Crisi: le origini del disastro.
La crisi, come si sa, ha avuto origini finanziarie, ma questo non spiega tutto. Ci sono ragioni molto più profonde che si riferiscono all’evoluzione dell’economia reale. Dalla fine degli anni settanta, si è manifestata a livello mondiale una tendenza al calo dell’occupazione manifatturiera, nonostante un forte incremento assoluto di produzione industriale; e questo è in larga parte spiegabile con il “salto” tecnologico prodotto dalla combinazione fra robot ed informatica, che ha ridotto la domanda di forza lavoro.
Ma questo calo non è avvenuto omogeneamente: mentre nei paesi in via di sviluppo (prima Corea del sud, Thailandia, Singapore, Taiwan, poi Cina, India e, via via, Vietnam, Messico, Egitto, Turchia, Indonesia, Argentina) la componente di occupazione industriale è fortemente aumentata, nei paesi avanzati (Usa Europa Giappone) essa è crollata, ed è quasi scomparsa nei paesi dell’ex blocco sovietico (salvo Polonia, Germania Orientale e Boemia, nei quali si è registrata una recente ripresa).
Questo andamento è stato determinato in larga parte da un sostenuto processo di deindustrializzazione dei paesi avanzati, nei quali sono stati fortemente ridimensionati settori quali la siderurgia, i materiali da costruzione, la chimica base, il tessile e, parzialmente, l’alimentare.
Un altro fenomeno che ha agito in questo senso è stato della cd “fabbrica globale”, per cui in alcuni settori (soprattutto trasporti e meccanica in generale, ma anche informatica e prodotti per telecomunicazione) i singoli componenti sono prodotti in diversi paesi emergenti, per essere poi assemblati negli stabilimenti della ditta che firma il prodotto. Di fatto, in Occidente hanno resistito solo pochi settori (come la chimica fine, l’ottica o la farmaceutica) ed hanno conosciuto un incremento (sia in termini di occupati che di fatturato) le sole industrie delle armi, del settore satellitare e del lusso.
Questo processo è stato determinato dal massiccio trasferimento di capitali ed impianti in paesi dell’Asia e dell’America Latina e dal parallelo processo di smobilitazione industriale nei paesi avanzati.
Tutto ciò è stato il frutto di diversi fattori come il rigetto delle popolazioni locali nei confronti delle lavorazioni altamente inquinanti, ma soprattutto dall’esigenza di parte imprenditoriale di abbattere i salari. Le delocalizzazioni sono state la principale arma imprenditoriale nella rivincita contro i lavoratori. Un’operazione brillantemente riuscita –grazie alla collaborazione dei governi di Usa, Europa e Giappone, indifferentemente dal loro colore politico nel tempo e da paese a paese- e, mentre i tassi di disoccupazione sono saliti mediamente del 4-5%, i salari reali sono calati, è cresciuta una massiccia fascia di precariato e dovunque è peggiorata la parte normativa del rapporto di lavoro.
Questo trasferimento della produzione verso i paesi del sud del Mondo è stato permesso dal costo inferiore della forza lavoro, spesso priva dei più elementari diritti sindacali, ma anche da un concorso di altri fattori quali la disponibilità di terreni a costo zero per gli stabilimenti, la debole pressione fiscale dovuta all’assenza di un sistema previdenziale e sanitario, l’assenza di qualsivoglia normativa di tutela ambientale ma, soprattutto, dai prezzi bassissimi dei trasporti e dal particolare sistema dei cambi monetari. Il periodo che va dal 1982 al 2006 è stato quello di un autentico “bengodi petrolifero” durante il quale il prezzo del barile (inferiore ai 40 dollari) ha consentito uno sviluppo senza precedenti dei trasporti, soprattutto marittimi, quel che ha permesso ai prodotti di arrivare sui mercati a prezzi ancora largamente concorrenziali, dopo aver percorso migliaia di miglia marine. E infatti sono stati gli anni in cui il prezzo dei noli marittimi (registrato dall’indice Baltic Dry) hanno conosciuto una stagione di fortuna irripetibile.
In secondo luogo i cambi: l’introduzione della fiat money e la conseguente demetallizzazione del sistema monetario, ha avuto riflessi imprevisti in particolare nei confronti della Cina, la cui moneta non è convertibile (in realtà lo è ma solo attraverso la Boc che, ovviamente, applica i criteri che ritiene più opportuni per sostenere le esportazioni). Il risultato è il “grande disordine monetario” di valute sganciate da qualsiasi parametro oggettivo, alcune in reciproco apprezzamento che fluttua di giorno in giorno, altre governate politicamente, altre ancora rette artificialmente dal gioco dei regimi fiscali, ecc.
