Fase politica e nuovo partito della sinistra italiana.
Molto volentieri pubblichiamo questo importante contributo di Franco Astengo, a cui a breve seguirà una approfondita risposta di Aldo Giannuli.
La destrutturazione del sistema
Il tentativo contenuto nella stesura di questo documento è semplicemente quello di raccogliere e riassumere alcune osservazioni svolte nell’arco degli ultimi mesi attorno ai nodi principali che si presentano davanti alla sinistra italiana, in una fase di grande difficoltà politica accentuata dallo svilupparsi di una forte crisi economica, sviluppando anche una proposta di nuova e diversa soggettività politica che, avendo ben presente le necessità dell’oggi e – soprattutto – del delineare un orizzonte per il futuro, sappia raccogliere anche gli elementi di memoria, di storia, di radicamento sociale che non possono essere trascurati nel momento in cui si cerca di riflettere in questa direzione.
I partiti, nei primi anni del nuovo secolo, hanno completato un processo di trasformazione spostandosi dalla societallo Stato, cambiando natura e funzioni rispetto all’originario modello del partito di massa.
Ci troviamo di fronte ad organizzazioni centralizzate, provviste di leadership più orientate verso gli elettori che non verso gli iscritti, ad una membership non in grado di influenzare le scelte interne e poco coesa, ad un modello strachicarchico (a stratificazione gerarchica) di distribuzione del potere interno.
Un processo che si sviluppato attraverso cinque passaggi fondamentali che possiamo così riassumere:
1 una drastica riduzione del bagaglio ideologico
2 un ulteriore rafforzamento dei gruppi dirigenti di vertice
3 una diminuzione del ruolo del singolo membro del partito
4 una minore accentuazione nei riferimenti “di classe”
5 maggiori possibilità di accesso al partito, per i gruppi di interesse.
Inoltre, questo modo d’essere dei partiti, è correlato ad una particolare idea della democrazia, in cui si sottolineano gli aspetti procedurali per la selezione della classe politica.
La democrazia così concepita come un servizio fornito dallo Stato alla società civile, non come limitazione e controllo imposto dalla società civile allo Stato.
Di rilievo la capacità da parte degli elettori, sulla base di un calcolo di convenienze, di scegliere tra un insieme fisso di partiti sulla base dei risultati governativi, più che sulla loro possibilità di intervenire nel processo decisionale.
L’interpretazione delle trasformazioni dei partiti, si trova al centro di un ampio dibattito.
Se tutti concordano sui cambiamenti intervenuti nei rapporti tra politica e partiti, non vi è consenso su come
caratterizzare questo processo di cambiamento (nelle funzioni, nell’organizzazione, nelle tecniche).
Alcuni parlano di “individualizzazione” della vita, altri ancora di riferimento strumentale alla politica.
Complessivamente, comunque, questi approcci condividono l’interpretazione di un crisi delle forme convenzionali dell’azione politica, soprattutto di quella attraverso i partiti politici organizzati.
La presenza dei partiti nella società pare essere sempre più limitata, mentre i leader dei partiti sembrano crescentemente potenti.
La professionalizzazione delle formazioni partitiche, la specializzazione del marketing politico e delle campagne elettorali, la dipendenza crescente dai sondaggi d’opinione per l’elaborazione delle strategie elettorali e per la formazione delle politiche pubbliche, sono i tratti essenziali che hanno modificato natura e funzioni dei partiti nell’Europa contemporanea.
Partiti non più in grado di essere socializzatori e comunicatori politici, ma strumenti di lotta per le cariche pubbliche.
I fenomeni che abbiamo fin qui esaminato sul piano teorico, possono ben essere scrutati efficacemente, analizzando le vicende più recenti che hanno portato ad una rilevante trasformazione del sistema politico italiano.
Esaminiamo allora i punti essenziali di questa trasformazione: la “lunga transizione” che il nostro Paese sta attraversando sembra caratterizzarsi, infatti, per alcuni tratti peculiari:
a) il permanere di una indeterminatezza del punto d’approdo (il passaggio da una democrazia consensuale ad una maggioritaria, tentato negli anni’90, sembra tradursi in una configurazione più composita: una legge elettorale con accentuati tratti proporzionali, cui si accompagna il presidenzialismo “de facto” di Silvio Berlusconi);
b) il riemergere di elementi di lungo periodo (la frattura centro-periferia, che alimenta il dibattito sul federalismo e i successi politici della Lega Nord; la crisi dei partiti storici e dei loro sistemi di mediazione fra istituzioni e società a livello locale).
Entrambi questi elementi sembrano evidenziare come, all’assetto consensuale e all’ancoraggio partitico che avevano garantito il consolidamento democratico in Italia (negli anni ’40-’50) e che sono stati messi in discussione negli anni’70 non sia subentrato un assetto politico consolidato.
Tale condizione dovrebbe indurre una maggiore riflessione sulle strategie dei principali attori politici italiani – e sulle evoluzioni/involuzioni delle culture politiche in Italia, nel corso degli ultimi decenni.
In particolare alcune linee di ricerca paiono meritevoli di approfondimento:
1) Le influenze internazionali. L’Italia è l’unico paese del mondo occidentale che vede il sistema politico destrutturarsi totalmente con la crisi del ’92-’94. Solo nei paesi latino americani ( e ovviamente in termini diversi, nell’Europa dell’Est) è avvenuto un processo analogo. Questo fatto colloca le radici della crisi in una storia di lungo periodo del sistema politico e individua negli anni ’70-’80 la conclusione di un ciclo iniziato nel dopoguerra. Allo stesso tempo avvicina (ovviamente solo sotto alcuni aspetti) il sistema politico italiano ad alcuni modelli partitici più fragili e fortemente condizionati dalle linee della Guerra Fredda. Pertanto l’intreccio nazionale/internazionale è un punto di partenza decisivo, anche se solo nel definire la premessa, dello scenario che ha avviato e determinato la crisi italiana.
