I nuovi termini del problema alimentare.

Come è intuitivo, la soddisfazione dei bisogni alimentari della popolazione ha sempre rappresentato il principale problema della coesione sociale: le carestie si sono sempre accompagnate a rivolte popolari, spesso ad epidemie per lo stato di denutrizione che rende più deboli rispetto alle aggressioni batteriche, all’aumento di reati ecc.

Ed ovviamente ogni potere politico ha sempre avuto in quello alimentare il suo principale problema, che, però, era essenzialmente un problema interno. Infatti, sino a pochi decenni fa, il consumo alimentare era coperto per la maggior parte dalla produzione locale, l’import export di generi alimentari era limitato ad alcune particolari produzioni legate a condizioni climatiche ed ambientali.

Ad esempio Russia, Stati Uniti, Argentina, Francia e pochi altri paesi rappresentavano la maggior parte di produzione di cereali, ma le esportazioni, in buona parte, costituivano una integrazione alla produzione locale di chi importava, ma solo raramente un paese dipendeva in toto da queste importazioni. Ne conseguiva che il cattivo raccolto in uno o pochi paesi avrebbe avuto perturbazioni nel prezzo dei cereali solo in un numero limitato di paesi.

Da circa mezzo secolo (ed in particolare dai primi anni novanta) la situazione è radicalmente cambiata: per effetto degli accordi sul libero scambio, del basso costo dei trasporti marittimi, delle tecniche di refrigerazione, del gigantismo delle reti distributive, oggi la maggior parte dei prodotti alimentari è di importazione ed i nostri supermercati sono pieni di aglio cinese, uva cilena, carne argentina, pesce vietnamita, pompelmi israeliani, per non dire di caffè, cacao, the eccetera. Questo muta radicalmente i termini del problema.

In primo luogo questo ha accentuato la spinta alla concentrazione delle culture in un numero ristretto di centri e, di conseguenza ha aumentato il grado di interdipendenza dei vari paesi. Ad esempio, nel 2010, la concomitanza fra gli incendi dei campi di grano in Russia, i cattivi raccolti in Francia e Canada e la diffusione della Puccinia Gramanis in Africa e poi via via sino in Pakistan provocò una impennata dei prezzi dei cereali la cui ricaduta finale furono i mori di piazza della primavera araba. Allo stesso modo, la guerra commerciale fra Usa e Cina minaccia in particolare il mercato della soja: la Cina assorbe oltre un terzo della produzione di soja degli Usa che usa in particolare per l’allevamento di maiali (che forniscono la carne più consumata in Cina). Per cui gli agricoltori Usa corrono il rischio di una brutale caduta delle esportazioni, ma la Cina potrebbe avere un contraccolpo piuttosto pesante sul prezzo degli alimentari.

Per quanto possa sembrare paradossale, nell’epoca che registra una produzione di generi alimentari come non mai nel passato, quegli stessi beni diventano una delle principali cause di crisi geopolitiche. Ad esempio, caffè e cacao sono prodotti di Africa ed America Latina, cui l’Occidente ha sempre attinto per i suoi bisogni, ma non era mai accaduta una guerra esplicitamente per una di queste materie prime, è invece accaduto nel 2010, quando i francesi irruppero in Costa d’Avorio, deponendo il presidente Laurent Gbagbo, reo di aver portato ad un eccessivo rincaro del cacao (di cui il paese era uno dei massimi produttori mondiali) che minacciava l’industria dolciaria francese e belga.

Ed è sempre per la ragione di controllare le fonti di approvvigionamento alimentare che ha preso avvio la pratica del land grabbing, per cui i paesi finanziari più forti (fra gli altri Usa, Cina, Russia, Corea del sud, Francia, Giappone) acquistano spazi di terra sempre più vasti in Africa per appropriarsi delle rispettive produzione agricole così sottraendole alle popolazioni locali. Sono questi i nuovi termini della questione alimentare con cui dobbiamo confrontarci.

Aldo Giannuli

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