Diavolo d’un greco, paga i debiti coi soldi del creditore
Di Lamberto Aliberti. La storia. I primi di maggio sembrano ripetere i primi di aprile (vedi il mio pezzo precedente). Per il 12 ci sono da rimborsare 750 milioni di euro all’IMF, un 50% in più della tranche precedente. E cominciano a girare le stesse voci: “Non ce la faranno mai. Sarà default”. Invece va più liscia di prima: saldo intero, in anticipo di un giorno. Di più, ci viene fatto sapere, stavolta, come hanno fatto: 650 sono stati pagati coi diritti speciali di prelievo (SDR), detenuti presso lo stesso istituto di Washington, che avrebbe acconsentito, prendendo atto della grave crisi di liquidità ellenica, con l’impegno (lo afferma Varoufakis) di un rimborso in poche settimane. Un capolavoro degno di entrare in prima linea nella letteratura delle manovre finanziarie spericolate: pagare il debito coi soldi del creditore.
Intendiamoci nulla di illecito. I Diritti Speciali di Prelievo sono valori (unità di conto, che riflettono, secondo pesi differenti, il valore di dollaro, euro, yen e sterlina). Sono determinati e gestiti dal Fondo Monetario, che li distribuisce tra i paesi membri, in proporzione al loro peso nel governo dell’IMF. Funzionano da riserva negli scambi internazionali pubblici, come si fa con l’oro e si faceva col dollaro, a garanzia contro le svalutazioni o per fronteggiare crisi di liquidità, com’è avvenuto col 2009, quando i diritti sono stati portati a 204 miliardi dai precedenti 22 scarsi. Dunque non sono una moneta di per sé. Però possono essere prelevati. Anzi, lo fanno abitualmente i paesi con economie deboli per evitare l’emarginazione. Quelli avanzati se ne guardano bene. Un caso come la Grecia non si ricorda. Oltretutto l’operazione ha quasi totalmente svuotato la propria quota del fondo. A fine aprile infatti ammontava a circa 600 milioni, dopo un prelievo dello scorso novembre, che aveva già ridotto, senza ricostituirlo, l’originale ammontare di 985m.
Nulla d’illecito, lo ribadiamo. Una manovra disperata, sì. Che va oltre l’immagine che abbiamo usato l’altra volta: “rompere il salvadanaio” per diventare piuttosto un “grattare il fondo del barile”, rivelando anzitutto la totale mancanza di fiducia di un creditore del calibro del Fondo Monetario, principale deputato mondiale alla stabilità monetaria. E con quale costrutto? Prima di tutto si viene a pagare un debito, accendendone un altro. “il rimborso dei Diritti avverrà in poche settimane” si è affrettato a giurare Varoufakis. Sancendo così un misfatto finanziario, su cui si viene messi in guardia anche dai testi di economia domestica: pagare un debito a lungo, indebitandosi a breve. Anatema. Senza contare infine che i Diritti, finché detenuti dall’IMF, assicurano cospicui interessi attivi, per i paesi membri. Se prelevatii, gl’interessi diventano passivi e restano altrettanto cospicui.
Insomma, nulla d’illecito, ma quale il senso dell’operazione? Se è vero che il debito sovrano si paga ormai dovunque accendendo un nuovo debito – ed in effetti la Grecia l’ha fatto subito dopo il dramma del Fondo Monetario, il 14 e il 17 aprile saldando, senza battere ciglio la bellezza di 2,4 miliardi di T-bills – farlo col creditore stesso sembra un formalismo inutile. Non si faceva prima prorogando il debito?
La prossima via crucis.
Cosa l’aspetta? Cominciamo con le scadenze di quest’anno.
Sono espresse in milioni di euro (l’importo è tra parentesi). Il colore distingue i creditori:
Rosso, IMF
Blu, T-Bill
Verde, obbligazioni governative
Grigio, altre scadenze, nel caso, le Ferrovie Elleniche.