Di fatto, questo ha reso molto più facili le esportazioni dei paesi emergenti, che operano proprio sui margini offerti dal cambio. Facciamo un esempio molto semplice: l’aglio che consumiamo è in gran parte prodotto in Cina. Si consideri il costo del trasferimento del prodotto da uno dei porti cinesi a un qualsiasi porto italiano e si consideri quanto sia limitato l’utile commerciale del prodotto in sè, dato il suo costo al dettaglio. E’ evidente che a renderlo competitivo rispetto al prodotto locale (che costa immensamente meno per il trasporto) non può essere solo la differenza del costo del lavoro ma che la componente decisiva è proprio quella del regime alterato dei cambi monetari.
Le delocalizzazioni si sono rivelate il suicidio dell’Occidente. Come si è detto, la scelta di deindustrializzare i paesi sviluppati fu orientata in primo luogo a colpire i livelli salariali raggiunti ed a smantellare l’organizzazione operaia che aveva il suo punto di concentrazione nelle grandi industrie. Le nostre economie da industriali sono diventate economie basate sui servizi e sull’intermediazione finanziaria.
Questa ipotesi –che in un primo tempo ha funzionato- si è rivelata fallimentare sul medio periodo e non solo per il disastro finanziario, ma anche quello della bilancia dei pagamenti, intaccata sia dal deflusso di capitali che dal costante passivo della bilancia commerciale. Come dice Emiliano Brancaccio:
<<La bilancia commerciale rappresenta il principale indicatore della forza competitiva del sistema produttivo nazionale. Il surplus commerciale segnala che il Paese non avrà bisogno di deprezzare la propria moneta per reggere la concorrenza, il che rassicura i creditori circa il valore futuro atteso dei titoli emessi….
(per cui), anziché imporre un controproducente pareggio di bilancio pubblico, bisognerebbe orientare le politiche economiche di tutti i Paesi dell’eurozona al perseguimento tendenziale di un altro pareggio: quello delle bilance commerciali. L’Italia, ad esempio, con un disavanzo verso l’estero superiore al quattro per cento del Pil, dovrebbe realizzare interventi strutturali realmente in grado di rilanciare una produttività del lavoro da tempo stagnante..>>
Da oltre venti anni la bilancia commerciale dei paesi sviluppati (con l’eccezione, peraltro non costante, di Germania e Giappone) è sostanzialmente in rosso e questo per due ottime ragioni: perchè lo sviluppo dei servizi non compensa da solo la flessione occupazionale dell’industria e perchè la concorrenza dei paesi emergenti (la cui crescita fu troppo sottovalutata all’inizio del processo di globalizzazione) si è fatta sentire anche in quel campo. Due parole di spiegazione: in primo luogo, mentre quasi tutte le merci sono esportabili, non tutti i servizi non lo sono, per cui, se posso “esportare” i viaggi aerei con rotte internazionali, non posso esportare il servizio tramviario, allo stesso modo il cui, se posso fornire all’estero servizi di consulenza di vario genere, non posso esportare il servizio dell’anagrafe o quello di chirurgia di urgenza. Una parte significativa dei servizi è destinata per sua natura al consumo interno e non può essere diversamente.
Per cui è evidente che la bilancia commerciale, attraverso l’esportazione dei servizi, recupera solo una parte di quello che ha perso sul piano della manifattura.
In secondo luogo, le previsioni sulla capacità di sviluppo dei paesi emergenti sono state molto al di sotto della realtà: la Cia, nel 2002 elaborò una ipotesi di scenario per il 20203 nel quale ipotizzava che la Cina avrebbe raggiunto certi traguardi non prima del 2025, ma essi risultarono poi raggiunti già nel 2008. Nel caso dei servizi la grande sorpresa è venuta dall’India: già da tempo New Dheli è definita il “call center del mondo” per i servizi di consulenza più diversi, oggi inizia ad affacciarsi l’ipotesi di trasferire la diagnostica a medici indiani on line sulla base dei risultati delle analisi cliniche, inoltre le università indiane stanno scalando i primi posti per quanto riguarda le facoltà di matematica, le società indiane offrono servizi di calcolo sempre più sofisticati, le compagnie aeree (Air India, Air Deccan) iniziano a far sentire la loro concorrenza anche sulle rotte internazionali.
Dunque chi pensava che gli “arretrati asiatici” ci avrebbero messo decenni per rivaleggiare anche sui servizi, oggi deve prendere atto che anche qui le cose sono andate molto diversamente.
Per dirla in due parole: le economie avanzate sono state svuotate, perchè la manifattura è emigrata in Asia e i profitti finanziari sono emigrati a Riccolandia. E questa è la base della nostra crisi irrisolta.
Aldo Giannuli
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mirko g. s.
Che lei sappia ualxuno sta wlaborando dei rimedi se sì quali? Grazie.
