Quale cultura politica nel mondo della globalizzazione?

La globalizzazione ha ormai un buon quarto di secolo, ma stenta ancora ad esserci una cultura politica del tempo della globalizzazione, se si esclude qualche accenno. Proviamo a capire perchè.

Siamo ancora lontani dall’aver composto una “grammatica” della globalizzazione, vale a dire del nostro tempo. Molti singoli fenomeni (dall’immigrazione al web, dall’integrazione finanziaria mondiale alla comparsa dei fondamentalismi, dalla affermazione di una governance mondiale tecnocratica alla comparsa dei populismi) trovano interpretazioni più o meno plausibili, ma sfugge la loro interdipendenza e non siamo in grado di apprezzarne adeguatamente il quadro di insieme. I mutamenti si succedono velocissimo e gli analisti non riescono a tenervi dietro neanche con l’ausilio dei supporti informatici.

In tutto questo è probabile che incidano radicate abitudini intellettuali che oggi appaiono un ostacolo formidabile  per comprendere il presente.
Ad esempio, molti fenomeni vengono minuziosamente analizzati in termini di logica lineare nel rapporto causa effetto, che oggi non appare più adeguata al compito di spiegare fenomeni segnato da un alto grado di interdipendenza. Oppure si studiano le dinamiche con una impostazione disciplinare rigidamente specialistica che impedisce, appunto, una visione di insieme: gli economisti ignorano la politica o le dinamiche sociali, i politologi ignorano l’economia e sanno poco di antropologia, i sociologi non si pongono problemi di ordine finanziario e sanno poco di storia e di geografia e tutti sono proiettati sul loro specifico disciplinare, in questo assecondati tanto dalla struttura discip0linare delle carriere accademiche quanto dall’organizzazione dell’industria culturale ed in particolare editoriale.

Occorre fare un salto in avanti, lasciandosi alle spalle molte convinzioni e riverificare molti approcci disciplinari. E forse è bene partire da un dato poco considerato. Sin qui, la globalizzazione è stata percepita soprattutto come integrazione finanziaria del mondo e, in effetti, il motore finanziario è stato il principale vettore del fenomeno. Ma se questo è vero nell’immediato, perde molto del suo significato sul lungo periodo ed in particolare in presenza di una inedita crisi finanziaria  che, insieme ai mutamenti geopolitici intervenuti, ha ridato spazio all’azione degli stati nazionali  ed alla politica rispetto alla finanza. Ma, soprattutto sul piano degli effetti di lungo periodo, il mutamento più profondo non è di carattere economico-finanziario ma culturale e psicologico, perché ha al suo centro il conflitti identitario.

Huntington forse è stato il primo a comprendere quel che sta accadendo, ma ha considerato solo l’aspetto del conflitto sub specie del “conflitto di Civiltà” ed il conflitto indubbiamente c’è, ma esso è sempre inevitabile e generalizzato? Ed in che forme occorre contenerlo? D’altro canto, se nell’interpretazione di Huntington c’è un elemento di verità, il suo modello presenta non pochi elementi di debolezza: come accade che un “modello di civiltà” diventi un soggetto politico? Cosa contraddistingue un modello di civiltà (la sua classificazione lascia molto perplessi)? È possibile parlare di modello di civiltà come dato omogeneo ed incontaminato? Ed in che forme di manifesta il conflitto? Forme statuali? Ma la  guerra asimmetrica è uno dei prodotti più evidenti della globalizzazione. E poi, siamo sicuri che le civiltà giunte a contatto fra loro, possano solo confliggere e non produrre dinamiche di convergenza o cooperazione?

Dunque occorre costruire una “grammatica della globalizzazione”, una cornice entro la quale iscrivere il nostro tentativo di analisi storica del presente. E non si può capire quel che sta accadendo senza studiare le 5c: Conflitto,  Competizione, Convergenza, Contaminazione che si sintetizzano in un’altra C onnicomprensiva: Complessità.

Del Conflitto abbiamo già accennato e ci torneremo, passiamo alle altre C. La Competizione è una forma più indiretta e contenuta di conflitto, è quella in cui prevale la dimensione economica, ma non c’è solo quella (si pensi alla competizione scientifica, culturale, di influenza ecc.). La competizione  è una forma di conflitto attenuato perché presuppone l’esistenza dell’altro da battere ma non da debellare. Ad esempio, in economia si può competere ma sempre non superando un certo limite perché, diversamente, con ci sarebbe un altro che importa le merci, sottoscrive i titoli di debito, scambia moneta ecc. allo stesso modo la competizione scientifica presuppone uno scambio, magari ineguale, perché  c’è uno che prende più di quel che dà, o sul piano culturale, perché senza scambio non c’è influenza o egemonia culturale. Ma lo scambio presuppone l’esistenza dell’interlocutore che non deve essere debellato. Spesso la competizione sfocia in una guerra, ma questo non è l’esito desiderato, perché in guerra non si fanno buoni affari con il nemico, non c’è scambio culturale o scientifico ecc. Dunque la competizione ci appare come uno stato di tensione controllata.

La Convergenza è stata esaminata da Courbage sotto il profilo demografico che esprime  una tendenza a ridurre il numero dei figli per donna ed ad alfabetizzare le nuove generazioni, per cui, quando la soglia dei figli per donna cade sotto il 3 e la maggioranza dei giovani è alfabetizzata, nel giro di una generazione (25 anni) si verifica una rivoluzione che modernizza il paese. Forse c’è troppo ottimismo in questa proiezione, ma ci sono sicuramente alcune conferme storiche (in qualche modo, ultima, la primavera araba)  e soprattutto c’è un meccanismo per cui la globalizzazione genera convergenza: proprio la competizione spinge gli attori a mettersi al livello del più forte, gli scambi economici spesso attenuano le diseguaglianze, la delocalizzazione favorisce l’accesso allo sviluppo di alcuni paesi, la cooperazione favorisce l’integrazione di alcune economie in via di sviluppo,  l’uso di codici comunicativi comuni attenua le diseguaglianze di livello culturale ecc. Di fatto, in una serie di attività umane si osservano dinamiche convergenti: sicuramente i differenziali fra mondo occidentale e potenze emergenti (in particolare Brasile, India, Cina) si sono considerevolmente attenuati. Ma è anche vero che si sono approfonditi (almeno per ora) quelli con altri, così come la delocalizzazione ha favorito lo sviluppo di alcuni paesi che hanno visto diminuire le diseguaglianze rispetto ai più forti, ma solo a presso di un aumento a volte spaventoso delle diseguaglianze interne. Dunque un fenomeno reale, ma non sempre univoco e meno lineare di quel che l’ottimistica teoria di Courbage non dica.

