Egitto: una rivoluzione usa e getta?

Dopo molti (troppi) mesi in cui la quotidianità italiana ci ha costretto a concentrarci sulla politica interna, torno finalmente e per la felicità di molti lettori che mi hanno scritto per rimproverarmi, a scrivere anche di altri temi…

Sin dal 2011 ho pensato che quella che molti salutavano gioiosamente come la “vittoria della democrazia in Medio Oriente”, la “primavera araba” che imboccava una strada coperta di fiori, in realtà, era solo l’inizio di una lunga durissima guerra civile che si sarebbe protratta per molti anni. Allo stesso modo non penso che quello che sta accadendo (prima in Siria, poi in Tunisia, Egitto, Yemen) sia la fine della rivoluzione, come pensa, invece, Lucio Caracciolo (Repubblica 17 agosto 2013 p. 33 e numero speciale di Limes) che pensa all’inizio di un nuovo ciclo autoritario destinato a durare decenni. Non credo che sia così scontato: mi sembra, piuttosto che stiamo assistendo a una delle convulsioni del processo e che altre ancora ne vedremo prima che si assesti.

La crisi egiziana non può prescindere dalla più generale onda di rivolte, guerre e repressioni che ha investito il Medio Oriente (è persino banale dirlo) pur avendo caratteristiche individuali molto spiccate. E questo suggerisce diverse riflessioni. In primo luogo: i paesi più violentemente investiti dalle proteste (Tunisia, Libia, Egitto, Yemen, Siria) sono stati tutti regimi ad impianto nazional-militare, che hanno avuto la loro lontana ispirazione nella rivoluzione di Kemal in Turchia (anche essa investita recentemente da una violenta protesta) e il loro modello più prossimo proprio nell’Egitto di Nasser.

Vice versa, i regimi più tradizionali e monarchici (Marocco, Giordania, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Quatar, Dubai) sono rimasti essenzialmente indenni, se non per sporadici accenni mai diventati movimenti di massa. In altri termini, le rivolte sono avvenute non nei paesi che noi considereremmo più “arretrati”, ma in quelli che avevano già subito l’urto della modernizzazione che aveva prodotto regimi repubblicani talvolta laici, sempre a dominante militare, spesso a partito unico (il Baas). Regimi che hanno avviato forme parziali di modernizzazione ma caratterizzati da fragilità interne evidenziatesi in questo biennio.

In secondo luogo, il mondo arabo ha conosciuto diverse rivoluzioni, sia di tipo militare che di tipo popolare (in particolare l’Algeria della fine anni cinquanta ed Egitto 1919), ma non si era mai verificata una tale simultaneità. E questo è il dato caratteristico di queste rivoluzioni legate fra loro da intrecci solo parzialmente visibili.

Inizialmente, molta importanza venne attribuita al detonatore di internet e dei social media  per spiegare il velocissimo estendersi della protesta da un paese all’altro nel giro di poche settimane. In seguito, questa diagnosi è stata ridimensionata, anche se tutti ammettono che sia stato uno dei fattori più importanti.  Ci sono poi altri aspetti comuni a queste dinamiche: l’ondata di ritorno dell’immigrazione nei paesi europei, la spaccatura del mondo islamico di fronte all’irrompere del fondamentalismo, l’andamento della rendita petrolifera e dell’esplodere del prezzo dei cereali che innescò le rivolte del pane del 2009-2011, detonatore immediato della primavera. Tutti motivi, a ben vedere, che si intrecciano con il procedere della globalizzazione ed è ragionevole supporre che le primavere arabe siano il primo segnale di una più generale rivolta sociale in arrivo e che andrà ben oltre i limiti del mondo arabo-islamico.

L’Egitto in particolare, per la sua collocazione a cavallo fra Africa, Asia ed Europa e per la sua storia peculiarmente legata a quella dell’impero inglese, è un sensore particolarmente sensibile delle rotture degli equilibri internazionali: già più di un secolo e mezzo fa, la scelta della monocultura cotoniera (che durerà assai a lungo) fu il prodotto della guerra civile americana, che spinse l’industria tessile inglese a cercare altre fonti di approvvigionamento.

