma il mondo accademico, ma che questo poco intacchi la percezione che di esse si ha nella società e nel mercato del lavoro. Infatti credo che lo sviluppo disciplinare e la sua ricaduta sulla società esterna percorrano binari diversi. Il neoliberismo, il dogma dell’utilità e del guadagno, il dominio della tecnica, hanno ridotto la cultura umanistica a residuo di un passato in rapido disgregamento. Qualcosa di cui non c’è più bisogno, più un intralcio che altro. Insomma anche se fosse un mondo accademicamente vitale, ricco di spunti e analisi sferzanti, ciò non farebbe aumentare il numero di studenti perché all’esterno di quelle quattro mura si tratterebbe in ogni caso di competenze non spendibili sul mercato, perché destinate a non “produrre” niente di tangibile, per quanto profonde e originali…

  • Più che un problema di integrazione, per quanto gli “umanisti” si diano la zappa sui piedi, il problema è gerarchico. Infatti per capire il significato di “economia” è necessaria almeno una stringatissima analisi etimologica: οἶκος “casa” (intendendo la realtà allargata a possedimenti e schiavi della domus del mondo classico)e νόμος “legge”. Ma le norme che devono regolare la buona amministrazione della casa che fine hanno? Ecco che la risposta rimanda ad un terreno di pensiero umanistico.

  • aldo, nessuno creda che il sapere umanistico troverà salvezza nelle E-scienze, ansi come Morozov afferma vi è un pericolo maggiore come nei comportamenti dei big data</b a cui si applica(nell’articolo di morozov cercate predictive). La riflessione, come la preghiera sono pratiche da condividere con chi è partecipe e la comprensione diventa una componente personale come la fede ;D.
    “Servirebbero anche cose minime…vuote?” intendi che ci vuole un po’ di determinazione da parte delle autorità?

    @Gianluca
    non sono tanto d’accordo con te, non consideri il mercato della musica(concerti, dischi-files, insegnamento, ecc..), ma nel mondo della programmazione una formazione filosofica aiuta molto di più di una formazione tecnica nel gestire e sviluppare le piattaforme, la comprensione dei processi astratti è facilitata dalla materia[ la logica informatica è una branchia del mondo filosofico]. Manca l’originalità, bhe! siamo in crisi ci sta che sia uno degli effetti ;D.

  • Tenerone Dolcissimo

    @ mario fragnito
    Mai sentito parlare di NOMENKLATURA??????
    Mai sentito parlare di elite rivoluzionaria che guida il popolo in attesa della dittatura del proletariato???
    E’ proprio vero che la mancanza di cultura umanistica fa disastri. Mi accorgo in te che gli studi storici sono proprio negletti.
    Cordiali saluti

  • Pierluigi Tarantini

    Caro Aldo,
    apprezzo la riflessione di cui il post è frutto e, tuttavia, non ne condivido lo svolgimento.
    La crisi del sapere umanistico mi sembra riconducibile al neo liberismo in maniera tanto marginale da poter essere trascurabile.
    Non è certo il pensiero neoliberista ad aver dato all’economia il ruolo che ha sempre avuto.
    E certo non è possibile ricondurre al neo liberismo l’affermazione del modello americano.
    Basti ricordare Tu vuò fa l’americano per rendersi conto quanto risalenti (1956)siano gli esordi di tale affermazione frutto, peraltro, proprio di quell’interdipendenza fra le sfere politiche, economiche, militare, finanziaria della quale tu stesso auspichi l’analisi.

    Concordo con la definizione che dai (stucchevole) della rivendicazione del ruolo del sapere inutile e penso che tale atteggiamento sia derivato in certa misura dal conformismo in cui degenerò l’egemonia culturale.
    Quanto alle passioni politiche, esse, lungi dal costituire l’unico vero stimolo alla ricerca, troppo spesso hanno costituito l’alibi alla rendita di posizione degli intellettuali autonomi dei nostri tempi che
    sentono con “spirito di corpo” la loro “qualifica”.

    Quanto all’opera di mediazione e di traduzione culturale di cui sottolinei la necessità spero non sia la versione 2.0 del relativismo culturale.
    Certo che com’è andata in Europa non è facilmente replicabile in ogni contesto.
    Ciò perchè le idee di libertè, egalitè, fraternitè non appartengono all’India delle caste o, se vuoi, perchè in Cina, in cinquemila anni di storia, non è stato coniato un termine che esprimesse il concetto di democrazia.
    O, ancora, perchè qualcun altro non ha ancora elaborato l’idea della libertà di e dalla religione?
    Non sta andando così?
    Per fortuna siamo in Europa.