La Contaminazione è probabilmente l’aspetto meno studiato e meno compreso, ma forse più caratteristico del processo di globalizzazione. Già il discorso di Huntington si presta ad una critica: la sua descrizione del nuovo ordine mondiale, descrive i modelli di civiltà come costruzioni omogenee e compatte. La realtà ci dice che, per effetto dell’immigrazione, delle comunicazioni (dalle mail ad internet ecc), del turismo di massa, della compenetrazione economica, del meticciato sessuale ecc.) ogni aggregato nazionale, e a maggior ragione sovranazionale. è una realtà assi più porosa e disomogenea di quel che non si pensi. D’altro canto, già il colonialismo dei tre secoli scorsi ha fortemente contaminato culture, lingue, istituzioni ecc. naturalmente con effetti e dinamiche ben diversi per colonizzati e colonizzatori. E questo già ci avverte di un aspetto della contaminazione: il suo carattere diseguale sia dal punto di vista della profondità che dei diversi strati ed aspetti. Non in ogni caso si sono verificate le stesse dinamiche molto è dipeso dalle diverse condizioni geografiche, etniche, demografiche, culturali di partenza, dalle diverse politiche coloniali, dalla durata del dominio, dalle . Quasi dappertutto si è imposta la lingua dell’occupante europeo ma con esiti molto diversi: in alcuni contesti (ad esempio America Latina) ha sostituito del tutto le lingue  precedenti, in altri (Africa occidentale e centrale, India) si è sovrapposta alla lingua originarie, magari affermandosi come espressione veicolare in contesti con più idiomi, in altri ancora(Indonesia, ma anche Siria, Iraq, Libia, Eritrea ecc.)  ha lasciato tracce meno profonde e durature, in altri casi (ad es. le Filippine) la lingua del colonizzatore originario è stata in buona parte sostituita da altro idioma europeo. Stessa casistica potremmo fare per quanto riguarda la religione: ci sono paesi totalmente cristianizzati, altri parzialmente, altri solo marginalmente ed è interessante notare come ci sia, grosso modo, una corrispondenza fra penetrazione linguistica e penetrazione religiosa, anche se esistono rilevanti eccezioni (l’India è fortemente penetrata dall’inglese, ma è solo limitatamente cristianizzata).

Dunque, i “modelli di civiltà” (con l’eccezione di quelli europei che sono stati colonizzatori) non hanno quasi mai mantenuto una qualche “purezza” delle origini e sono stati normalmente contaminati dalle culture europee ed è interessante notare come anche i paesi che non hanno mai conosciuto colonizzazione (Cina, Giappone, Turchia, Thailandia) o quelli che l’hanno subita per periodi poco significativi (Etiopia, gran parte del medio oriente asiatico) risultano in vario modo contaminati, per effetto degli scambi commerciali, della penetrazione missionaria, degli scambi culturali, di pur brevi occupazioni militari ecc.

Vice versa, i paesi europei e gli Usa risultano assai meno contaminati, proprio perché hanno avuto il loro contatto con le culture altre in posizione di forza favorevole. C’è un particolare che illustra molto bene questa disparità di atteggiamenti: in Europa e negli Usa esistono discipline specialistiche definite “orientaliste” mentre nei paesi afroasiatici non esistono discipline specialistiche definite “occidentalistiche”, il che sottintende un valore parziale e locale delle culture orientali, il cui studio è affidato a specialisti, mentre le culture europee, che sono studiate sotto il profilo nazionale (ad es esistono cattedre di letteratura Italiana, francese, spagnola o inglese) ma non danno luogo ad uno specialismo occidentalista perché vengono assunte come valore universale e ci sono molti meno europei che conoscono Confucio o Li Yu di quanti cinesi conoscono Shakespeare o Petrarca. Questo provoca effetti per certi versi paradossali, per i quali, gli europei, che effettivamente hanno invaso militarmente ed imposto le proprie lingue, religioni ed istituzioni in gran parte del mondo e continuano ad invadere militarmente interi paesi, si sentono “invasi” da pochi milioni di profughi o immigrati in cerca di fortuna, mentre i paesi ex coloniali  non si sentono affatto invasi dalle centinaia di migliaia di studenti, missionari, istruttori militari, commercianti ed imprenditori, tecnici, giornalisti, insegnanti, addetti culturali ecce cc che ogni anno si riversano da Europa e Stati Uniti verso quei paesi. E non si tratta solo del diverso peso percentuale nei confronti delle rispettive popolazioni autoctone, ma rivela un diverso grado di apertura verso le culture “altre” fra chi è stato maggiormente contaminato e chi è assai meno abituato a questo.

Ma soprattutto, questo approccio “universalistico” alla cultura occidentale è , in qualche modo, l’”ombra lunga” (ed in gran parte inconsapevole) del colonialismo, per cui l’Occidente identifica sé con ogni modernizzazione possibile e (come rilevava già Huntington) è portato a pensare che modernizzazione sia sinonimo di occidentalizzazione e la globalizzazione è stata immaginata come un immenso processo di adattamento del resto del mondo all’Occidente.

E questo, ovviamente, non ha permesso di capire molti dei processi che stavano per innescarsi, in particolare ilo conflitto di identità che in forme varie (dal fondamentalismo religioso alla violenza contro le donne, dal neo nazionalismo all’ omofobia, dalle campagne islamofobe ai vari movimenti di “ritorno alle origini” ) si stanno manifestando sotto una comune ispirazione integralista. Tutti i fondamentalismi portano in sé l’immaginario di una originaria purezza da ripristinare rifiutando la modernità, ma, in realtà, essi recano già evidentemente i segni di una contaminazione irreversibile, che assume piuttosto il segno di una “modernità selettiva”, per cui, ad esempio, gli islamisti accoppiano disinvoltamente la sottomissione della donna, una visione magico religiosa del mondo ed il Kalashnikov o il messaggio un web.