2) Le influenze dei media. Le caratteristiche della crisi del’93 sono state assolutamente originali. Nel nostro paese il peso di forze mediatiche ed economiche è sproporzionato rispetto agli altri Paesi e assegna ruoli decisivi a forze esterne al sistema politico (su questo punto è apparsa notevole l’intuizione presente nel documento della cosiddetta “Rinascita Nazionale” elaborato dalla loggia massonica P2 nel 1975). Questo fatto ha implicato una discontinuità con la storia dell’Italia repubblicana ed anche, per alcuni aspetti, della stessa storia dell’Italia liberale. Sono state capovolte gerarchie tradizionali nel rapporto tra sistema politico e forze sociali. Alcuni di questi soggetti sono diventati protagonisti assumendo la leadership o comunque condizionando partiti e coalizioni.
3) Il cambiamento politico-istituzionale. Un cambiamento che ha riguardato tutta l’impalcatura della Repubblica. Il sistema elettorale ha facilitato e accelerato questo cambiamento. Il sistema uninominale (in vigore dal 1994 al 2001) ha consentito l’affermazione di questi nuovi protagonisti e, allo stesso tempo, ha fotografato i rapporti di forza. Inoltre ha consentito a tutte le forze residuali nate dalla frammentazione del 92-94 di giocare una funzione nell’equilibrio delle coalizioni sproporzionata al peso effettivo. La risposta a questo problema, avutasi con l’ulteriore modifica della legge elettorale del 1995, ha ulteriormente aggravato lo stato di cose, riducendo la rappresentatività reale delle forze politiche, ormai ridotte (molto volentieri,dal loro punto di vista) al solo “potere di nomina” e provocando problemi molto seri di vera e propria credibilità per le più importanti istituzioni rappresentative. Al tempo stesso il meccanismo si è trasferito sul piano locale, dove appare sempre meno verticalizzato il rapporto tra centro e periferia: mutato, soprattutto, il ruolo dei vertici istituzionali, Sindaci e Presidenti di Regionale, essenzialmente sul piano politico.
4 I partiti e le coalizioni. Alcuni profili, sotto questo aspetto, si erano già delineati nella fase decisiva 93-94. Il centro-destra era riuscito a raccogliere gran parte del voto e dei dirigenti del vecchio centro-sinistra, trasformandone profilo politico ed ideologico e costruendo una inedita alleanza con Lega ed AN. La leadership di Berlusconi divenne, così il principale elemento di rottura rispetto ai processi consolidati dei vecchi partiti (anche se resta aperto il tema politico e culturale dell’eredità di Craxi e del craxismo). Le caratteristiche del centro-destra sono legate a questa particolare combinazione tra l’ancoraggio territoriale della Lega, la forza carismatica di Berlusconi e la reazione del vecchio centro-sinistra al ’93.
Il centro-sinistra somma elementi pregressi della sinistra cattolica, post-comunista e radicale, proponendo una forza composita nelle varie evoluzioni (Progressisti, Ulivo, Partito Democratico) mantenendo evidente il profilo assunto nel 93-94 (rifiuto della socialdemocrazia, ed è questo un punto da annotare con grande attenzione ai fini del nostro attuale discorso, alleanze con le forze “rivoluzionarie” del ’93, non a caso rappresentate oggi dall’IDV nella quale stanno sia Di Pietro, emblema della magistratura, sia Leoluca Orlando “leader” della cosiddetta “Primavera di Palermo” ed i teorici del superamento del partito di massa, annidati nella redazione di “Micromega”, poi promotori dei “girotondi”).
5 Le culture politiche. Le radici culturali di questo processo sono profonde. Possiamo rintracciare per il centro-destra la questione socialista e quella del vecchio mondo democristiano centrista e doroteo, ostili al compromesso storico “modernizzanti negli anni’80 e grandi sconfitti nel ’93”, ma anche le linee del “berlinguerismo” degli anni’80 formano uno dei nuclei del nuovo centro-sinistra (“questione morale”, neopacifismo). E altri fenomeni che intersecano l’evoluzione delle diverse culture politiche locali quali la personalizzazione (da Craxi a Berlusconi) e la crescita di funzione dei governi locali.
Le elezioni del 2008 come elezioni “critiche” e la lunga “transizione italiana”
Riprendendo il filo più diretto del nostro discorso, partiamo da una valutazione specifica riguardante l’esito delle elezioni politiche del 2008, da cui è partita quella che, davvero, può essere definita come una “nuova fase” della vicenda politica italiana.
Le elezioni italiane del 2008 possono, tranquillamente, essere considerate come “elezioni critiche”.
Nel 1955 Valdimer Orlando Key sul Journal of Politics scrisse un saggio su “A teory of critical elections”, in cui si sosteneva che alcune elezioni, per il carattere innovativo dei risultati e dei blocchi sociali evidenziati, modificano il passato e condizionano il futuro del sistema di riferimento.