  • Ho lavorato in Cina che con la sua “rivoluzione culturale” è all’avanguardia della dimenticanza di una culutra umanistica. L’unica cultura sembra quella dell’apprendimento della lingua Inghlese. Si vedano le librerie cinesi ove più della mentà dei libri sembrano essere connessi con l’apprendimento dell’inghlese e una spoveratina di letteratura inghlese.
    Ci troviamo quindi in una corrente di sinizzazione globale, senza imparare il cinese e la cultura chinese ma soltanto il pragmatismo esacerbato ivi impiantato da Dewy e dalla miscela capitalistica inghlese con il pragmatismo cinese.

  • Nonostante il seriosissimo articolo e i commenti altrettanto seriosi, a me l’articolo ha suscitato solo una domanda: Aldo, ma stai pensando all’intellettuale organico gramsciano o stai aspettando Hari Seldon e la sua psicostoria?

  • Professore, ricordo una sua lezione in mp3, purtroppo non ritrovo il link, in cui parlava dello sviluppo occidentale e dell’esportazione del modello di progresso in Giappone a fine XIX secolo come caso classico per dimostrare che la cifra del modello di sviluppo occidentale non é dato dalla cultura, dai valori occidentali etc ma prevalentemente dal progresso di tipo tecnologico che ci pone, ancora oggi, in una posizione di “predominio” rispetto ad altri modelli socio-culturali. Per farla breve, non riusciamo ad esportare i valori culturali occidentali ovunque (l’islamismo docet) ma possiamo esportare lo smartphone od il tablet ovunque, ammesso che ci sia appunto la rete, perché nessun popolo può opporsi. La cifra dell’Occidente é la scienza tecnica (che appunto si può innestare e svilupparsi anche in usa società con valori socio culturali diversi o poco sviluppati, secondo i nostri valori). Forse un po’ di spazio rimane per l’economia, ma relativamente poco. Credo invece che possano salvarsi le scienze mediche, la neurobiologia. Per esempio, leggevo l’altro giorno della ricerca presso il King’s College di Londra della capacità scolastica che sarebbe basata su fattori genetici. Aldilà della notizia, vero o falsa che sia, se fosse “scintificamente validato” nel tempo questo elemento, minerebbe uno dei capisaldi della cultura umanistica occidentale degli ultimi secoli.

  • Non è esatto attribuire solo al pensiero liberale/liberista, la demonia attuale dell’economia imperversante.Anche Karl Marx sosteneva che l’economia è il nostro futuro.Mi piace ricordare che, ad esempio per scendere dall’astratto al concreto, vi fu una generazione di padri liberali, del tipo del presidente della repubblica Luigi Einaudi, che misero al mondo una generazione di figli, tutti rigorosamente marxisti, del tipo di Giulio Einaudi. Vi fu e vi è un cordone ombelicale, mai reciso tra liberalismo e marxismo, entrambi mostri partoriti dal mondo moderno.Mondo che è fuoriuscito dalla vagina deicida-massonica, che ha partorito tutti i virus, tutti i bacteri e tutte le infezioni possibili. Il lievito fecale è questo:produci,consuma e crepa;ll bipide umano ridotto a un puro tubo digerente, che mangia,defeca e si riproduce.Amen.

  • Professore, un consiglio spassionato: scriva di più sull’intelligence, quello è un campo nel quale è capace di dire cose molto intelligenti. Io capisco che per un comunista sia dura vivere nel contesto attuale, ma non si lasci andare a questi sfoghi apocalittici, affronti la sconfitta con più dignità.

  • Non condivido affatto le conclusioni del post del Sig. Maccari. Ma il ragionamento che muove é corretto. Il liberalismo, il socialismo, financo il comunismo occidentale, hanno una stessa matrice. Partono dall’uomo, dall’umano, approdando poi a diversi soluzioni su cose é bene per l’umano. Ma sono per l’appunto espressione della cultura umanistica. Per fare una comparazione grezza, come dire il cattolicesimo, il protestantesimo, la chiesa greco-ortodossa, derivano comunque dalla cultura cristiana. Poi ci sono altre religioni. Il capitalismo é altro. Certamente nasce e si propaga nei paesi di cultura umanistica ma é un “format” di gestione economico-finanziaria, per usare un espressione comunque, che può essere applicato ovunque. La cultura occidentale, liberale, socialista, etc.. ha forse tentato di umanizzarlo, in parte riuscendovi

  • PS Per la comprensione del capitalismo, proprio in un ottica liberale per pradosso, é molto più interessante il pensiero marxista di quanto non lo sia quello liberista, che non ha affatto una matrice economica “adeguata” per comprenderne il funzionamento in termini macroeconomici

  • Gent. Aldo Giannuli,

    concordo sulla ipotesi che il neoliberismo walrasiano sia una delle cause essenziali della crisi della cultura umanistica, non la sola però.