Contrariamente alle attese di una cultura unica mondiale, la contaminazione non sta producendo questo ma conflitti di tipo identitario. La contaminazione si accompagna alla convergenza, ma anche al conflitto e tutto nello stesso tempo e contraddittoriamente, perché la base culturale non è sovrastruttura, ma struttura e reagisce al contatto con elementi di culture altre producendo nuove sintesi.

E qui veniamo al punto finale della complessità. Quello che caratterizza la nostra epoca è la compresenza, nello stesso tempo e nello stesso spazio, di tendenze spesso antitetiche che innescano effetti controintuitivi. La globalizzazione con i suoi mezzi di comunicazioni ultraveloci ha totalmente modificato le nozioni di tempo e di spazio rendendo tutto contemporaneo a sé stesso e provocando reazioni in tempi millesimali, talvolta addirittura anticipate sulla base di aspettative, con il risultati imprevedibili. Questo fa saltare del tutto le già precarie aspettative di rapporti lineari causa-effetto. Ormai il mondo non è comprensibile con la logica lineare ed impone il salto della complessità.

Ed a partire da questo quadro concettuale possiamo iniziare a pensare la nostra “grammatica del presente”.

Aldo Giannuli

aldo giannuli, cultura politica, globalizzazione


Aldo Giannuli

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Comments (30)

  • BUONDI , VORREI AGGIUNGERE AI SUOI ARGOMENTI DI BASE UMANISTICA ED ECONOMICA ALCUNI DERIVANTI DALLE TECNOLOGIE GIà OPERANTI MA RELEGATE PERCHE’ O NON COMPRESE O , FORSE , TROPPO COMPRESE : LE TECNOLOGIE ENERGETICHE RINNOVABILI.
    GIA’ DA ORA , CON LE TECNICHE ATTUALI , SI PUO’ PENSARE DI SOPPERIRE ALLE FONTI SIA FOSSILI CHE NUCLEARI AL 100X100 ENTRO 30–35 ANNI IN TEMPO FORSE PER EVITARE LA CRISI DA MANCANZA ENERGETICA .
    iL PROBLEMA PRINCIPALE E’ CHE CON LE RINNOVABILI NON SI RIESCE A MANTENERE L’INFRASTRUTTURA DEL COMMERCIO MONDIALE : INFATTI NAVI ED AEREI USANO SOLO LE FONTI FOSSILI PER CUI I TRASPORTI GLOBALIZZATI DOVRANNO RITORNARE IN GRAN PARTE LOCALIZZATI .qUESTA TRANSIZIONE SARA’ PIU’ O MENO VELOCE A SECONDA DELLE RISORSE ENERGETICHE DEI VARI PAESI (O SOLE MIO!!)
    NATURALMENTE INTERNET PER LE COMUNICAZIONI, LA STAMPA 3D PER TRASPORTI DI PARTI SPECIALI,TRENI PER PERSONE E MERCI PESANTI (VANNO GIA ORA AD ELETTRICITA’) SARANNO DISPONIBILI.
    CHE NE PENSA ?
    PIER ENRICO ZANI

  • “la competizione spinge gli attori a mettersi al livello del più forte, gli scambi economici spesso attenuano le diseguaglianze, la delocalizzazione favorisce l’accesso allo sviluppo di alcuni paesi, la cooperazione favorisce l’integrazione di alcune economie in via di sviluppo”
    Su Marte forse. Qui sul pianeta Terra non mi pare proprio che avvenga questo.
    In realtà la competizione sposta i livelli qualitativi sempre più in basso, la convergenza si traduce in omologazione e la cooperazione altro non è che la volontà di imporre agli altri i propri modelli e di sfruttarli. L’unica cosa autentica è il conflitto.
    Curiosamente da quelle cinque “C” manca proprio la cooperazione che, se intesa e praticata correttamente, permetterebbe un’evoluzione positiva.

  • Vi sono almeno due ulteriori aspetti che complicano il quadro, senza incominciare per “C”: 1) la grande diversità delle scale temporali dei fenomeni (basti pensare al diverso comportamento degli immigrati di varie generazioni, o al riscaldamento globale che (forse) durerà per secoli e (forse) sarà seguito da una glaciazione, al crollo della biodiversità mondiale (certo, e certamente duraturo), ecc.); 2) le oscillazioni fra periodi globalizzanti e periodi di riconfinazione: per esempio, l’era ellenistica fu certamente una “globalizzazione” che mise in contatto il Mediterraneo con l’Asia Centrale e sviluppò una cultura scientifica corrispondente, poi arrivò Roma e ci fu il regresso verso una struttura più statalista e antiscientifica. Così anche l’Ottocento con i telegrafi e le ferrovie e le navi a vapore, seguito poi dal nazionalismo esasperato che portò alla Prima Guerra Mondiale.

  • “Modernità” è un termine che indica un tempo, “Occidente” un luogo. La modernità ha indubbiamente implicato dei decisi mutamenti per tutti, anche per gli occidentali. Un italiano di oggi somiglia più a un italiano del tempo di Machiavelli o ad un odierno giapponese? Si è tentati di scegliere la seconda alternativa e, del resto, non è che per adottare le innovazioni moderne si debbano adottare tutte le eredità del remoto passato occidentale, ad esempio non è necessario convertirsi al cristianesimo. Tutto ciò sottolinea l’importanza del “tempo”, senza necessariamente sottintendere una concezione evoluzionista per la quale le varie “civiltà” devono convergere in un unico modello cancellando le differenze, una volta superate le “arretratezze”: Europa e Giappone potevano presentare differenze e analogie nel periodo “premoderno”( cavalieri e samurai, monaci cristiani e monaci buddhisti…)come pure oggi, dopo l’avvento delle grandi novità moderne.
    Peraltro, ha il suo peso il fatto che tali novità siano partite da un luogo determinato. Così non sempre è chiaro ciò che appartiene al luogo e ciò che è dovuto al tempo. Esempio: nel “Don Chisciotte” un musulmano accusa la figlia di volersi convertire al cristianesimo e vivere in Spagna perché nei paesi cristiani( europei ) le donne sono più libere. Maschilismo di lunga durata del me-na? Forse: però, anche ad un europeo di 500 anni fa le donne d’oggi sarebbero parse troppo libere e “aggressive”, come mi ha detto uno studente del Camerun venuto in Italia…