La concentrazione dei pagamenti nel 2015 è notevole, ma non lo sono per niente i volumi: meno di 29 miliardi (28817m, per l’esattezza), quasi il 10% del debito pubblico, che ha chiuso il 2014 con oltre 315 miliardi. Ma l’aspetto più caratteristico è l’alternanza delle singole cifre, da quelle minime a quelle molto ingenti. Raggruppati con frequenza mensile, gli obblighi di pagamento rivelano meglio come giugno e luglio siano da considerare vere forche caudine.
Se persiste il criterio di pagare i debiti, accendendone altri, si avrà un cumulo notevole, in linea teorica, decisamente alla portata di un’economia pur minore, come quella greca, sul piano pratico, chissà? Forse giocherà ancora la figura dei creditori. Li riproponiamo aggregati.
Il temibile IMF non è il più pesante. Lo sono i T-bills (Treasury Bills), cioè obbligazioni a breve termine, con scadenze da un mese a un anno. Sono il mezzo tipico degli Stati per assicurarsi la liquidità necessaria, a fronte delle spese correnti. È l’unica forma di emissione consentita alla Grecia, dopo i salvataggi da parte dell’Eurogruppo. Sono estremamente cari, perché emessi sotto la pari, dunque inferiori al valore nominale (quello restituito). E per gli altissimi tassi di interesse. Per esempio le emissioni di aprile, a 6 mesi, rendono il 4.3% annuo, da saldare alla scadenza. Vengono di regola acquistati dalle banche, nel caso quasi tutte greche. Quindi alla fin fine, a regolare ogni operazione è la Banca Centrale Europea, che ne ha fissato un tetto, seppure ripetutamente sforato, perché dall’anno scorso i T-bills si sono sempre più usati per pagare altri debiti, a scapito di fondi pensione ed enti locali. Insomma, si è applicato a piene mani la nefasta regola di coprire un debito con un altro, un debito più conveniente con uno più caro, un debito a lungo con uno a breve.
Diciamo quindi che coprire le scadenze prossime venture con i T-bills è non solo estremamente poco rassicurante, anzitutto per il costo, poi perché non si fa che spingere poco più in là un debito maggiorato, per gli interessi e per il capitale, ma anche estremamente azzardato, dato che il tetto dell’indebitamento è già stato ripetutamente toccato e la BCE può ridurlo o abolirlo, magari come arma di pressione per far accettare altri vincoli.
Dunque l’emissione dei T-bills coprirà a fatica se stessa e per pochi mesi. Al massimo la si potrà usare per un debito minimo, come le obbligazioni emesse dalla ferrovie greche. Il problema è ancora il Fondo Monetario, anche perché ai titoli pubblici (government bonds) non si pensa, agosto e settembre sono lontani.
Il giorno del giudizio.
L’incubo ritorna per lo stesso creditore (l’IMF) e ancora per una frazione minima dell’intero importo (301 milioni di euro) in scadenza il 5 giugno. Fiumi di parole, un ginepraio di ipotesi stanno tenendo banco da metà maggio. Al centro l’ineffabile Varoufakis, Ministro delle Finanze. Un giorno afferma “Non pagheremo”. Il giorno dopo si smentisce. La dolce signora Lagarde (IMF) tace. Sullo sfondo intense trattative tra Grecia ed Europa. Ma altro non trapela che un susseguirsi di nulla di fatto. I commentatori si baloccano col concetto di default. Che ci appare scontato. Quando? Tutti d’accordo che sarà presto, ma in parecchi si affannano a dire che non necessariamente sarà subito, lo stesso 5 giugno, in quanto la burocrazia ha i suoi tempi: dalla comunicazione del mancato pagamento, l’IMF invia un sollecito, che decade dopo 15 giorni. Quindi si prende un mese per gli atti esecutivi. In sostanza, 6 settimane passano comunque. Diciamo allora che per metà luglio la Grecia è fallita? Neanche per sogno. La strada potrebbe essere ancora lunga e indefinita. In effetti è data solo facoltà, e non obbligo, al cosiddetto Comitato Salvastati dell’Unione Europea (EFSF, European Financial Stability Facility) di bloccare ogni ulteriore prestito e soprattutto esigere l’immediato saldo di quelli concessi. Le opportunità di fermare la macchina finanziaria sono perciò ancora notevoli. Perché non esperirle, quando la posta in gioco è così alta? Assodato che ci sia interesse alla permanenza della Grecia nell’euro.