Le elezioni italiane del 2008 possono ben essere considerate a questa stregua: non soltanto il loro esito ha sfoltito la rappresentanza in maniera incisiva, eliminando i piccoli partiti dalle aule parlamentari, ma hanno individuato trasferimenti di scelte in importanti settori dell’elettorato.
L’operazione di sfoltimento è stata sostanzialmente concordata dai due maggiori partner del sistema che, sulla base della legge elettorale 270/2005, non hanno acconsentito a coalizioni se non in casi particolari, ma è stato l’elettorato (pur forzato dal cosiddetto “voto utile” derivante dalle citate regole elettorali) che ha funzionato da vera e propria ghigliottina.
C’è ancora da aggiungere come il fronte moderato, che nel 2006 aveva contenuto la sconfitta in una sorta di pareggio instabile al Senato, nel 2008 è riuscito ad articolare un blocco sociale che unisce singolarmente il Nord produttivo ed il Sud assistito, allargando i consensi anche nei settori tradizionalmente di sinistra, mentre il PD ha soltanto soffocato i concorrenti d’area.
La linea di Veltroni, sostanzialmente alternativa al Governo condotto da Prodi, è parsa aver cercato con incisività soltanto la pulizia del proprio settore ed è in questo modo riuscita a limitare i danni formali nelle elezioni politiche, sfruttando l’eliminazione dei cosiddetti “cespugli”.
Si è però preoccupato più di operare una cesura con il passato (sulla base di un confuso modello ideale) che di operare una strategia di trasformazione attenta alle alleanze.
In sostanza il PD ha agito, nel 2008, per liquidare il passato: un passato che, pur andando avanti a cercare di rispondere alla domanda sul punto attuale della “transizione italiana” è tornato, inevitabilmente, a farsi sentire.
Andiamo, dunque, alla domanda più importante: sulla base dell’esito delle elezioni 2008 (sostanzialmente confermato, poi, nelle Europee 2009 e nelle Regionali 2010) può considerarsi in via di conclusione la “transizione infinita” del sistema politico italiano?
E’ possibile che ci si trovi davanti ad un nuovo capitolo della stessa transizione, avviatasi fin dal 1968: in nessun altro ordinamento democratico stabile l’incertezza sugli assetti politici duraturi è durata tanto ed ha inciso in maniera così profonda, con processi di ristrutturazione che durante gli anni ’90 hanno fatto pensare alle convulsioni subite dai paesi gia “socialismo reale”.
La crisi del centro-sinistra organico ha aperto un lungo periodo quarantennale, caratterizzato prima dal tema della mancata integrazione del PCI e, successivamente, dopo la crisi che ha portato alla scomparsa formale di tutti i soggetti politicamente rilevanti del primo periodo della vita repubblicana, dall’esigenza di un riallineamento stabile tra forze che si legittimavano reciprocamente.
L’adozione di meccanismi tendenzialmente maggioritari, nel 1993, si era basata sulla premessa di una omogenizzazione dell’elettorato e del ceto politico.
Negli ultimi 15 anni queste premesse sono state parzialmente smentite da una conflittualità e da una sfiducia reciproca, che ha portato alla persistenza di regole istituzionali contraddittorie, e da un sostanziale rafforzamento di comportamenti oligarchici all’interno di partiti di cartello o personali.
Questo tipo di situazione ha fatto sì che si ponesse il tema (sul quale ritorneremo più avanti) del “resettaggio” della Costituzione repubblicana, non solo nella parte dell’organizzazione, ma soprattutto in quella dei valori.
Il grande problema dello Stato sociale nato nel dopoguerra può essere affrontato, secondo determinati punti di vista, in maniera unilaterale, sulla base della parola d’ordine del federalismo fiscale.
Recenti analisi evidenziano come la trasformazione dei partiti italiani in partiti di cartello ed in partiti personali, abbia ridotto ai minimi termini il partito degli iscritti, con la prevalenza della struttura burocratico-centralizzata a livello nazionale (ormai estremamente leggera) e, in particolare, lo spostamento dell’asse fondamentale nelle mani dei rappresentanti nei collegi parlamentari.
Al di là della classica legge ferrea dell’oligarchia, il definitivo superamento del partito di massa e dello stesso partito pigliatutto e la dipendenza delle formazioni di partito dal finanziamento pubblico e dai rimborsi elettorali fanno sì che gli iscritti vengano considerati dalle leadership di partito come dei noiosi impedimenti.
Una simile situazione può essere sopportata da partiti con alto tasso di carismaticità (il caso della Lega peculiare per la sua solida vetustà, ma diviene esplosivo per formazioni come quelle di sinistra che debbono necessariamente vivere sulla discussione e sul controllo.
Per il Partito Democratico qualcuno potrebbe affermare che lo stesso sia costituito esclusivamente sulla base di elezioni primarie, che primarie non sono mai state (nè per Veltroni, nè per Bersani).
Il processo di fusione dei DS e della Margherita è parso, piuttosto, un episodio di mobilitazione pilotato, in cui la logica della designazione e della spartizione fra componenti ha influito molto.
Lo stesso sforzo di costruzione ed adozione di regole condivise ha portato all’approvazione di documenti che poi non sono stati seguiti in alcun modo.
Ricapitolando, si può affermare, a questo punto che le elezioni del 2008 sono state, senza alcun dubbio, consultazioni critiche, perchè hanno operato un riallineamento intenso e semplificatorio del panorama politico – nazionale, ma la natura contraddittoria e centrifuga del blocco moderato e di quello riformatore rendono ancora lontano l’esito della fase di transizione, tanto più che nell’ordinamento persistono forti ed evidenti deficit di democraticità sia dal punto di vista formale, sia sostanziale: le forme di espressione delle rappresentanze non sono adeguate e richiedono interventi urgenti.