  • Direi che i paesi europei si sentono invasi dagli immigrati mentre i paesi ex-coloniali no non tanto per una maggiore apertura culturale dei secondi, quanto perché nel primo caso si tratta di un’immigrazione di persone in grande maggioranza povere, che evocano lo spettro della povertà, mentre gli occidentali che vanno in Africa e Asia di solito hanno denaro da spendere, e in un mondo globalizzato il denaro fa comodo a qualsiasi paese. Quando la contaminazione culturale è “innocua” e magari proficua anche noi occidentali siamo dispostissimi ad importare prodotti culturali orientali (yoga, manga, shiatsu) e anche a farne un business.

  • ” … Questo provoca effetti per certi versi paradossali, per i quali, gli europei, che effettivamente hanno invaso militarmente ed imposto le proprie lingue, religioni ed istituzioni in gran parte del mondo e continuano ad invadere militarmente interi paesi, si sentono “invasi” da pochi milioni di profughi o immigrati in cerca di fortuna, mentre i paesi ex coloniali non si sentono affatto invasi dalle centinaia di migliaia di studenti, missionari, istruttori militari, commercianti ed imprenditori, tecnici, giornalisti, insegnanti, addetti culturali ecce cc che ogni anno si riversano da Europa e Stati Uniti verso quei paesi. E non si tratta solo del diverso peso percentuale nei confronti delle rispettive popolazioni autoctone, ma rivela un diverso grado di apertura verso le culture “altre” fra chi è stato maggiormente contaminato e chi è assai meno abituato a questo.”: no!

    Gli europei/’americani’ che viaggiano, studiano o lavorano presso altre culture o popoli dopo generalmente se ne tornano a casa e non ne cambiano la composizione demografica, non compiono attentati omicidi, non costruiscono chiese dove si comanda di odiare per andare in paradiso e non vivono di sussidi.
    Vero è invece che quelle popolazioni non vogliono gli europei neanche da morti: sa che dopo la partenza di francesi e inglesi molti dei loro cimiteri che possedevano nelle ex colonie sono stati distrutti dalle popolazioni autoctone?

  • Professore, buongiorno!

    Grazie per questo tuo lavoro che mi permette, fra una scartoffia e una telefonata, di pensare (privilegi di noi gorilla ammaestrati rispetto ai, cosiddetti, “lavoratori di concetto”).

    Hai evocato talmente tanti argomenti, un vaso di pandora di dimensioni tale che, già ogni capoverso, potrebbe costituire la frase iniziale di una trattazione singola, sia nei punti in cui concordo, sia in quelli per cui nutro divergenze.

    A mio parere il punto, questa volta, non è a mio avviso ragionare su un punto singolo, perché collegato coerentemente agli altri e quindi da leggere alla luce degli altri o, peggio ancora, passare in rassegna tutti gli argomenti trattati.

    Provo quindi a muovermi su un terreno diverso, che si ricollega a quanto scrivi perché è alla base, sempre a mio parere, di un approccio metodologico rigoroso e flessibile al tempo stesso: in estrema sintesi, a fronte di un metodo di indagine e di studio rigoroso, altrettanto NON deve esserlo il modello TEMPORANEAMENTE assunto a paradigma. Per me, per esempio, il materialismo dialettico è un metodo, non un modello: un metodo che non è solo economico, anzi, risultando del tutto aperto a spunti di tipo antropologico, sociologico, semiotico-linguistico, ecc. Come un archeologo che inizia a scavare, a fare una stratigrafia e, man mano che comincia a intuire di cosa si potrebbe trattare, quindi a interpretare, a dedurre e, al contempo, a mettere in campo processi induttivi determinando, per esempio, le direzioni e i modi dello scavo, inizia ad assumere elementi utili ad approfondire ulteriormente la conoscenza del materiale di scavo (storie locali, numismatica, elementi di cultura materiale, tecnologia, ecc.), allo stesso modo dobbiamo procedere noi. Un modello, COERENTEMENTE ALL’IMPOSTAZIONE E AL METODO CHE CI SI E’ DATI (che, altrimenti, sarebbe opportunismo), serve, è utile? Bene, benissimo. No, Ni… andiamo a vedere il modello: magari occorre modificarlo, emendarlo o, più semplicemente, sostituirlo.

    “Se vedi Buddha, uccidilo” (lett. incontra buddha uccidi buddha 逢佛殺佛) recita un famoso, provocatorio, iconoclastico, detto Zen. La sostanza è proprio quella: se Buddha deve distoglierti dall’illuminazione, uccidi Buddha. Civiltà, per esempio: quale civiltà? Quella europea? che siamo, poi noi italiani lasciamo perdere, un crocevia di popoli e culture da tremila anni? Provocatoriamente, abbiamo più punti in comune noi con gli altri popoli del mediterraneo che, per esempio, con un inglese, un norvegese o un polacco. Per quanto riguarda poi il discorso religioso, dopo aver studiato, visto e toccato con mano come ragiona un induista o un buddhista, ho derubricato le polemiche fra le Religioni del Libro a beghe di cortile. Ci si ammazza anche per un parcheggio, e per molto meno, ma sempre di un parcheggio si tratta.

    Stiamo parlando, comunque, di una presunzione etnocentrica di cui dobbiamo sempre tenere presente, e sforzarci di ragionare al netto della stessa. Non dico di eliminarla, perché è impossibile: ogni popolo è, a suo modo, etnocentrico. Intelligenza, nel senso proprio del motto del tuo blog, è esserne cosciente e sforzarsi di mettersi nei panni dell’altro quando lo si vuole comprendere, mettendo anche in discussione, se necessario, i propri assunti di partenza. Un esempio così, a bruciapelo. Generazioni di studenti superiori e universitari si sono formati e si stanno formando sul Reale-Antiseri, un manuale di filosofia tra i più quotati. Ebbene, tale manuale esordisce dicendo cosa è e cosa non è filosofia: ovviamente, aldifuori dell’europa, la filosofia non esiste. Ho detto tutto: non meravigliamoci se poi, chi segue SOLO questa impostazione, si dimostri del tutto incapace di muoversi aldifuori del mondo occidentale, in quell “hic sunt leones” del tutto nebuloso dove si è autoconfinato.