Che da una parte è sempre stata affermata. Con estrema energia da parte di Tsipras, coi soliti alti e bassi da Varoufakis, quasi mai però dal partito al potere, Syriza, che sempre più frequentemente, attraverso esponenti di primo piano, richiama il programma, dove si adombra uno scontro frontale con l’EU, nella rinegoziazione del debito, il ridimensionamento del potere della BCE e quant’altro. Per uscirne senza default devono però trovare finanziamenti altrove. Di cui peraltro si è parlato. Per prima la Russia, come anticipo di una pipeline, diretta a tagliar fuori l’Ucraina, per rifornire l’Europa, attraverso la Turchia. La cifra trapelata è di 5.38 miliardi di euro. Niente è però certo. Anzi. Il momento della Russia sul piano finanziario non è affatto prospero. E il progetto non ha suscitato grandi entusiasmi nell’EU, destinataria finale. Però è un’opzione.
Un’altra arriva dalla Cina, da sempre impegnata in colossali iniziative di espansione economica, in questo caso, nel turismo, in terminal petroliferi, in infrastrutture ferroviarie e, soprattutto, nei porti. La principale riguarda il Pireo, da rendere terminale logistico per le merci che transitano attraverso il Canale di Suez. Però misteriosamente, non appena preso il potere, Tsipras ha cancellato l’accordo di vendita, firmato dal predecessore Samaras. Per fare marcia indietro alla fine di marzo, emersi i primi problemi di liquidità, con l’invio di una delegazione a Pechino per la ripresa delle negoziazioni. Cifre non sono state fatte, neanche vaghe, ma non dovrebbero essere bruscolini. Altro non bolle in pentola. Anche se Obama non lesina consigli e moniti ai due contendenti. Che parteggi per i greci e arrivi anche a slacciare i cordoni della borsa sembra tuttavia impensabile, visto il colore un po’ troppo rosso del Governo.
Da parte EU la volontà di un esito senza default e all’interno dell’Euro sembra fuori di dubbio. Senza considerare incentivi astratti, come il prestigio dell’EU, o puramente politici, come il dar forza a movimenti antisistema, che stanno rafforzandosi dovunque, basta guardare il denaro in gioco. Complessivamente il debito della Grecia con l’Unione Europea, direttamente o tramite la BCE è di 260 miliardi circa, pari al 70% dell’intero debito, che si distribuiscono tra i diversi paesi più o meno in proporzione al loro diverso peso economico.
Perderli sarebbe perciò un salasso non privo di conseguenze, soprattutto per chi, come noi, ha un disperato bisogno di investire in una ripresa economica ancora incerta. Sull’indubbio interesse ad evitare il suo fallimento da parte dell’EU, la Grecia ci ha tettato parecchio. Il solito Varoufakis qualche giorno fa andava in giro a proclamare “un’uscita della Grecia dall’euro sarebbe catastrofica”, “l’inizio della fine per il processo (?) della moneta unica”. Ma neanche lui si è mai spinto ad invocare il default. Aleggia lo spettro dell’Argentina, che, nel dicembre 2001 dichiarò la moratoria sul debito dello Stato, congelando il pagamento degli interessi e sospendendo il rimborso del capitale dei propri titoli in scadenza, col risultato di bruciare milioni di risparmiatori nel mondo (tra cui circa 430mila italiani). E di conseguenza, con ben maggiori risorse della Grecia, perdere del tutto la fiducia degli investitori esteri, trascinandosi in una serie di crisi politiche, sociali ed economiche, che sembrano senza fine. Tanto da dichiarare ancora il 31 luglio 2014 un default selettivo non risolto a tutt’oggi.
Insomma, gl’interessi per evitare il giorno del giudizio sembrano prevalenti. Ma su quali basi? È quanto ci ripromettiamo di esaminare presto con uno strumento adeguato: un modello dinamico del default.
Lamberto Aliberti
28 maggio 2015
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