Emerge qui, tutta intera, la debolezza intrinseca del “bipolarismo all’italiana”, che vedremo meglio nel passaggio d’analisi sulla “geografia” politica del Paese.
La dislocazione geografica del consenso
La dislocazione geografica del consenso ha sempre avuto grande importanza nell’analisi del sistema politico italiano e non possiamo certo trascurarla adesso, in questo tentativo di analisi complessiva, confortati anche dagli importanti studi condotti in materia da Ilvo Diamanti, qui citati in alcuni passaggi essenziali.
L’articolazione territoriale degli orientamenti territoriali nel periodo del sistema proporzionale, tra il 1958 ed il 1992, rifletteva fedelmente la simmetria tra società e politica.
Riproduceva, in particolare, le tradizionali fratture prodotte dallo sviluppo territoriale, dalle tradizioni religiose ed ideologiche tra Nord e Sud, fra centro e periferia, fra religione e secolarizzazione, fra sinistra e destra, fra classe operaia e borghesia.
I partiti di massa esprimevano quelle fratture e le alimentavano.
Oggi le fratture sembrano ridimensionate o hanno cambiato segno.
La zona bianca non c’è più. E’ scomparsa prima della DC, che aveva contribuito a fornirle identità e rappresentanza politica.
La sua specificità territoriale però è rimasta, visto che l’area dove per oltre trent’anni si è votato in modo continuo e prevalente per la DC (il Nord-Est e le aree periferiche del Nord) non ha smesso di esprimere un orientamento distinto ed omogeneo. Solo che ha cambiato colore, è diventata verde. Sottolineando attraverso la Lega l’affermarsi di nuove fratture: il localismo opposto al centro del potere economico e del potere politico. Successivamente questa zona ha allargato la propria domanda di rappresentanza anche a Forza Italia. Si è aperta così una fase di relazioni contrastate tra la Lega e Forza Italia (e negli ultimi anni, il Popolo delle Libertà). Alleate e al tempo stesso concorrenti nel medesimo bacino elettorale.
I successi della Lega comunque si rinnovano in momenti particolari, collegati all’insoddisfazione di queste aree nei confronti dello Stato.
La zona bianca, tradizionale base di sostegno alla maggioranza di governo, nella prima fase della nostra storia repubblicana, si è trasformata in area critica e rivendicativa, anche quando governano i suoi principali riferimenti politici, la Lega ed il centrodestra. Come è avvenuto nel 2001 e sta avvenendo adesso.
La zona rossa invece appare più coerente rispetto al passato.
Non ha cambiato geografia, nè rappresentanza. D’altronde la sua struttura economica, fondata sulla piccola impresa, ha continuato a funzionare mentre gli standard del benessere sociale restavano più elevati che altrove.
Inoltre la fiducia nel sistema pubblico e nel governo locale si mantiene alta.
Da ciò la stabilità politica ed elettorale della zona: in altri termini, i partiti di sinistra non garantiscono pilù o stesso grado di identità e integrazione del passato, ma le amministrazioni e gli amministratori locali ne hanno compensato, almeno in parte, il ruolo di rappresentanza a livello politico e territoriale.
Emergono, però segnali di cambiamento confermati da alcuni dati delle elezioni regionali del 2010: si evidenzia un logoramento dei riferimenti politici tradizionali; i partiti di sinistra hanno perduto peso elettorale; si sta affermando la Lega; cresce complessivamente la competitività dei soggetti politici di centrodestra soprattutto nei luoghi in cui la tradizione di sinistra appariva più debole già nel passato (nelle Marche, ma anche in settori delle tradizionali “zone rosse”).
Infine, la crisi dei partiti di massa (soprattutto del PCI) ha reso più difficile il rapporto tra gruppi dirigenti, amministratori e società locale, alimentando così l’insoddisfazione dei cittadini verso la politica anche in quest’area.
Il Mezzogiorno appare diviso ed instabile.
Le regioni insulari, soprattutto la Sicilia, ed il Sud tirrenico si sono sempre orientate a centrodestra e, in particolare, verso Forza Italia. Le altre zone del Centro – Sud (con l’eccezione della Basilicata, coerente con la tradizione moderata di centrosinistra) sono divenute terreno più aperto e competitivo (come la Puglia, dove un intreccio complesso tra società ed economia, ha lasciato spazio ad una forte presa della “personalizzazione della politica” ad orientamento di tipo populistico).
D’altronde quest’area negli anni ’80 – ’90 ha conosciuto una trasformazione socioeconomica profonda quanto differenziata.
Tuttavia negli ultimi anni le tensioni si sono acuite nuovamente insieme al degrado economico e sociale, caratterizzato dalla presenza massiccia dell’illegalità organizzata, in alcune regioni governate dal centrosinistra come Campania e Calabria, adesso passate al centrodestra: a conferma della maggiore fluidità politica del Mezzogiorno.
Nella sostanza si può dire che la geografia politica ed elettorale del Paese è stata profondamente innovata dall’emergere della cosiddetta “Italia azzurra”, che si presenta a “macchia di leopardo” rispetto all’intero territorio nazionale.
Una suddivisione geopolitica molto diversa dal passato per almeno due ragioni.