    Chiudo con Ugo da San Vittore (Didascalicon, III, 19). Lo cita Todorov nel suo “La conquista dell’America” (citando a sua volta un altro autore, qui a chi interessa tutta la cronostoria http://www.gliscritti.it/antologia/entry/403). E lo cito unicamente perché, prima dei moderni maestri di pensiero, alle stesse conclusioni ci era già arrivato qualcun altro.
    —-
    Omnis mundus philosophantibus exsilium est, quia tamen, ut ait quidam: “Nescio qua natale solum dulcedine cunctos ducit, et immemores non sinit esse sui”.
    Per coloro che filosofeggiano veramente ogni parte del mondo è un esilio, come ha detto qualcuno [Ovidio, Pontiche I, 3. 35-36]: “Io non so per quale dolcezza la terra natale non vuole farsi dimenticare”.
    Magnum virtutis principium est, ut discat paulatim exercitatus animus visibilia haec et transitoria primum commutare, ut postmodum possit etiam derelinquere.
    È, quindi, una fonte di grande virtù per la mente ben allenata imparare, a poco a poco, a cambiare anzitutto rispetto alle cose visibili e transitorie, in modo da riuscire in seguito a lasciarsele del tutto alle spalle.
    Delicatus ille est adhuc cui patria dulcis est; fortis autem iam, cui omne solum patria est; perfectus vero, cui mundus totus exsilium est.
    L’uomo che considera dolce la propria patria è ancora un tenero principiante; colui per il quale ogni territorio è come il proprio suolo natio è già forte; ma perfetto è colui per il quale l’intero mondo è come una terra straniera.
    Ille mundo amorem fixit, iste sparsit, hic exstinxit.
    L’animo tenero ha concentrato il proprio amore su un unico posto nel mondo; l’uomo forte ha esteso il proprio amore a tutti i luoghi; l’uomo perfetto ha estinto il proprio.
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    In altre parole, prima ancora che di metodo, è una questione di atteggiamento. Alle superiori non avevo ancora gli elementi, le conoscenze, per confutare il buon Reale-Antiseri, ma “sentivo” che non poteva essere così, che in migliaia di anni nessun altro aldifuori di qualche zucca pelata nostrana avesse mai filosofato. I conti non mi tornavano. E fu quell’atteggiamento che mi portò poi ad approfondire, fino a trovare quegli argomenti di cui, allora, intuivo soltanto l’esistenza. Quindi: Quale cultura? Una cultura che nasca da un metodo rigoroso e flessibile nella produzione e riproduzione di modelli di riferimento e, prima ancora, da un atteggiamento aperto e pronto a mettere in discussione le proprie certezze per comprendere (non necessariamente per adottarle!) quelle altrui.

    Un caro saluto.
    Paolo

  • Pare che l’Isis abbia distrutto monumenti di Palmira. Era una città ai confini del deserto, dove si parlava una lingua semitica prossima al’arabo, con il greco come seconda lingua: le iscrizioni sono bilingui, lo stile architettonico è greco – romano con qualche tratto mesopotamico. In pratica, una città araba ai bordi del mondo nomade era parte del “mondo occidentale”, a conferma di quanto posssono variare i “confini tra le civiltà”( non solo geograficamente: ebraismo e cristianesimo sono religioni “mediorientali” o “occidentali”? ). Com’è noto, i paesi afroasiatici affacciati sul Mediterraneo hanno smesso di far parte dell’Occidente in seguito all’espansione islamica – ma nessuno aveva deliberatamente distrutto monumenti di Palmira prima dell’Isis. Quegli edifici che parlavano di un mondo remoto e infedele sono stati colpiti, probabilmente, perché meno la purezza è reale, più si vuole evocarla; vale a dire, se si preferisce, perché è massimo il pericolo di cedere al “Satana tentatore”…

  • L’articolo spiega perché dico che Giannuli (assieme alla sinistra odierna) non ha niente di marxista e tutto di socialdemocratico (nel migliore dei casi). Si parla della globalizzazione *turbocapitalista*. Dove sono le contraddizioni del modo di produzione, la dialettica storicista, la soggettività rivoluzionaria, la lotta di classe o antiimperialista? In compenso il fenomeno viene affrontato secondo due canoni paradigmatici dell’apologetica liberista: la “complessità” (nella bocca dei neoliberisti compagna inseparabile di TINA: there is no alternative) e le “culture” (che ai liberisti interessano per garantirne la convivenza assieme alla riuscita del progetto), addirittura elevate a “struttura” del dato sociale (quale marxismo!).

    E’ l’articolo di uno studioso che vuole garantire e al massimo emendare il capitalismo terminale, non abbatterlo.

    [continua]

  • [continuato]

    Nel tradimento generalizzato della sinistra spetta ormai alla destra far risaltare le antinomie della falsa coscienza imposta dai dominanti. Globalizzazione è termine politically correct per indicare l’egemonia della plutocrazia statunitense e dei capitalismi nazionali ad essa associati. Qui come in ogni altro campo la mobilità illimitata della forza lavoro e dei mezzi di produzione non ha nulla di naturale o giusnaturale: è prevaricazione dei poteri forti del capitalismo predatorio sulle popolazioni assoggettate. Specialmente quelle occidentali, che nell’arco di tre decenni hanno visto devastato il proprio stile e livello di vita dalla delocalizzazione di industria e tecnologia e dall’invasione di masse di disperati invitati dai dominanti per falcidiare i diritti del lavoro. La percezione del loro ingresso in termini di invasione deriva di qui, da concreti rapporti di sfruttamento e di dominio, non dal fantasioso strabismo culturale ricostruito da Giannuli. Ecco la “struttura” negata e dimidiata dai “marxisti” dei 21mo secolo!