Pierluigi
Caro Aldo,
la deindustrializzazione è stata accompagnata da uno sviluppo impressionante delle attività finanziarie la cui gestione non è semplice vendita di servizi.
I ricchi di tutto il mondo, infatti, comprano attività finanziarie denominate in dollari o euro.
Pensa… pur di investire in bund s’è disposti ad accettare rendimenti negativi.
E i titoli di stato italiani, un pò come l’aglio cinese, pagano meno di quelli USA !!!
Tanto sembra sfuggire ai denigratori dell’€.
Tanto premesso non condivido la tua analisi per la quale …Le delocalizzazioni sono state la principale arma imprenditoriale nella rivincita contro i lavoratori….
L’economia non è un derby e parlare di rivincita degli imprenditori significa pascersi nella memoria di una stagione storica ormai finita quasi che la globalizzazione fosse frutto di un complotto.
Tale visione è anche assolutoria rispetto al deficit di politica industriale di cui ha sofferto il nostro paese sin dagli anni ’80 per diventare assoluto negli anni di B.
E’ quindi assolutamente necessario salvaguardare con una politica industriale degna di questo nome la manifattura italiana, che è seconda in Europa.
Conclusivamente: non siamo al disastro ed il catastrofismo non resusciterà i lavoratori.
Aldo Giannuli
Momn siamo al disastro? Abbi fede!
pierluigi
Le repliche iettatore sono sempre il tuo forte!
Aldo Giannuli
Abbi fede, ti dico!
giandavide
non credo che sia necessario scomodare i complotti. il neoliberismo è un’ideologia, adottata in modo liturgico da istituzioni che dovrebbero essere serie, i cui effetti sono stati inconfutabilmente deleteri per l’umanità in generale (la fine degli accordi di bretton woods, l’abolizione del glass steagall act, ad esempio). non solo si tratta di fallimenti di cui nessuno si prende la responabilità, ma, non si capisce bene perchè, si tende pure a perseverare nell’errore. direi che le accuse di complottismo possono essere rispedite al mittente: chi accetta l’ideologia neoliberista ha comunque effettuato una dissociazione tra i dogmi teorici e il loro effetto sulla realtà. ben poche differenze con le scie chimiche
andrea
Non bisogna dimenticare che tra il 1965 e il 1982 negli USA e nei paesi di vecchia industrializzazione si è passati da un saggio medio di profitto del 24% ad uno del 12%.
Il neoliberismo nasce proprio in quegli anni e accompagna il tentativo del capitalismo occidentale di recuperare il “profitto perduto” mediante la compressione dei salari, il decentramento produttivo e la finanziarizzazione dell’economia.
E’ da quel momento che, nel mondo occidentale, il capitale, non trovando più un’adeguata remunerazione nell’economia reale si affida alla speculazione finanziaria fino al crollo del 2008.
E’ un salto quantitativo, visto che le transazioni finanziarie arrivano negli anni duemila a 1500 miliardi di dollari al giorno, mentre quelle commerciali sono ferme a 50 miliardi di dollari al giorno, ma anche qualitativo visto che la finanziarizzazione riguarda anche le imprese produttive.
Ad esempio la General Motors e la General Electrics tra gli anni ’90 e i primi anni duemila hanno realizzato dal 40% al 60% dei loro ricavi tramite operazioni finanziarie, dopo che i loro margini di profitto si erano ridotti al 2%.
pierluigi
Quello di esportare capitali e’ un fenomeno proprio delle economie mature. E’ già’ accaduto alla Inghilterra di fine ‘800 – inizi ‘900 sempre a scapito della produzione interna. Non a caso la GB e anche il paese della Thatcher che per prima punta sui servizi finanziari come volano per l’economia..
leopoldo
come dire che il capitalismo consuma anche anche i mercati stessi che crea e non può esistere senza una espansione progressiva e incrementale. Un effetto di questo modello di capitale è l’allungamento della vita e la diminuzione della natalità, simpatici ingredienti per gli scrittori di fantascienza ;D
marcot
Buongiorno Prof. Giannuli,
è esattamente così. Ricordo un ritornello che a metà degli anni 2000 ci veniva ripetuto ad ogni piè sospinto dai media: “siccome la produzione industriale è andata nei paesi emergenti, dobbiamo puntare ai servizi”. Per chiunque avesse un minimo di senno doveva essere ovvio che, prima o poi, i paesi emergenti avrebbero implementato società di servizi competitive a livello internazionale, e ci avrebbero sottratto anche quel settore.
Il problema non è che alla televisione dicano certe cretinate. Il problema è che la maggior parte della gente è disposta a crederle.