    Osservando l’altra faccia della medaglia io penso all’autodistruzione della cultura storica divulgata e diffusa, gestita dalla nomenklatura universitaria in alto e appaltata in basso a pseudo istituti di pseudo ricerca e pseudo didattica al seguito degli assessorati culturali degli Enti locali, gestita dai loro zelanti turiferari e chierichetti. La storia importante si è ridotta per i ragazzi- io insegno in un Liceo- a uno due avvenimenti chiave che tutti sappiamo quali sono secondo la vulgata corrente.

    Risultato: provare a chiedere ad uno studente di diciotto anni quali eventi e fenomeni positivi si possono riscontrare nelle vicende umane da Adamo ed Eva in poi. La risposta è sorprendente: ….. quasi niente, se si esclude la rivoluzione industriale oppure qualche scoperta scientifica… Potremmo magari periodizzare diversamente la storia: mettere come data spartiacque la semina del fagiolo se non proprio la scoperta della zappa…..Incredibile qualche anno fa c’era qualcuno che voleva proporre qualcosa del genere ( per gli istituti professionali soltanto però…).

    Ovviamente l’abbandono dellas storia divulgata è connessa anche ad altro…..ma di questo un’altra volta. su questo sto scrivendo un lungo testo.

    Umberto Baldocchi

    Lucca

  • “Il lievito fecale è questo:produci,consuma e crepa;ll bipide umano ridotto a un puro tubo digerente, che mangia,defeca e si riproduce.”

    sta parlando dell’uomo di oggi o di quello che costituiva il 99% della popolazione mondiale fino a 50 anni fa, e il 90% anche nei paesi “sviluppati” fino a un secolo fa? Perchè quello questa vita la faceva davvero:

    -lavora 20 ore al giorno per non produrre nemmeno quello che basta per sopravvivere,
    – riproduciti come un coniglio sperando che su 10 figli almeno 2 o 3 arrivino all’età per poter figliare come conigli a loro volta,
    – crepa a 40 anni di malattie derivate da una vita vissuta nella sporcizia e nella fame appena il raccolto va male

  • @Giovanni
    Credo che la sua visione della vita quotidiana delle generazioni passate sia sbagliata, direi addirittura caricaturale.
    Per quanto possa apparirle impossibile, all’uomo non è mai bastato sopravvivere ingerendo le calorie necessarie al sostentamento quotidiano.
    Basterebbero i ritrovamenti di interesse archeologico che mostrano nell’uomo un’esigenza insopprimibile di superare la quotidianità, anche scolpendo la roccia delel grotte con strumenti di fortuna.
    E’ poi significativo che lei non parli del presente, che poi è una cosa ben strana quando si voglia operare un paragone.
    Io direi che quel che c’è di nuovo oggi è innanzitutto una dimensione quantitativa. Una volta si lavorava dall’alba al tramonto per assicurare alla propria famiglia lo stretto necessario per sopravvivere, oggi magari lo si fa (quando la crisi non ti abbia ridotto senza lavoro) per assicurare l’acquisto di merce del tutto superflua. Da questo punto di vista, non vedo dove stia il cambiamento.
    Eppure un cambiamento in effetti c’è, ed è che i bisogni culturali della gente sono anch’essi diventati semplicemente un bene di consumo. Si crea così la più formidabile società omologata della storia dell’umanità, la forma più subdola e totale di schiavitù.