D’altra parte, tutte le rivolte arabe in corso vanno lette nel contesto globale che segnala tensioni sociali e rivolte di varia intensità: dalle “rivolte del pane” avvenute anche in diversi paesi latinoamericani, africani ed asiatici, alle violente proteste greche ed ai più miti (per ora) movimenti degli indignados o di Occupy Ws, alle esplosioni minoritarie -ma non trascurabili- in Italia (14 dicembre 2010 e 15 ottobre 2011).

Dunque, è bene abituarci a guardare a queste crisi come ad aspetti particolari di una tempesta mondiale che è appena agli inizi e che è la ricaduta della crisi finanziaria ancora molto lontana dal risolversi. Non è una breve soglia di storia quella che stiamo attraversando, ma l’imbocco di un lungo tunnel che caratterizzerà un’ intera epoca. E di questo c’è scarsissima consapevolezza.

L’Egitto, in questo, è un “Caso di studio” fra i più interessanti, in primo luogo perché è stato il primo paese dell’area mediorientale ad incamminarsi sulla via della modernizzazione (sin dalla metà del XIX secolo) ed è tutt’ora il paese arabo più moderno, urbano ed industrializzato. Ma l’arretratezza culturale, continua a pesare ancora molto, ed in questo conflitto latente fra la città e la campagna, ha sempre avuto un ruolo dirimente l’esercito. Il caso egiziano è caratterizzato, più di ogni altro nell’area, dalla presenza di un esercito forte, ago della bilancia degli equilibri sociali del paese. L’esercito non è solo stato il motore della rivoluzione industriale egiziana ma è esso stesso il principale imprenditore: fabbriche, catene di alberghi, imprese di servizi sono nella maggior parte dei casi proprietà dello Stato maggiore militare.

Questo è stato insieme la causa e l’effetto del ruolo classicamente bonapartista che l’esercito ha giocato in politica: come insegna Marx (“Il 18 brumaio di Luigi Napoleone”), quando in uno scontro sociale nessuno dei contendenti riesce a conseguire una piena vittoria e non sopraggiunge un compromesso, è l’esercito ad affermarsi come soggetto super partes e ad imporre la propria dittatura (e l’esempio classico è proprio quello dei Bonaparte zio e nipote).

In Egitto ci sono state tre rivoluzioni (1919, 1952 e quella in corso) e, se nel primo caso il ruolo dell’esercito fu frenato dall’occupante inglese, già nel successivo, il risultato dello scontro aperto il 25 gennaio 1952, dalla protesta urbana di studenti, operai e ceto medio urbano, fu il regime militare di Nasser che si valse proprio del ruolo di disturbo dei Fratelli Musulmani. La rivoluzione venne fermata dall’incendio del Cairo (26 gennaio) appiccato proprio dagli uomini della Fratellanza con un modello d’azione che ricorda molto da vicino le tecniche di azione della “strategia della tensione”.

Oggi si ripete sostanzialmente lo stesso copione: lo scontro fra il presidente Morsi (eletto solo al secondo turno e non nel modo più limpido) e la piazza urbana (piazza Tahrir), ha consentito ai militari il colpo di Stato e dopo di massacrare le plebi rurali e dei sobborghi  portate in città dai Fratelli Musulmani.  Non voglio essere frainteso: non mi rammarico affatto della deposizione di Morsi e non esprimo alcuna solidarietà alla Fratellanza che, se avesse avuto il coltello dalla parte del manico, avrebbe fatto di molto peggio, ma le cose vanno chiamate con il loro nome e qui c’è stato prima un colpo di Stato e poi un massacro.