La differenza tra la zona azzurra e le altre zone geopolitiche riflette due diversi tipi di integrazione:
a) attraverso la partecipazione e la mediazione svolta dalle organizzazioni sociali e degli interessi, come avviene nella zona rossa, ma anche in quella verde
b) attraverso la comunicazione ed il rapporto immediato (nel senso di diretto, “non mediato”) con il leader della zona azzurra. Dove il legame e il “cemento” con il contesto locale sono offerti soprattutto dal ceto politico. Un tessuto di piccoli leader politici, che garantiscono la comunicazione con le reti associative, i gruppi di interesse, le persone. Una rete organizzata che fornisce continuità e consenso, senza però consolidarlo (il che causa, invece, conflitti e tensioni ricorrenti).
Le tradizionali zone politiche dell’Italia repubblicana sono quindi scomparse (quella bianca) o stanno indebolendosi (quella rossa) rispetto al passato, dal punto di vista elettorale, per motivi legati al cambiamento economico -sociale e alle trasformazioni dell’offerta politica.
Per questo è probabile che i colori politici dell’Italia si attenuino e magari cambino ulteriormente, che la scena politica nazionale assuma maggiore importanza di quella territoriale.
D’altronde il rapporto tra politica e territorio è cambiato perchè sono cambiati gli attori politici, che hanno caratterizzato la democrazia italiana nell’età repubblicana (i partiti di massa, DC e PCI esprimevano un legame stretto fra centro e periferia. Erano “nella società, “nel territorio”, e nello Stato o, comunque, nelle istituzioni).
Il processo di decostituzionalizzazione del sistema politico italiano ed una possibile risposta da sinistra
Prendiamo a prestito il titolo della relazione presentata da Luigi Ferrajoli alla riunione nazionale dei Comitati per la Costituzione, svoltasi a Bologna il 4 Giugno scorso, perchè ci pare che riassuma al meglio il tentativo, da destra, come specificheremo in seguito, di chiudere quel processo di transizione sul quale ci stiamo interrogando, al fine di presentare alla sinistra italiana, una proposta di nuova soggettività organizzata.
La crisi del sistema politico che abbiamo cercato, in precedenza, di analizzare in quelli che riteniamo essere i suoi principali aspetti sta provocando quello che, appunto, è stato definito processo di decostituzionalizzzazione del sistema stesso.
Questo processo si manifesta in una progressiva deformazione dell’assetto costituzionale diretta ad introdurre una forma di democrazia plebiscitaria basata sull’onnipotenza della maggioranza e sulla neutralizzazione di quel sistema di limiti, vincoli e controlli che forma la sostanza della democrazia costituzionale.
L’idea elementare alla base di questo processo è che il consenso popolare rappresenti la sola fonte di legittimazione del potere politico e varrebbe, perciò a legittimare ogni abuso e a delegittimare critiche, limiti, controlli.
Di solito questo indebolimento della dimensione costituzionale della nostra democrazia viene interpretato, sia a destra che a sinistra, come un prezzo pagato a un rafforzamento, e al conseguente primato della sua dimensione politica, del potere conferito agli elettori di scegliere di volta, in volta la coalizione di governo: in altre parole, come una riduzione e una svalutazione della legittimazione legale, a favore di una valorizzazione della legittimazione popolare della rappresentanza politica, ottenuta dalla possibilità dell’alternanza resa possibile dal sistema bipolare e dall’aperta rivendicazione dell’onnipotenza della maggioranza.
Le cose, in verità non stanno così.
Dietro la pretesa valorizzazione della rappresentanza politica si nasconde una deformazione profonda delle istituzioni rappresentative: una deformazione responsabile non solo della crisi di una dimensione legale e costituzionale della democrazia, ma anche della tendenziale dissoluzione della sua dimensione politica e rappresentativa.
Stiamo assistendo, in Italia, alla costruzione di un regime personale e illiberale di tipo nuovo, senza precedenti nè confronti nella storia, che è il frutto di molteplici fattori di svuotamento della rappresentanza politica.
Il fattore principale che ha generato lo stato di cose in atto è rappresentato dalla verticalizzazione e personalizzazione della rappresentanza.
Il fenomeno presente in molte altre democrazie, nelle quali la rappresentanza si è venuta sempre più identificando nella persona del Capo dello Stato o del governo e si sono indeboliti o esautorati i Parlamenti.
Ma in Italia il fenomeno ha assunto forme e dimensioni che compromettono alla radice la rappresentanza politica.
In questo senso il nostro sistema politico ha assunto una connotazione apertamente populista, riassumibile nel concetto di onnipotenza del capo quale incarnazione della volontà popolare: si tratta di un concetto che, al tempo stesso, è antirappresentativo e anticostituzionale.
Antirappresentativo perchè nessuna maggioranza e tanto meno il capo della maggioranza può rappresentare la volontà del popolo intero.
Come ha scritto Kelsen “una siffatta volontà collettiva” non esiste, non essendo il popolo “un collettivo unitario omogeneo” e la sua assunzione ideologica serve solo “a mascherare il contrasto di interessi, effettivo e radicale, che si esprime nella realtà dei partiti politici e nella realtà ancor più importante, del conflitto di classe che vi sta dietro”.
La democrazia, ha aggiunto Kelsen, è un regime senza capi, giacchè sempre i capi tendono ad autocelebrarsi come esseri eccezionali e come diretti interpreti della volontà e degli interessi popolari.