    Senza l’imperialismo a stelle e strisce la vantata globalizzazione si accartoccerebbe su se stessa nel giro di sei mesi, ed infatti la crisi della seconda coincide coll’indebolimento del primo. Vi rientra un ventennio di guerrepetroenergetiche e filogiudaiche, portate avanti collo scopo accessorio di convogliare masse di sfollati verso i Paesi ex-sviluppati e così allargare l’esercito industriale di riserva (cfr. Greenhill, Weapons of mass migration). Sarà mica che la conflittualità interculturale e il c.d. terrorismo nascano di qui, da contraddizioni esplosive generate dal conquistatore anglosassone e dal capitalismo di rapina da esso imposto, piuttosto che dalle asettiche propensioni culturali di cui discetta la cultura sponsorizzata dai dominanti?

    Il discorso potrebbe continuare a lungo. Non dico che la globalizzazione sia tutta in queste due righe scritte in 10 minuti (il progresso delle tecnologie digitali ha giocato un ruolo decisivo ecc.). Ma un autore che discute di globalizzazione senza far parola di tutto ciò tradisce la sua scelta di campo.

    • Senza l’imperialismo a stelle e strisce la vantata globalizzazione si accartoccerebbe su se stessa nel giro di sei mesi, ed infatti la crisi della seconda coincide coll’indebolimento del primo (lorenzo )
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      ——

      verissimo…..

  • La civiltà occidentale è meglio qualificata come WEIRD (Western Educated Rich Industrialized Democratic) dagli psicologi ricercatori:

    http://www.theatlantic.com/daily-dish/archive/2010/10/western-educated-industrialized-rich-and-democratic/181667/

    Il risultato di alcuni test (ad esempio sull’asse individuale-sociale) veniva influenzato dall’imprinting culturale di riferimento.

    es: Rethinking the value of choice: A cultural perspective on intrinsic motivation.
    Iyengar, Sheena S.; Lepper, Mark R.

    sintesi tra gli esempi fatti in:
    http://www.ted.com/talks/sheena_iyengar_on_the_art_of_choosing?language=it

    Comunisti prendete nota.

    • “Secondo la concezione materialistica della storia il fattore che in ultima istanza è determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale. Di piú non fu mai affermato né da Marx né da me. Se ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l’unico fattore determinante, egli trasforma quella proposizione in una frase vuota, astratta, assurda. La situazione economica è la base, ma i diversi momenti della soprastruttura – le forme politiche della lotta di classe e i suoi risultati, le costituzioni promulgate dalla classe vittoriosa dopo aver vinto la battaglia, ecc., le forme giuridiche, e persino i riflessi di tutte queste lotte reali nel cervello di coloro che vi partecipano, le teorie politiche, giuridiche, filosofiche, le concezioni religiose e la loro evoluzione ulteriore sino a costituire un sistema di dogmi – esercitano pure la loro influenza sul corso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano la forma in modo preponderante. Vi è azione e reazione reciproca di tutti questi fattori, ed è attraverso di essi che il movimento economico finisce per affermarsi come elemento necessario in mezzo alla massa infinita di cose accidentali (cioè di cose e di avvenimenti il cui legame intimo reciproco è cosí lontano e cosí difficile a dimostrarsi, che possiamo considerarlo come non esistente, che possiamo trascurarlo). Se non fosse cosí, l’applicazione della teoria a un periodo qualsiasi della storia sarebbe piú facile che la soluzione d’una semplice equazione di primo grado”. (F. Engels, Lettera a J. Bloch del 21 settembre 1890)

      (Mio commento in http://aldogiannuli.it/mestiere-di-storico/ a partire da Vladimir Ilic Lenin, Quaderni filosofici)

      “Ricordare l’affermazione di Amadeo [Bordiga] che se si sapesse ciò che un uomo ha mangiato prima di un discorso, per esempio, si sarebbe in grado di interpretare meglio il discorso stesso. ” (Antonio Gramsci)

      Possiamo proseguire quanto vogliamo. Pur nei nostri difetti, siamo un po’ più avanti, Allora_ditelo…

      Un caro saluto.

      Paolo

      • Caro Paolo, non si può proseguire ciò che non è stato iniziato: l’autrice menzionata non si è occupata di “difetti” di comunisti…

        • Alcuni particolari potrebbero risultare d’interesse a meno che non siano cosa scontata.

          Conventional wisdom and decades of psychological research have linked the provision of choice to increased levels of intrinsic motivation, greater persistence, better performance, and higher satisfaction.

          This investigation examined the relevance and limitations of these findings for cultures in which individuals possess more interdependent models of the self.

          In 2 studies, personal choice generally enhanced motivation more for American independent selves than for Asian interdependent selves. In addition, Anglo American children showed less intrinsic motivation when choices were made for them by others than when they made their own choices, whether the others were authority figures or peers. In contrast, Asian American children proved most intrinsically motivated when choices were made for them by trusted authority figures or peers.

          Theoretical and practical implications of these findings are discussed.

  • Carissimo! (Perdonami l’incipit paolino, ma sarà nomen omen…)

    Anche impostando la questione non su un piano di principio (ovvero sul rapporto struttura-sovrastruttura), ma entrando nello specifico dell’argomento, a volte penso che gran parte dell’accademia anglofona sia ferma alla scommessa dei miliardari Randolph e Mortimer nel film Una poltrona per due. Ed è un bene che sia così (almeno per noi italiani), visto che investono in queste ricerche, e non altre, fior di quattrini. Lo stesso potrei dire dei cinesi: è un bene che si limitino a riscaldare minestre già riscaldate, visto che di ricerca spendono ancora di più degli americani. Non oso immaginare cosa accadrebbe se cambiassero, entrambi, impostazione.

    Per esempio, rischierebbero tra qualche anno di arrivare alle stesse conclusioni formulate da Lev Vygotskij un secolo fa. L’ideale sarebbe tutta la bibliografia di Vygotskij, peraltro facilmente scaricabile come tutta la produzione sovietica che sia stata passata almeno una volta sotto uno scanner. Il problema è che è in russo: Pensiero e Linguaggio, in italiano, è un must e si trova abbastanza facilmente, mentre per il resto o ci si affida alla fortuna in qualche fondo di magazzino o mercatino dell’usato, o… prestito interbibliotecario: funziona sempre.