Probabilmente il regime militare è preferibile a quello che avrebbe imposto il fanatismo islamico (su questo ho pochi dubbi), ma penso che sia un errore quello di chi (come alcuni intellettuali liberal egiziani intervistati  dal Corriere e da altri mass media) pensa che “dal colpo di stato verrà la democrazia”, che si tratti di un passaggio breve. Insomma, che i militari faranno il lavoro sporco per poi stendere una guida di velluto rosso  all’ala laica e liberale. I militari stanno ricostruendo il loro regime bonapartista messo in crisi dalla caduta di Mubarak e che si tratti di questo lo dicono i primissimi atti della nuova giunta: la scarcerazione di Mubarak, l’apertura di un processo contro el Baradei per le sue dimissioni e l’arresto di Hazem Abdel Azim, uno dei simboli dell’attivismo giovanile di piazza Tharir esponente dell’ala liberal.

Beninteso: Mubarak è un rottame ultraottantenne che non giocherà alcun ruolo politico, el Baradei è al sicuro all’estero e, per ora, non ci sono stati altri arresti di dirigenti dell’ala liberal, ma quel che conta è il significato simbolico di ciascuno di questi gesti. La scarcerazione di Mubarak dice della volontà di restaurare quel tipo di regime, la denuncia di el Baradei sta a significare che la sua dissociazione dalla repressione è considerata tradimento, perché egli era stato messo in quel posto dai militari che non avevano (e non hanno) alcuna intenzione di riconoscere autonomia ai civili. Quanto l’arresto di Hazem Abdel Azim è un tacito segnale a piazza Tharir di considerare conclusa la sua esperienza ed accettare la restaurazione senza pruriti rivoltosi.

Inoltre, generali sanno anche di poter contare su un vasto appoggio internazionale. In primo luogo della ricca Arabia Saudita che, sin dal primo momento, è stata il massimo nemico arabo della “primavera”. Ma anche degli Usa che fanno finta di indignarsi, ma ai quali un regime militare al Cairo sta bene più di ogni altra cosa (i liberal? E chi li conosce?!). Più di tutti è contento Israele che si è tolto dalle scatole un governo amico di Hamas. Quanto alla Ue, una volta di più non esiste e segue la corrente americana, come dimostra efficacemente la colf di Villa Taverna che passa per essere il ministro degli Esteri della nostra repubblica.

Ugualmente penso che non ci sarà una tranquilla normalizzazione ed un placido ritorno ai tempi di Mubarak: tanto la protesta di piazza Tharir, quanto quella dei Fratelli Musulmani (che forse prenderà la via di un terrorismo assai virulento) difficilmente rifluiranno e le convulsioni dei paesi limitrofi alimenteranno ancora uno scontro assai sanguinoso.

Ciò non di meno, continuo a pensare che sia positiva l’apertura di questo processo di trasformazione sociale, politica, culturale del mondo arabo e, forse, dell’intero mondo islamico. Sessanta e più anni di pace in Europa hanno prodotto un impotente irenismo che ci ha disabituati all’idea che la Storia è dramma  e procede fra bagni di sangue. Può non piacerci (a me non piace affatto: ne avverto l’orrore) ma questa è la realtà ed è inutile illuderci con le favole della non violenza. Questo non toglie nulla all’obbligo morale di fare l’impossibile, per limitare le sofferenze umane, ma i cambiamenti comportano sempre convulsioni più o meno traumatiche e la soluzione non è mai contentarsi dell’esistente. E, se superare l’esistente, comporta sacrifici amarissimi, rassegniamoci all’idea di pagare certi prezzi.

Aldo Giannuli

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Aldo Giannuli

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Comments (15)

  • Caro professore, questa volta dissento in modo netto dalle Sue conclusioni. Se è vero che nel passato le guerre erano fonte di diffusione culturale, per cui concetti come democrazia e repubblica viaggiavano sulle punte di sarisse e pila, l’evoluzione dell’umanità tende a spostare lo spazio di confronto dal piano fisico a quello intellettuale. Ovviamente questo non è sinonimo di cancellazione delle sofferenze: se le mie idee spazzano via le tue, tu potresti averne la vita rovinata con sofferenze comunque pesanti. Di più, questo certamente non troverà ancora applicazione nei paesi arabi, dove lo stile di vita è ancora troppo arretrato, ma se guardiamo alla nostra Europa vediamo che le armi sono si rimaste, per fortuna, confinate nelle caserme, mi riferisco a scontri interni fra nazioni europee, però di sconvolgimenti ce ne sono stati parecchi ed hanno causato mutazioni sociali non certo indolori.
    In conclusione, i bagni di sangue stanno ‘passando di moda’, ma non le sofferenze umane; nei paesi arabi sono ancora la mannifestazione di uno scontro fra centri di potere, mentre i paesi occidentali hanno elaborato metodi più raffinati.