L’idea presidenzialistico – maggioritaria che presiede al processo di decostituzionalizzazione del sistema politico italiano a cui stiamo facendo riferimento è anche radicalmente anticostituzionale, dato che ignora i limiti e i vincoli imposti dalla Costituzione ai poteri della maggioranza riproducendo in termini parademocratici, una tentazione antica e pericolosa, che all’origine di tutte le demagogie populiste ed autoritarie: l’opzione per il governo degli uomini, o peggio di un uomo, il capo della maggioranza, contrapposto al governo delle leggi e la conseguente insofferenza per la legalità avvertita come legittimo intralcio all’azione del governo.
Fu proprio questa concezione che fu rinnegata dalla Costituzione del ’48 all’indomani della sconfitta del fascismo, che dopo aver conquistato il potere con mezzi legali, distrusse la democrazia edificando un regime totalitario proprio sull’idea del capo come espressione diretta della volontà popolare.
Di fronte a questo stato di cose, qui riassunto schematicamente nei tratti essenziali, la sinistra ha il dovere di contrapporre una chiara e netta linea istituzionale, partendo dalla riaffermazione di fondo della intangibilità della forma parlamentare: non c’è nessuna investitura diretta di alcuna figura istituzionale a livello centrale. Il Governo continua (e deve continuare) a ricevere la fiducia da Camera e Senato, il Presidente del Consiglio incaricato dal Presidente della Repubblica.
E’ necessario difendere rigorosamente la suddivisione dei poteri ed in particolare, riaffermata la natura parlamentare della nostra Repubblica, l’indipendenza della magistratura, da qualsivoglia ingerenza del potere politico.
Il nodo più controverso riguarda, però la struttura stessa del sistema politico. E’ nostra opinione che la struttura portante del sistema politico debba rimanere, nonostante tutto, formata dai partiti che debbono riprendere un ruolo rispetto alla società ricoprendo un ruolo di “integrazione di massa”, di soggetto “intermedio” di collegamento e non di semplice sede separata meramente garante del mito della governabilità anzi facendosi promotore di un forte rilancio del ruolo dei consessi elettivi a tutti i livelli (sotto questo aspetto debbono essere sottoposti a forte critica sia le “primarie”, sia le elezioni dirette di Sindaci, Presidenti di Provincia e, soprattutto, di Regioni: Regioni che rappresentano il vero buco nero del sistema italiano, non più soggetti legislativi, ma soggetti esclusivamente operanti sul terreno della nomina e della spesa).
Infine, l’equilibrio tra la Prima e la Seconda parte della Costituzione va preservato con grande attenzione, in ragione della piena affermazione dei diritti individuali e collettivi (pensiamo a cosa sta avvenendo, proprio in questi giorni, per quel che riguarda il mondo del lavoro e dell’economia attorno agli articoli 18,41,118).
Ed ancora va sollevata con grande forza la questione della legge elettorale.
L’esperienza di questi anni dovrebbe averci insegnato che, a tutela dell’eguaglianza nel diritto di voto e contro le derive populiste, la sola garanzia è il metodo elettorale proporzionale e il sistema parlamentare.
Sarebbe necessario, a questo punto, un bilancio serio degli effetti reali del bipolarismo.
Il sistema bipolare è un sistema che, artificialmente, nega il pluralismo politico, mortifica i dissensi, offusca le differenze degli interessi rappresentati, semplifica la complessità sociale costringendo gli elettori a schierarsi con una delle parti in conflitto e trasformando le elezioni in una partita nella quale si vince anche solo per un punto.
Questo sistema ha debilitato i partiti, ha allargato il fossato tra ceto politico e società, ha ridotto le competizioni elettorali a guerre di spot tra coalizioni che si contendono un fantomatico “centro” e quindi devono essere tanto più rissose quanto più devono tendere ad omologarsi.
Oggi la scelta bipolare continua ad essere difesa, in Italia, dalla maggioranza delle forze politiche incluse, incredibilmente, le forze della sinistra che ne hanno subito i danni maggiori.
Nella sostanza: la garanzia e la rifondazione della democrazia politico-rappresentativa non solo contrastano ma richiedono la rifondazione e il rafforzamento della democrazia costituzionale con un sistema complesso di garanzie, anzitutto a tutela della rappresentatività del sistema politico.
Quanto più si indebolisce il rapporto di rappresentanza e i rappresentanti si distaccano dalla società tanto più essenziale diventa il paradigma della democrazia costituzionale, cioè il sistema di limiti e vincoli, di separazione tra poteri e incompatibilità, idonei ad impedirne la degenerazione burocratica ed autoritaria.
Crisi economico finanziaria e compromesso socialdemocratico
Il tentativo di analisi che stiamo sviluppando attorno alla realtà della crisi del sistema politico italiano ed alla possibilità di avanzare una proposta per un nuovo soggetto della sinistra d’alternativa, risulterebbe del tutto monco senza alcuni accenni (molto brevi e, di conseguenza, anch’essi del tutto schematici) alla grave crisi economico-finanziaria in atto a livello globale.
La crisi finanziaria e la recessione economica, partita dagli Stati Uniti e propagata dalla globalizzazione al mondo intero, rappresentano un clamoroso fallimento del neoliberismo e delle sue politiche di “deregulation”, ispirate dal culto di un mito chiamato “assoluta libertà del mercato” che è in verità la libertà di una ristretta oligarchia che decide su scala mondiale, la più grande e sconvolgente redistribuzione di capitali, lavoro, risorse.
L’occasione offre una posta alta: l’egemonia culturale e morale nel mondo sviluppato.