    Rischierebbero anche di giungere alle conclusioni cui arrivarono, per esempio, i sinologi sovietici sull’influenza fra pensiero confuciano e scrittura tramite segni (o hanzi). L’ultimo di loro, che è oggi il primo all’interno dell’Accademia delle Scienze di Russia (RAN), Artem Kobzev, è Autore di quello Studio dei simboli e dei numeri nella filosofia classica cinese che praticamente ha ispirato, applicando lo stesso metodo al cosiddetto “marxismo” di Mao, la mia tesi di dottorato.

    In campo nostrano, Mario Lodi (non solo Cipì) affrontò, sempre da marxista, gli argomenti che tratta il saggio che mi proponi nei suoi scritti teorici, in cui parlava non di bambini stranieri, ma di bambini di campagna e bambini di città, oppure bambini figli di immigrati dal meridione d’Italia e bambini figli di abitanti del luogo.

    Infine, permettimi una nota autobiografica. In una vita precedente, fra la laurea e il mio primo lavoro in una fabbrica di tondini in vetroresina, ero mediatore culturale a tempo pieno: con i cinesi, in primo luogo ma, vista la penuria di questa figura (al punto che mi ero illuso potesse diventare un lavoro), con figli di altri lavoratori asiatici (indiani e pachistani, prevalentemente), di diverse età e condizioni di partenza (nati qui, piuttosto che freschi freschi di ricongiungimento familiare). Ebbene, così come è impossibile parlare di “occidentali” per parlare di gente caucasica originaria del vecchio e nuovo continente, così è impossibile parlare di “asiatici” o “orientali”. Esistono troppe differenze locali. Questo in primo luogo. Poi, fra cinesi, e mi limito all’ambito che conosco per averci vissuto insieme, come puoi accomunare il pensiero di un figlio di impiegati statali vissuto già da piccolo nei nidi statali, quindi nelle materne, e così fino a completamento di tutto il ciclo di studi, a quello di un figlio di operai immigrati in italia e vissuto praticamente coi nonni fino al fatale ricongiungimento (il che avviene praticamente anche a 10-11 anni, o oltre), piuttosto che a quello di un cinese nato in italia? Se ti interessa approfondire l’argomento, ho appena raccolto una sintesi di quei anni di lavoro, di quella vita, in un breve scritto. Lo trovi qui:

    https://www.academia.edu/27944411/Laltra_met%C3%A0_del_cielo_%D0%9F%D0%BE%D0%BB%D0%BE%D0%B2%D0%B8%D0%BD%D0%B0_%D0%BD%D0%B5%D0%B1%D0%B0_Half_the_sky_%E5%8D%8A%E9%82%8A%E5%A4%A9._Rapporto_sulla_comunit%C3%A0_cinese_di_Milano_e_sullo_sportello_di_Assistenza_ai_lavoratori_cinesi_2000_

    Ciao!
    paolo

    • Caro Paolo,

      il lavoro di Mario Lodi ha qualche “affinità” o tale autore ha proprio qualificato “modelli interdipendenti del Sé” con altra denominazione (non resa da Lei nota) ed osservato taluni degli effetti che esso sviluppa comparando gruppi in cui esso si manifesta (anche non asiatici) a gruppi in cui è involuto o assente (anche non occidentali)?

      • PS: (separato perché avrebbe diluito il focus di attenzione)

        Tutti riconducono informazioni a proprie rappresentazioni mentali preesistenti e nel farlo ne riconoscono anche il grado di affinità sulla base di criteri soggettivi.

        Come dal suo commento si evince, possono sorgere difficoltà circa l’efficienza con cui criteri “individuali” guadagnino un consenso più ampio.

        E non diversamente dal “paradosso del sorite” si può prefigurare un “dilemma” nello stabilire valori soglia (cut-off) “condivisi“.

        Dunque può essere “impossibile” parlare di similitudini (o tassonomie) tra culture se il cutoff è troppo elevato oppure tutto ciò che è conoscibile può essere “tutto assimilabile” a qualche testo sacro se il cutoff è troppo basso.

        Non so se mi spiego:

        Per instaurare forme efficienti di interazione (in primis di comunicazione) giova che le sovrastrutture “individuali” (inclusi i cut-off ed i “modelli del Sè”) abbiano un certo grado di omologia interpersonale.

      • Lodi era essenzialmente un maestro elementare, la sua scuola era frequentata da bambini di ogni provenienza: era l’Italia del boom economico e delle forti ondate migratorie interne. La metodologia adottata tendeva a partire dal bambino e dal suo vissuto, ripensando anche il concetto tradizionale di “intelligenza” (quello dei test, per intenderci) e valorizzando doti non tradizionalmente annoverate fra quelle oggetto di valutazione scolastica, creando nuovi modi di alfabetizzazione, educando futuri cittadini di diversa provenienza a convivere civilmente fra loro. In questo, la sua capacità di osservazione e di analisi critica aveva colto quelli che, di fatto, sono nessi ancora oggi poco esplorati. Un esempio, quello che questa cosiddetta inchiesta assume come dato di partenza: l’esistenza di “occidentali” e “asiatici”: da Los Angeles ad Atene ci sono più differenze che da Palermo a Beirut. Da Beirut a Tokyo ci sono più differenze che da Skopje a Tashkent. A Lodi, ma a nessuno di quelli che ti ho citato, sarebbe venuta in mente una ricerca così male impostata.

        Un breve cenno sul passo successivo: “Tutti riconducono informazioni a proprie rappresentazioni mentali preesistenti e nel farlo ne riconoscono anche il grado di affinità sulla base di criteri soggettivi.” Dipende. Non necessariamente.
        A volte, le informazioni impongono un cambiamento delle proprie rappresentazioni mentali, proprio quando il criterio soggettivo “non funziona” e impone una rimessa in discussione delle stesse: i bambini, come sanno gli psicologi dell’età evolutiva, compiono questo ogni giorno. Noi, più cristallizzati, un po’ meno. Ma non disperiamo: come diceva Pirandello, anche noi abbiamo le nostre Epifanie.