  • Gentile Professore, potrei solo aggiungere alla Sua interessante analisi che in questo momento l’Egitto e il canale di Suez potrebbero ritornare particolarmente strategici per i “masters of universe”.
    Da Suez passa praticamente tutto il greggio per l’occidente essendo chiusi gli oleodotti siriani (A), passano le merci da e per l’Asia (B), e passano le flotte militari occidentali ed il loro naviglio di rifornimento per il controllo delle rotte nell’Oceano Indiano (C).
    Tuttavia si stanno coagulando consensi russi attorno all’idea cinese di trasferire B dalla nave al treno lungo la transiberiana, grazie ad una nuova tecnologia ferroviaria sperimentale che farebbe risparmiare agli spedizionieri asiatici molto tempo e carburante. Gli accordi dell’Aprile 2012 a Varsavia tra il premier cinese e quelli di quasi tutti Paesi dell’Europa Orientale sono stati un primo passo tangibile in questo senso. La reazione angloamericana non si è fatta attendere: se gli esperimenti di quella tecnologia progrediranno gli USA potrebbero da subito creare problemi a B tramite il nuovo Stato Maggiore egiziano, inducendo Pechino ad abbandonare l’idea prima di realizzarla.
    D’altra parte Pechino ha interesse comunque a riportare la dialettica all’interno della politica egiziana e trovarvi degli interlocutori compiacenti, non solo per garantire B, ma anche nella molto probabile ipotesi che C si trasformi in una massiccia “spedizione umanitaria” in Myanmar (di cui ho riferito già in altre due occasioni su questo sito) organizzata da Washington proprio per impedire l’applicazione di quella tecnologia ferroviaria al corridoio meridionale, in progetto fra Cina, India e Indocina.

  • a me quello che preocupa di quella situazione che dal Mali al mar Rosso, escluso piccole zone, è terra di nessuno. non vi sono autorità non stati e ho la senzazione che vogliano creare la stessa situazione in medio oriente, e ci stanno riuscendo, sarà molto dura per il mondo islamico mantenere una identità giuridica

  • Bella analisi, ma parziale. Quali sono i global trends entro i quali si colloca il “sommovimento mediorientale”?
    Quali le fratture tra aree geopolitiche insomma?
    Gibilterra può essere considerata l’inizio della faglia di rottura tra Europa del Nord ed europa del sud, tra l’area angloamericana e i paesi “latinos” del sud mediterraneo? (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia…)