Infatti, oggi, di fronte alla rovinosa caduta, forze di destra sono costrette ad adottare programmi ed indirizzi culturali caratteristici della più classica tradizione socialista o socialdemocratica, a partire dall’intervento pubblico in economia.
La sinistra dovrebbe essere capace di leggere la necessità del cambiamento e trovare la forza di proporre un modello di società all’altezza dei tempi, soprattutto per le giovani generazioni.
L’aspetto culturale dell’offensiva capitalistica risiede nell’attacco alla base ideologica del compromesso socialdemocratico che, seguendo Keynes, era favorevole all’intervento pubblico sulla domanda e sulla distribuzione delle risorse.
Il neoliberismo ha respinto nettamente l’interferenza dello Stato sul Mercato in nome della fede indiscussa nella sua capacità di autoregolazione.
Così si è pervenuti alla conquista di una posizione di forza rispetto allo Stato nazionale, mentre si è verificato un intreccio collusivo tra classe politica ed elite capitalistica.
Abbiamo già avuto modo di osservare come le conseguenze economiche e sociali dell’offensiva capitalistica non sono certo quelle promesse dai profeti del neoliberismo, da Friedman a Von Hayek, fino al decretatore della “fine della storia” Francis Fukuyama.
Una crisi di grande portata storica ha, infatti, investito l’economia ed essa rappresenta il segno tangibile di un clamoroso fallimento dell’ideologia (spacciata per “fine delle ideologie”) che ha egemonizzato un ciclo, ormai trentennale.
Negli ultimi trent’anni, infatti, la distanza dei redditi dei più ricchi e quella dei più poveri è diventata enorme: la diseguaglianza è il connotato più caratteristico della fase del capitalismo globalizzato.
Si tratta di una tendenza perversa rispetto al bisogno di coesione sociale.
Queste tendenze si risolvono dunque in una polverizzazione della società, Bauman la chiama liquefazione (la “società liquida”), Marx scriveva “dissolvimento”.
L’indebolimento dei diritti dei cittadini insieme ad un indebolimento della democrazia.
Il libero mercato e la concorrenza spietata fra le imprese hanno spostato l’attenzione sui consumatori e gli investitori invece che sui cittadini portatori di diritti.
Per attrarre i consumatori con prezzi stimolanti, si tagliano i costi: il metodo più semplice è quello di tagliare salari e diritti dei lavoratori.
Un problema nuovo degli ultimi decenni la coesistenza in ogni persona di due modi diversi di porsi di fronte alla società: quello del consumatore e quello del portatore di diritti in una democrazia.
La democrazia e il capitalismo hanno rovesciato il loro rapporto: il capitalismo sopraffà la democrazia.
Non è certo possibile, in questa sede, sviluppare una proposta organica per affrontare questi grandi temi.
Ci limitiamo, allora, ad elencare i nodi critici che hanno caratterizzato lo sviluppo capitalistico degli ultimi decenni e rendono conto, con chiarezza, le sue contraddizioni e i suoi limiti:
1) In questo quadro la società mondiale è economicamente molto più instabile. La liberazione dei movimenti di capitale da ogni regola, oltre a sradicare l’economia dalle radici nazionali, ha prodotto una interminabile serie di terremoti monetari e di recessioni. A livello internazionale ancora in pieno corso una “tempesta perfetta” che mette a repentaglio un intero modello di sviluppo.
2) Le diseguaglianze sociali invece di diminuire sono più pronunciate che nel periodo del “welfare state” e del capitalismo democratico. Si verificata una divaricazione drammatica della distribuzione dei redditi nei paesi in via di sviluppo e un inasprimento delle diseguaglianze nei paesi ricchi, con effetti disgreganti sulla coesione sociale e nel comportamento morale prodotti dalla competitività accesa per soddisfare le gratificazioni individuali.
3 L’inversione delle priorità sociali, che ha portato al declino dei beni collettivi rispetto a quelli privati. I beni sociali fondamentali (salute, sicurezza, ambiente, educazione) che erano al centro dello Stato Sociale, sono ridotti a costi da minimizzare.
4 Il problema della sovranità politica, con lo spostamento delle decisioni strategiche dall’area democratica a quella capitalistica. Lo Stato in gran parte privato della possibilità di definire la sua politica economica in un sistema in cui non ha più senso la distinzione tra il mercato, fondato sulla legge dello scambio, e lo Stato fondato sull’equilibrio della legittimità democratica del potere.
5 La sostenibilità ambientale determinata dalla circostanza incontrovertibile che le risorse naturali non sono di quantità infinita e che le emissioni prodotte dal processo industriale hanno un limite di tollerabilità
6 La fragilità di un sistema basato sull’accumulazione finanziaria di risorse al momento inesistenti, anticipate dall’indebitamento a carico del futuro.
Su quale terreno, allora, collocarci per affrontare questi nodi così intrecciati?
Marx ha dedicato pagine memorabili a descrivere la potenza rivoluzionaria e modernizzatrice del capitalismo e come questo ha travolto le società precedenti, rivelandosi il più grandioso sistema di mobilitazione della ricchezza del mondo sviluppato.
I costruttori di quello che fu definito “il socialismo reale”, dimenticando la lezione di Marx, secondo la quale la società non può saltare nè eliminare per decreto le fasi naturali del suo svolgimento (ogni 14 Luglio ha il suo 18 Brumaio), avevano dato luogo a regimi oppressivi con sistemi dispotici di sviluppo delle forze produttive, snaturando forzatamente le leggi del Capitale analizzate da Marx, in un sistema che intendeva mantenere il modo di accumulazione capitalistico conservando il lavoro salariato, ma abolendo la proprietà privata.