  • ” oggi magari lo si fa (quando la crisi non ti abbia ridotto senza lavoro) per assicurare l’acquisto di merce del tutto superflua.”
    e l’idea che l’avrebbero fatto anche nella preistoria e fino a un secolo fa, se solo le condizioni produttive avessero permesso di lavorare la terra un’ora al giorno per avere di che mangiare senza problemi, e passre il resto del tempo a fare altro, non ti sfiora?
    Guarda caso, chi non zappava la terra (nobili e padroni delle terre) la merce del tutto superflua la comprava anche millenni fa…

  • Giovanni è l’homo oeconomicus in tutte le epoche storiche, che io prendo di mira.Ma mai come oggi la massa di bipedi umani, è per la maggior parte costituita da tubi digerenti, in cui il cruccio principale è per l’appunto l’orizzonte economico e quindi:mangiare,defecare,riprodursi.Sono solo le elite di bipedi superiori, che sono sempre una esigua minoranza ovunque, costituita da santi,navigatori,poeti,artisti,eroi,che sono il lievito che fa crescere il tubo digerente e lo nobilita, dando un significato superiore e migliore alla vita e alla civiltà umana.Aristocrazia (nel senso etimologico del termine)deve essere il nostro faro, la nostra bussola.”Navigare necesse est,vivere non est necessere”. (Navigare è necessario, vivere non è necessario).Amen.

  • @Tenerone Dolcissimo. Il marxismo per poterlo criticare, bisogerebbe averlo almeno un pochino studiato. Ebbene Marx, proponendo una società comunista che sarebbe succeduta al capitalismo, la teorizzava e la immaginava priva di ogni qualsivoglia struttura statuale e quindi di ogni casta burocratica. Che poi l’ex URSS, un paese a capitalismo di stato, sia stata spacciata per comunista è, alla luce del pensiero marxiano, un’emerita aberrazione. Ma vedo, con costernazione, che questa aberrazione ha fatto molti proseliti che criticano il marxismo solo per sentito dire.

  • Condivido appieno Professor Giannuli! Non se ne può più di una classe di pseudo intellettuali totalmente avulsa dalla realtà che si muove al di fuori del proprio mondo, sempre più disperatamente attaccata ad anacronistiche ‘incrostazioni’ ideologiche, che producono ‘esclusivismo elitario’ (per non dire snobismo…) piuttosto che inclusività del sapere umano. Soprattutto, l’ostinata ricerca della lontananza dalle dinamiche economiche che dominano il mondo ha fatto di questa classe di intellettuali una categoria alla continua ricerca di narrazioni che non sono più in grado di rappresentare il mondo del sapere umanistico. E fa bene, Professore, a sottolineare l’importanza della variabile culturale (“sia noi che i cinesi, gli indiani o gli egiziani abbiamo il concetto di nazione, ma siamo sicuri di dire tutti la stessa cosa?”), senza comprendere la quale – soprattutto in un mondo globalizzato come quello attuale – nessuna credibile lettura universalistica potrà rappresentare, o almeno descrivere, la realtà. Se ne sono accorti da un po’ di tempo, invece, alcuni paesi anglosassoni e scandinavi, dove i settori dell’economia e del sapere (per lo più università private) hanno preso a dialogare tra loro per fornire nuovi strumenti di analisi. In particolare alcune scienze sociali (l’antropologia e la sociologia anzitutto) in quei paesi hanno ben compreso l’importanza delle loro teorie, dei metodi e delle competenze per analizzare dinamiche appartenenti a sfere esterne all’ambito propriamente accademico, dando così un grande contributo allo sviluppo di nuovi paradigmi anche all’interno delle stesse dinamiche di mercato. Ciò ha inoltre favorito il nascere di nuove professioni proprio all’interno di quei settori delle scienze sociali che prima sfornavano talenti nell’ambito della ricerca sociale, ma che per lo più erano destinati alle liste di disoccupazione. Chi conosce il fenomeno sa di cosa parlo: in quei paesi (Stati Uniti, Gran Bretagna, Olanda, Germania, Danimarca, Svezia, Norvegia etc.) ora tutte le grandi aziende, le multinazionali, le maggiori istituzioni pubbliche, sono alla ricerca di antropologi e sociologi da assumere. Senza considerare che l’accesso di umanisti all’interno delle sfere del business e del mercato (ma anche della politica e delle istituzioni), da quello che ho potuto osservare nella mia esperienza, migliora le stesse dinamiche all’interno di quegli ambienti, talvolta umanizzandole. Solo nel nostro Paese (e in generale nel Sud dell’Europa) a quanto pare non si conosce il fenomeno e quando qualcuno ne parla le reazioni della classe di pseudo-intellettuali (per lo più cattedratici del sapere umanistico) si mostra in tutto il suo snobismo e immobilismo. Ha proprio ragione Professore – e fa piacere che una simile analisi arrivi proprio dal mondo universitario a cui lei pure appartiene – “nelle nostre università si respira un’aria viziata perché da troppo tempo non si aprono le finestre”.!

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