  • Disamina molto interessante e in buona parte condivisibile, tuttavia è carente di un aspetto storico e geopolitico. Come a metà del 1800 i giochi internazionali in quella regione furono stravolti dalla apertura del canale di Suez con ciò che questo comportava (non a caso gli Inglesi, ma anche i francesi, immediatamente presero a sostenere concretamente il Risorgimento in Italia, intuendo quanto era importante il controllo del mediterraneo attraverso il nostro paese), così ora, nelle evoluzioni politiche, militari e sociali sempre di quella regione, ha un ruolo determinante la presenza di Israele.
    Si da il caso che Israele non è uno Stato democratico innocuo, anche se inserito con la forza delle armi nel 1948 nella regione, ma è una potenza mondiale, con una sua volontà di potenza e con sogni teocratici di espansione violenta, come attestano non solo le cartine geografiche dal 1948 ad oggi, ma anche gli insediamenti e le edificazioni continuate che denotano la volontà di un repulisti etnico e di una espansione appunto.
    Qualcuno poi si dovrebbe anche chiedere come abbia fatto Israele a diventare una potenza nucleare di tutto rispetto, quando le grandi potenze Occidentali sono così attente e suscettibili e reattive verso chi persegue l’uso del nucleare financo per scopi pacifici. Ma la risposta, è secondaria, mentre invece le conseguenze di una potenza del genere nella regione, animata da questa volontà di dominio, ha le sue conseguenze.
    Per la stessa legge della eterogenesi dei fini, ad ogni azione, corrisponde una reazione e quindi questa presenza di tipo guerrafondaio non può che determinare tutta una serie di conseguenze, anche perchè appare evidente che la strategia occidentale ed israeliana è quella di persegue due fini: primo, l’eliminazione di ogni stato laico e pluriconfessionale che attutisca le rivalità del mondo islamico e punti decisamente alle modernizzazioni. In pratica ogni politica diciamo, seppur non proprio adeguatamente, di tipo nasseriano. Secondo, di favorire, finanziando e armando ogni tipo di ribellione e terrorismo, tutte le rivolte possibili, in modo da arrivare alla creazione di una regione con stati a macchia di leopardo, divisi da rivalità tribali e religiose, possibilmente retti dal fanatismo islamico, fastidioso per il sionismo, ma sostanzialmente innocuo.
    Ecco sarebbe stato opportuno sviscerare questi aspetti e metterli in relazione alla situazione mediorientale attuale, perché la sola analisi delle vicende sociali e politiche non è sofficiente per individuare le cause e concause che stanno sconvolgendo il medioriente, sarebbe come lo analizzare le vicende storiche dell’America Latina, per secoli il giardino di casa degli Usa e area di primario interesse per le multinazionali, senza mettere in primo piano la presenza appunto dell’imperialismo americano e della sua volontà di potenza.

  • Articolo molto interessante, di cui condivido pienamente toni e conclusione. Colgo l’occasione per chiedere scusa ad Aldo per avergli dato del para-pacifista. (Mario Vitale, non me ne voglia, ma quanto afferma non é nuovo, anzi era sulla bocca di tutti gli europei fino all’estate del 1914…).
    Anch’io tuttavia inviterei Aldo a fare un ulteriore sforzo di analisi in senso geopolitico: considerare cioè il peso strategico di Suez (anche noi italiani ne sappiamo qualcosa per averlo vissuto sulla nostra pelle) ed inserire il tutto nel contesto dello scontro Usa-Cina. Aiuterebbe a comprendere meglio tutto quello che sta accadendo nell’area, non solo in Egitto.
    Penso valga la pena anche accendere i riflettori sulla Francia, intraprendente e determinata come non si vedeva da tempo (vedi gli interventi in Libia, Mali e Siria).

  • “ma i cambiamenti comportano sempre convulsioni più o meno traumatiche e la soluzione non è mai contentarsi dell’esistente. E, se superare l’esistente, comporta sacrifici amarissimi, rassegniamoci all’idea di pagare certi prezzi.”

    Aldo, ma siamo sicuri che, anche sul lungo periodo, siano cambiamenti in meglio e che invece non ci facciano rimpiangere l’esistente?

  • Sospetto che tutti gli “sconvolgimenti” verificatisi nel mediterraneo (sia quelli di nord africa e medio oriente, sia quelli dell’europa meridionale), manifestatisi con le dovute differenze di contesto e a cagione di differenti concause e per il resto anche molto eterogenei tra loro, abbiano in comune un fattore: l’indebolimento del controllo strategico del mediterraneo da parte degli USA e l’emergenza di nuovi potenze regionali tutte in grado, in varia misura, di avere un’influenza NON determinante su tutta la regione del Mediterraneo, ma su parti di essa, provocando smottamenti che si ripercuotono a catena

    Penso a Francia, Germania, e Russia (con consistente perdita di peso dell’Italia, che temo vada di pari passo al disinteressamento degli USA) per quando riguarda la sponda europea; Francia, Turchia, Russia,Israele, Iran, Arabia Saudita e, forse anche Cina (che è un attore di primo piano, con consistenti interessi, su tutto il continente africano) per la sponda mediorientale e nordafricana.