        Un caro saluto
        Paolo

      • Caro Paolo,
        pur essendo stata esplicitata la necessità di focalizzarvi l’attenzione, non rilevo nella sua risposta una reale intenzione di chiarire gli aspetti specifici circa il lavoro di Lodi:

        Le lodi sperticate non rispondono al quesito e la sua evasività mi induce a ritenere che Lodi non si sia occupato proprio dell’oggetto della pubblicazione menzionata (disponibile gratuitamente).

        • PS: (separato perché avrebbe diluito il focus di attenzione)

          Temo abbia frainteso il senso dell’affermazione resa sulla rappresentazioni mentali (che si riferiva ad una “necessaria” fase cognitiva di riconoscimento-comprensione) giacché stabilire una relazione di affinità (“ricondurre”) e valutarne il grado , non preclude una fase valutativa successiva: quella che Lei sembra abbia inspiegabilmente evidenziato come alternativa mutualmente esclusiva.

          Riformulando (spero correttamente) una su obiezione sulla pubblicazione, sembra voglia puntualizzare che le osservazioni sul grado di “motivazione intrinseca” statisticamente analizzate sui gruppi “Asiatici americani” e “Anglo Americani” (provenienti da San Francisco) non siano generalizzabili ad “orientali” ed “occidentali” (o anche che i due gruppi non siano “dimostrabilmente” rappresentativi delle etnie esplicitamente menzionate nella pubblicazione).

          Non so quanti fondi abbia impiegato Lodi per lasciare così tante intuizioni da esplorare, ma per esplorare le Sue intuizioni “da Los Angeles ad Atene, da Palermo a Beirut, da Beirut a Tokyo” l’autrice avrebbe avuto necessariamente impiegare molti più fondi.

          La ratio dell’osservazione da “esplorare” rimane il nesso tra “modelli del Sé interdipendenti” e “motivazione intrinseca”.

          Chissà che l’individualismo non fosse un problema durante i soggiorni di riforma del pensiero</a< (思想改造) e per quali motivi non sempre funzionasse sugli occidentali.

          • PPS Ti chiedo nuovamente scusa per i modi, ma quando le 7.52 son già diventate le 7.56, la bambina piange, la moglie si lamenta perché sei ancora li a far niente, devi ancora far tutto e alle 8.34 ti tolgono 6 euro dalla busta paga e rischi, dopo due o tre di queste performance, che ti arrivi una letterina a casa che di solito inizia con “con grande sorpresa ecc. ecc. negligenza ecc. ecc.”, perdi definitivamente la pazienza. almeno, io son fatto così. scusa ancora e ciao!
            paolo

          • Io capisco benissimo quale è il senso delle tue obiezioni, si chiama moltiplicazione degli argomenti.

            Deve esserle sfuggito che pur lamentando le derive argomentative nelle sue risposte mi sono comunque largamente limitato ad esse.

            Temo comunque di non essere disposto a fare da “peppino”.

        • Allora ditelo, come direbbe totò “ogni limite ha una pazienza” ! 🙂
          Io non faccio lodi sperticate di nessuno, né tantomeno di una delle figure principali della letteratura dell’infanzia e di metodi pedagogici innovativi che annoveriamo, suo malgrado, fra i nostri connazionali… non ne ha bisogno. Questo è il testo, da me già citato peraltro: Mario Lodi, Cominciare dal bambino, Torino, Einaudi, 1977. Biblioteca o prima o seconda domenica del mese sulle bancarelle… e si trova. Lì trova tutte le risposte ai suoi quesiti, meno che uno studio sugli americani-asiatici e sugli americani-bianchi. Volevo aggiungere un aggettivo prima di “studio”, ma preferisco chiuderla qui.
          Io capisco benissimo quale è il senso delle tue obiezioni, si chiama moltiplicazione degli argomenti. Io dico A, tu insisti su B, C, D ed E che partono da una frase estrapolata da A. Così non si va da nessuna parte e, più che altro, usando il gergo da scaricatori di porto che sento per otto ore al giorno, si “tirano scemi” gli interlocutori con le cosiddette “supercazzole”. Scusami ma mi è sembrato di essere abbastanza esaustivo parlandoti di metodo, che era quello di cui avrei dovuto “prendere nota”, tu ti aggrappi al fatto che Lodi non si è occupato di asiatici, anzi scusa di asiatici americani (facevi prima a dire bianchi e non bianchi ma neppure troppo neri, la divisione valeva lo stesso)… che ti devo dire, la prima volta penso che ci sia stato un qui pro quo, la seconda anche, la terza dico… parliamo due lingue diverse, altro che differenze fra bianchi e non bianchi, sono le 7.52 e vado a lavorare!
          ciao!
          paolo
          ps sul sixiang gaizao lascia stare, si arriva fino a buddha e forse anche a nostro signore.

          • Caro Paolo,
            Le avevo chiesto se il lavoro di Mario Lodi avesse proprio qualificato “modelli interdipendenti del Sé” con altra denominazione ed osservato taluni degli effetti che esso sviluppa comparando gruppi in cui esso si manifesta (anche non asiatici) a gruppi in cui è involuto o assente (anche non occidentali).

            Nello specifico e continuare con le lodi sperticate a Lodi (dissimulandolo) non fornisce proprio quegli elementi per rendere agevole la verifica delle similitudini e delle differenze.

            Lo studio poi è stato pubblicato su una rivista con revisione paritaria in collaborazione

            Per il progresso materiale e dialettico della disciplina invii pure le sue obiezioni agli editor ed agli autori.

            La auguro di avere una carriera affermata come la loro: buon lavoro.

  • Il globo al 70% è ricoperto dai mari. Il controllo delle rotte è fondamentale.
    L’apertura della rotta artica è un esempio paradigmatico.
    Sull’argomento l’Italia potrebbe dire la sua.
    Sveglia Farnesina !

  • Ecco cosa succede quando non si governa la globalizzazione e invece la si subisce:
    “… noi vogliamo sapere, per geolocalizzarci dove dobbiamo geolocalizzaarci, per dove dobbiamo geolocalizzarci? Sa, è una semplice informazione…”
    Persino Totò viene delocalizzato.

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