La crisi del sapere umanistico e la guerra al marxismo.
Con estremo piacere ricevo e pubblico questo contributo di Luigi Vergallo, giovane e brillante storico dell’Università di Milano, che prende parte al dibattito sulla crisi del sapere umanistico su cui ho scritto alcuni giorni fa. Un vivo ringraziamento a Luigi e buona lettura!
A.G.
Intervengo volentieri nel dibattito che Aldo Giannuli ha innescato pubblicando sul suo sito l’articolo “La crisi del sapere umanistico”. Lo faccio ripescando (talvolta così come erano) alcune riflessioni da me in parte già svolte a margine dei lavori che Aurelio Macchioro aveva dedicato alle discipline umanistiche e, in un senso più circoscritto, a quelle di carattere storico. Lo faccio per contribuire a un dibattito che è vivo da tempo all’interno di quella Associazione Lapsus della cui esperienza sono orgoglioso di fare parte – mi si consenta di dire – soprattutto in virtù della tenacia dei giovani studenti e ricercatori che dell’associazione fanno parte. Entro subito a gamba (forse) un po’ tesa su quanto Giannuli scrive a proposito di un neo-liberismo che avrebbe “prodotto una vistosa regressione culturale” delegittimando “ogni pensiero che non fosse quello liberista-liberale”. Aldo Giannuli ha ovviamente ragione, ma credo che la tutto sommato fragile costruzione teorica di questo pensiero liberista attualmente dominante nulla avrebbe potuto senza il masochistico e colpevole processo di auto-demolizione che la sinistra post-ideologica – che era uscita dall’orgia (invero così primonovecentesca) degli anni novanta – ha messo in campo nel tentativo di costruire una left dei “diritti” che fosse finalmente, soltanto per loro, libera e moderna: all’insegna, più che dell’interclassismo, addirittura di un aclassismo risultato devastante soprattutto in termini concettuali.
Più interessante appare invece il tentativo di decifrare il senso civile, ma credo anche di progetto, di questa discussione. Trovo estremamente utile il confronto che Giannuli costantemente propone fra le discipline umanistiche da una parte e l’economia dall’altra, pur non condividendo appieno (ma capisco che per Giannuli si tratta probabilmente di una scissione strumentale) la sottrazione che ne risulta dell’economia dal campo delle discipline storiche appunto. Penso di potere ancora affermare, secondo l’esempio di Aurelio Macchioro, che la “teoreticità della scienza economica ha una sua storia e storiografia”, cioè è essa stessa suscettibile di diacronismo, ciò da cui sono infatti derivate due storiografie particolari e diverse fra loro. Una storia del pensiero economico – scriveva sempre Macchioro – “più disponibile ad accettare i nessi fra le forme di teorizzazione e gli eventi di storia civile e sociale” e una storia dell’analisi economica più lontana da implicazioni nei fatti di storia civile. Entrambe queste storiografie “non possono prescindere dalle vicende di storia effettiva, vicende dalle quali una storia di forme analitiche tenta il più possibile di rimanere esterna”. Una storia, invece, di pensiero è “più disponibile ad accettare i nessi fra le forme di teorizzazione e gli eventi di storia civile e sociale”. Questa è la scissione che si è davvero compiuta.
Se la storia non è solo storiografia e non è nemmeno semplice raccolta e interpretazione di documenti, e se la storia del pensiero (anche economico) è naturalmente densa – come sopra – di implicazioni con la storia civile, e ancora se è vero che la storia appare sempre più un misto di congruenze e incongruenze e dunque non si può fare a meno della ricerca storica “per tentare di districare fra le une e le altre”, allora è altrettanto sensato ritenere che non si possa fare storia – come Macchioro si chiedeva e chiedeva ai suoi lettori – “senza scansioni e senza quella critica dell’economia politica” oggi andata perduta.
La storia della contemporaneità presenta in effetti questa incongruenza. La cosa più grave è rappresentata dalla totale rinuncia a categorie e strumenti di analisi che – in una fase storica nella quale piovono “80 euro” per tutti – apparirebbero ancora estremamente utili (si pensi banalmente a quanto potrebbe aiutare poter parlare di “salario reale” o “salario sociale” o meglio ancora di “salario reale sociale” senza esser presi per pazzi): si registra una crescente incapacità di affrontare nessi che poteva invece affrontare senza grossi problemi la generazione precedente alla nostra. E non si tratta tanto della conseguenza delle diverse specializzazioni, ma semmai di una eccessiva specializzazione – come ricorda anche Kristian Tarussio nel suo scritto “Il futuro delle scienze umanistiche” – che meglio andrebbe detta parcellizzazione.
Sia chiaro: ormai non è più esclusivamente il marxismo che finisce in soffitta o finisce dilaniato dai diritti e dai pluralismi. Si tratta proprio, invece, dello smarrimento di un bagaglio culturale – e arrivo alla parte più interessante e condivisibile della riflessione di Giannuli – che sappia attraversare le discipline – le scienze storiche, tra cui l’economia – perché fornito di solidi strumenti di base. Ecco perché la sensazione è che la crisi delle discipline umanistiche, di cui stiamo parlando, sia semplicemente la forma assunta da un abbassamento culturale che purtroppo l’istituzione Stato sembra intenzionata a rendere sempre più dolorosa e sensibile.
Ecco perché è sempre più importante “amare le cose difficili”. Ecco perché sono ancora preziose certe figure di intellettuali capaci di fornire esempi “diversi”. Intellettuali, scriveva Macchioro, che paiono sempre destinati a perdere la voce proprio nel momento in cui la crisi esplode e la “battaglia” infuria. Di Labriola Macchioro scriveva: “Ovviamente Labriola sta fra i perdenti della storia etico-civile: il marginalismo trionferà, trionferà l’intersoggettivismo, trionferà il marxismo senza valore-lavoro di Graziadei, ecc.”.
Se non si vuole rassegnarsi al pessimismo una strada utile è forse quella – come scriveva Macchioro – di ostinarsi a procedere per prese di significanza e – “pur di evitare il «tutto dipende da tutto»” e, dico io, il pensiero debole – per scansioni. Significanze “con cui dissentire per altre significanze o consentire, visto il voler evitare il nudo continuismo” o appunto quel “tutto dipende da tutto” che è “il più potente strumento di incomprensione storica”. Del centenario lavoro di Aurelio Macchioro voglio dunque rilanciare quest’invito, come dire, a “starci dentro”, nella narrazione storica, alla difficile ricerca di quanto può aiutare a discernere fra le congruenze e le numerose incongruenze. Ciò che rende il mestiere di storico così difficile e così affascinante, ma ancora così profondamente cruciale.
Luigi Vergallo
Assegnista di ricerca
Dipartimento di Studi Storici
Università degli Studi di Milano
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