Oggi, nell’affrontare i problemi del nostro tempo, una nuova sinistra italiana (immersa completamente nel quadro internazionale ed in particolare in quello europeo: laddove occorre pensare ancora all’Europa politica) dovrebbe riflettere proprio sul “compromesso socialdemocratico”, accettando in pieno quel terreno che, al momento dello scioglimento del PCI e per precipua responsabilità della presenza di un PSI che aveva smarrito il proprio codice genetico assumendo le vesti di progenitore inconscio dell’attuale centrodestra populistico, non fu affrontato: da quel rifiuto nacque quel soggetto compromissiorio e “ribellistico” che abbiamo già analizzato a proposito del PD (partito capofila sul piano dell’allontanamento dalle istanze sociali).
Il compromesso socialdemocratico era basato su tre fondamentali politiche: quella macroeconomica di stampo “keynesiano” di sostegno alla domanda per realizzare un condizione prossima alla piena occupazione; una politica dei redditi che introduceva, nel rapporto conflittuale (e non concertativo, tanto per introdurre soltanto un accenno al ruolo del sindacato) tra i lavoratori e gli imprenditori le basi per una intesa sulla ripartizione tra salari e profitti; politiche di redistribuzione del benessere, basate sull’indirizzo di risorse pubbliche, prelevate attraverso una fiscalità fortemente progressiva, verso obiettivi sociali quali la previdenza sociale, la salute, l’ambiente.
Il quadro generale dovrebbe essere affidato a meccanismi di programmazione pubblica dell’economia (ritorna, qui il tema della democratizzazione del processo di Unione Europea: senza però concedere nulla all’eurocentrismo, anzi operando per legittimare altri punti di vista del mondo), in grado di stabilire criteri di regolazione dello sviluppo economico e di riportare il processo di globalizzazione economica all’interno di un discorso di globalizzazione politica.
L’obiettivo deve essere quello di aprire una fase di transizione sul terreno di uno sviluppo sociale non antagonistico, ingiusto, disastroso per l’ambiente naturale, come invece viene dettato adesso dalla globalizzazione selvaggia e dal capitalismo della crisi.
Un nuovo soggetto politico della sinistra italiana
A questo punto riproponiamo, allora, scusandoci con quanti avranno già letto parte di queste note: ma il rischio di ripeterci è allentato dall’uso del vecchio motto latino “repetita juvant”.
L’attuale conformazione delle forze di sinistra di alternativa presenti nel nostro panorama politico, non risulta all’altezza delle contraddizioni che abbiamo cercato, sia pure sbrigativamente, fin qui di enucleare: le ragioni sono diverse, ma sia Sinistra e Libertà, sia la Federazione della Sinistra (anche in vista della necessità di rientrare in Parlamento per la prossima legislatura, sia soprattutto per giocare un ruolo davvero importante nel vuoto lasciato dal PD e che si traduce in un esponenziale aumento delle astensioni, che come abbiamo visto nelle ultime occasioni elettorali colpisce duramente anche a sinistra) appaiono insufficienti alla bisogna.
Insufficienti per numeri, radicamento territoriale, qualità di quadri, espressione di gruppi dirigenti.
Serve mettere in moto un meccanismo nuovo che punti a costruire nel giro di un anno un nuovo partito unitario: rilanciamo l’idea di partire da assemblee locali, indette appunto unitariamente (a livello regionale o interprovinciale) dove si eleggano delegati (un centinaio alla fine) che a livello nazionale si propongano di lavorare attorno all’idea del nuovo soggetto attraverso l’elaborazione di documenti (programma, statuto, ecc..) sulla base dei quali svolgere il congresso fondativo: Sinistra e Libertà in verità aveva fornito segnali positivi in questa direzione riuscendo, in precedenza all’Assemblea del 12 Dicembre 2009, ad affermare il principio dell’adesione individuale: poi, per in quel soggetto sono parsi prevalere stimoli rivolti piuttosto all’affermazione del concetto di “partito personale” e di dialogo diretto del leader con il “popolo” avendo l’obiettivo delle primarie del PD e, di conseguenza, aderendo a tutte le pieghe di quel processo di destrutturazione del sistema politico che abbiamo avuto occasione di analizzare in principio di questo lavoro.
La sinistra, di tradizione comunista, socialista, radical-azionista, ambientalista ed espressione delle altre contraddizioni post-materialiste affermatesi negli ultimi decenni, deve poter disporre di un soggetto, di un partito, forte sul piano dell’identità (senza assumere velleitari profili di “identitassoluta”) affermando una presenza che, pur nella contingente ristrettezza dei numeri (sia sul piano della militanza, sia sul terreno elettorale) affermi una propria egemonia di contenuti, recuperi un ruolo sul terreno culturale, sia in grado di proporre una idea complessiva, generale, di società alternativa.
Serve un salto nella storia: ma non si può fare nessun salto senza prima fare spazio al pensiero di un futuro diverso.
Savona, li 25 Giugno 2010
Franco Astengo
anti capitalismo, federazione della sinistra, franco astengo, marx, nuova sinistra, rifondazione, sinistra, sinistra e libertà
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Giovanni Talpone
Non ho capito se il commento di Aldo Giannuli è stato pubblicato da qualche parte. Ho cercato in Archivio Blog senza esito.
Giovanni
Fase politica e nuovo partito della sinistra italiana | lu JeMeTe
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