Governo di coalizione progressista in Spagna? Questa volta sembra di sì.

Inaspettatamente, dopo meno di 48 ore dalle elezioni, la Spagna sembra uscita dall’impasse in cui era piombata dopo il voto del 28 aprile. La strada è ancora lunga e impervia, ma l’accordo per “un governo di coalizione progressista” firmato dal leader socialista Pedro Sánchez e da quello di Unidas Podemos Pablo Iglesias ha aperto una nuova fase nella politica spagnola.

Anche perché ciò che a tutti sembrava la strada più naturale in primavera – un accordo di sinistra che guardava all’esempio portoghese – non si era concretizzato per i malintesi tra i due partiti, la poca (o nulla) volontà del PSOE e le tensioni dovute alla crisi catalana, portando al contrario alla ripetizione elettorale. E ancora di più perché in questi ultimi mesi Sánchez aveva virato chiaramente verso il centro, chiedendo l’appoggio della destra ad un esecutivo monocolore socialista e criticando duramente Iglesias.
In molti si stanno domandando com’è stato possibile che un accordo considerato impossibile in estate si sia raggiunto adesso in così poche ore. Cos’è cambiato? La risposta si deve soprattutto ai risultati delle elezioni di questo 10 novembre. Sánchez non ha raggiunto l’obiettivo che si era posto, ossia aumentare i propri consensi e ottenere una maggioranza più solida per poter governare da solo. Al contrario, il PSOE ha perso 700mila voti e 3 deputati, fermandosi a 120 seggi (28%), ben lontanti dalla maggioranza assoluta (176). Unidas Podemos, invece, ha bene o male tenuto, evitando un possibile crollo: seppur ha lasciato per strada 700mila voti e 7 seggi (12,8%, 35 seggi), la gran parte va a Más País, la piattaforma creata da Íñigo Errejón, l’ex numero due del partito figlio degli indignados, che alleato dei valenzani di Compromís porta alle Cortes di Madrid 3 deputati (2,3%). Ossia, le sinistre nel congiunto perdono quasi una decina di seggi, il PSOE non sfonda e Unidas Podemos resiste.

Chi crolla è invece Ciudadanos che perde ben 47 seggi (ne ottiene appena 10 con il 6,8%). Il partito di Albert Rivera, nato come formazione liberal ma sempre più orientato su posizioni di destra dura, era un potenziale alleato del PSOE: nel 2016 Sánchez firmò un accordo di governo con Ciudadanos – che non prosperò per l’opposizione di Podemos – e nell’impasse estiva il leader socialista aveva chiesto un appoggio a Rivera. PSOE e Ciudadanos avrebbero avuto la maggioranza assoluta in parlamento: un governo centrista era, per di più, l’opzione appadrinata da Macron e più amata a Bruxelles. Ma Rivera si negò, schiavo di una strategia suicida: convertirsi nel partito egemonico della destra spagnola, superando un Partido Popular (PP) ai minimi storici.

Il crollo di Ciudadanos si deve essenzialmente al tatticismo, all’aver stretto accordi in ambito regionale e locale con l’estrema destra di Vox e a non aver voluto sbloccare l’impasse politica quando ne aveva la possibilità. Il suo elettorato, poco fidelizzato, ha preferito così ritornare nel seno del PP (20,8%, 89 seggi, +23 rispetto ad aprile) o scegliere la via più radicale a destra, ossia Vox. L’exploit della formazione guidata da Santiago Abascal (15,1%, 52 seggi, +28) si spiega soprattutto per la crisi catalana – le proteste del mese di ottobre a Barcellona hanno favorito una reazione nazionalista spagnola – e la crescente sfiducia nei confronti della politica e dei partiti a causa della ripetizione elettorale. Per di più, PP e Ciudadanos hanno legittimato Vox, comprando parte del suo discorso e dandogli centralità politica.

In sintesi, il fallimento della propria strategia, l’assenza dell’alternativa di Ciudadanos e la crescita dell’ultradestra hanno convinto/obbligato Sánchez a guardare nuovamente a sinistra. E soprattutto a farlo rapidamente per evitare pressioni e tensioni che facessero fallire l’intesa. Iglesias non chiedeva altro da mesi e, se tutto va bene, sarà vicepresidente del nuovo esecutivo di coalizione, il primo per la Spagna dai tempi della Guerra Civile. Come alternativa a Sánchez rimaneva solo la strada della grande coalizione con il PP, ma sarebbe stato un suicidio per i socialisti. Senza contare che i popolari si sarebbero probabilmente negati per non lasciare l’opposizione di destra in mano a Vox.

PSOE e Unidas Podemos sommano, però, 155 seggi: ne mancano 21 per avere la maggioranza assoluta. Dovranno dunque ottenere l’appoggio o almeno l’astensione di diverse formazioni minori in un parlamento frammentato quanto mai in passato. Il sostegno di Más País è dato per scontato, così come la predisposizione dei nazionalisti baschi del PNV, dei galiziani del BNG, dei regionalisti cantabri e della lista locale ¡Teruel Existe!. Ma sarà indispensabile anche l’astensione degli indipendentisti catalani, che hanno lievemente aumentato i propri consensi in queste elezioni, capitalizzando l’indignazione di buona parte della società catalana per la condanna ai leader indipendentisti per i fatti dell’autunno del 2017.
Nell’eterogeneo fronte indipendentista è da escludere l’acquiescenza degli anticapitalisti della CUP e della destra di Junts per Catalunya (JxCAT), la lista capitanata da Bruxelles dall’ex presidente Carles Puigdemont, che difendono una linea intransigente convinti che il “tanto peggio, tanto meglio” sia utile alla loro causa. Chiave saranno dunque i 13 deputati di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), il partito guidato da Oriol Junqueras, condannato a 13 anni di carcere lo scorso 14 ottobre. In estate ERC si era detta favorevole ad appoggiare un esecutivo progressista: ora la situazione è più complessa sia per la condanna ai leader indipendentisti, sia per la costante lotta per l’egemonia politica in Catalogna tra ERC e JxCAT sia per la difficoltà dei partiti indipendentisti a canalizzare le proteste delle ultime settimane. Per di più, ERC ha perso due deputati rispetto ad aprile per aver difeso una linea più pragmatica con Madrid e potrebbero tenersi nei prossimi mesi elezioni regionali anticipate. L’elettoralismo la potrebbe dunque fare da padrone.

La crisi catalana continua dunque ad essere il nodo da sciogliere. Fino a che non si tenterà di affrontarlo seriamente – con il dialogo da entrambe le parti; non con i tribunali o l’unilateralismo – la Spagna non uscirà mai da una vera e propria crisi di sistema. Serve coraggio. Su questo si gioca la possibilità che, dopo Lisbona, anche a Madrid si formi un governo di sinistra che abbia come priorità, come esposto nel testo dell’accordo in dieci punti firmato da Sánchez e Iglesias, le politiche sociali, la lotta alle disuguaglianze e alla precarietà, il lavoro, l’ambiente e il femminismo. Le divergenze e le tensioni tra PSOE e Unidas Podemos non mancheranno – soprattutto sulla Catalogna e sulle politiche economiche e fiscali – ma, per ora, l’importante è che il governo si formi. Il resto verrà poi.

di Steven Forti
Professore presso l’Universitat Autònoma de Barcelona e ricercatore presso l’Instituto de História Contemporânea dell’Universidade Nova de Lisboa.
@StevenForti


Aldo Giannuli

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