  • Ciò che lei afferma professore è vero, scientifico direi. Siamo solo agli inizi di un’epoca e le rivolte vanno lette in un sistema globale. In tutto questo bisogna tenere conto degli interessi finanziari che stanno cambiando il volto dell’occidente e dell’oriente. La destabilizzazione delle varie realtà gioca a favore delle super potenze protese ad accaparrarsi materie prime per avere il dominio assoluto nel panorama geo politico. Ecco perchè io sono convinte del grido della giovane Malala nell’affermare che le guerre si vincono con libri e penne. Ciò che va distrutta è l’ignoranza e l’avvento di una conoscenza che possa essere il baluardo di una cultura attraverso la quale si giocano i destini degli uomini scrivendo nuove pagine di storia.

  • argomento spinossissimo, ma affrontato bene. e in fondo è possibile rintracciare anche in europa epifenomeni simili, soprattutto per quanto riguarda il ritorno al nazionalismo che sta caratterizzando questi anni. da un lato i nazionalismi seguono le traiettorie diplomatiche e geopolitiche che i singoli stati si sono creati e che presentano grosse differenze reciproche, elementi che con il venire meno del multipolarismo americano hanno accentuato le differenze di vedute nella ue. nonostrante dubiti seriamente che questi interessi nazionalisti corrispondano realmente a quelli della popolazione di riferimento, noto che i media tendono invece a riproporre la stessa pappina che gli italiani vogliono rubare ai tedeschi e i tedeschi vogliono svenare gli italiani. insomma stanno sviluppando la classica nozione di nemico tanto cara a shmitt. per ora si basano solo sull’elettorato di estrema destra, che per l’occasione oggi veste un completo anti banche (sara tommasi al riguardo ha sensibilizzato il pubblico della nuova destra usando gli unici argomenti che interessano a questi pecoroni, e il risultato si vede) ma che tende perfettamente ad integrarsi agli interessi del neroliberismo. ma è evidente che ci sono grossi interessi economici sui gruppi dell’estrema destra europea, cresciuti e pasciuti dai poteri forti in quanto rappresentano sempre i migliori strumenti della strategia egemonica mostrata in the clash of civilization di hutington. d’altra parte il neoliberismo non potrebbe esistere senza i regimi autoritari, dato che si basa su quella mancanza di trasparenza che se si vivesse tutti in una democrazia non potrebbe esistere. e quindi è logico che fomenti la nascita di regimi autoritari e fascistoidi di qua e di là.

  • Io non sono uno storico è vero però pare anche a me ci sia un lento miglioramento riguardo al ricorso allo strumento bellico. Senza dubbio il XX secolo ha conosciuto dei lutti immani, tuttavia rispetto al passato mi pare di vedere un miglioramento sia per il ricorso alle armi che per la considerazione dei diritti umani. Le guerre costano sempre più soldi e politicamente la morte dei propri soldati è sempre più difficile da sostenere. Si aggiunga la problematica dei diritti umani: se Carlo Magno non ha anuto problemi nel genocidare gli Avari adesso, dopo le “meraviglie” compiute nella II guerra mondiale, c’è molta più attenzione alla sorte dei civili. Sia chiaro: le pulizie etniche nei Balcani o il caso del Burundi o l’utilizzo delle armi chimiche contro i Curdi sono tutti eventi che ricordo, non voglio dire che il mondo sia diventato l’Empireo dantesco, tuttavia mi pare che qualche passo avanti in questo senso la stora lo stia facendo.

  • Ciao, trovo un peccato un bel luogo come l’Egitto che venga rovinato da queste c****te.
    Ci sono stata in vacanza con la mia famiglia due anni fà e da allora non vedo l’ora di tornarci, tra piramidi e sole tutto l’anno, vacanze ai livelli della Sardegna a costi ridicoli, che peccato.
    Scusate per lo sfogo, un abbraccio e grazie per condividere questi bellissimi post con tutti noi.

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