Saluti,
Marco
Giancarlo Russo
Prof. Giannuli,
volevo porre l’attenzione su una specifica parte del suo articolo. Ho letto i due libri scritti da Paolo Ferrero, l’attuale segretario di Rifondazione Comunista (uno che, mi par di capire, lei non apprezza molto), secondo cui la crisi finanziaria sia solo la parte più “visibile” di una crisi (sistemica) più profonda, e cioè quella del capitalismo. Abbassando selvaggiamente i salari con la minaccia di delocalizzare (cosa che per molti è avvenuta comunque), i lavoratori hanno – come ha detto anche Lei – subìto pesanti tagli salariali con conseguente perdita di potere d’acquisto, “edulcorato” da prestiti “allegri” che hanno sostituito il reddito. All’inizio questa cosa ha funzionato perché quei soldi, finendo nell’economia reale, facevano sì che la domanda di beni e servizi rimanesse “sostenuta” ma, siccome (questa è una delle tesi del libro di Ferrero del 2012) quei lavoratori continuavano a percepire basse buste paga, alla fine i debiti non venivano ripagati e “il sistema” è infine esploso (già nel 2007, anche se noi ci siamo accorti della crisi solo nel 2008, col crollo di Lehman Brothers). Sicché, sostiene Ferrero, è il liberismo la vera causa della crisi e non “solo” un eccesso di finanza sregolata. Mi piacerebbe sapere se ha letto quel libro e cosa penso di quanto appena detto, grazie.
Giancarlo Russo
Vincenzo Cucinotta
Secondo me, le due cose non sono in contraddizione. La finanziarizzazione dell’economia è certo l’effetto di un’impossibilità del capitale ad avere adeguati profitti dall’attività imprenditoriale.
Tuttavia, pur essendo la finanziarizzazione un effetto, ciò non toglie che a sua volta essa causi effetti successivi.
In sostanza, la finanziarizzazione è divenuta patologica quando il denaro, il credito, il settore finanziario in generale, smette di costituire un mezzo al servizio dell’economia, e diviene invece un mezzo per aumentare i profitti.
Questo abuso della finanza determina il fatto che l’intera economia mondiale è come se fosse seduta su un barile di tritolo, pronta ad esplodere per la prima scintilla che accidentalmente finisse dentro il barile, e questo è qualcosa che inevcitabilemnte avverrà, anche se non possiamo prevedere i tempi. La mia opinione in proposito è che avverrà abbastanza celermente. probabilemnte prima del 2020.
In sostanza, è vero la causa prima nasce nell’economia, ma il fatto steso di aver tentato di scongiurare la crisi aumentando in maniera incredibilmente alta l’attività finanziaria, ha a sua volata causato degli ulteriori problemi, ha funzionato da moltiplicatore della crisi.
Giancarlo Russo
A tale proposito, va tenuto presente che la quantità di titoli finanziari che “fluttua” è pari a circa 12-13 volte il prodotto interno lordo mondiale. Sicché, concordo con quanto lei afferma: è certo che questa bolla esploderà (si parla di 6500 miliardi di euro in derivati solo in Europa, pari a più del quadruplo del pil italiano, ed è tutto dire) dalle conseguenze incalcolabili. Chissà se, per allora, si sarà sviluppato un minimo di senso civico, sociale e politico anche solo per ipotizzare vagamente un ripensamento degli attuali assetti politici ed economici.
A proposito, lei ha letto quei due libri? Il prof. non ha risposto in merito.
Vincenzo Cucinotta
No, Giancarlo, in effetti non l’ho letto, mi affidavo al suo breve resoconto.
Ugo
Prof. Giannuli,
dire che le delocalizzazioni si sono rivelate il suicidio dell’Occidente mi pare sia fuorviante; per me renderebbe meglio l’idea dire che si è trattato dell’omicidio premeditato dei benessere raggiunto nel dopoguerra dai lavoratori occidentali da parte delle loro stesse classi dirigenti.
Del resto le élites capitalistiche mondiali sono cosmopolite: non gli importa affatto dove si svolga la produzione ma solo trarne beneficio.
I bassi salari e la disoccupazione sono indispensabili per mantenere le popolazioni sempre ben a contatto con quella che il liberista Padoa Schioppa cinicamente chiamava “la durezza del vivere” ed anche per impedire quella inflazione che per un capitalista è assolutamente deleteria.
Trovo che questa sia la differenza fondamentale fra le attuali élites capitalistiche mondiali e la nobiltà pre-rivoluzione francese. Infatti questi ultimi basavano il loro potere sulle rendite fondiarie, in sintesi la proprietà della terra, quindi necessitavano delle nazioni; i primi invece basano il loro potere sulle rendite finanziarie, in sintesi il controllo della produzione del denaro, di conseguenza le nazioni e/o qualsiasi altra cosa rallenti la mobilità dei capitali è un impiccio da eliminare.
La manovra in atto in Europa con l’Euro è paradigmatica da questo punto di vista.
Questo genere di globalizzazione non è certo una novità infatti ricordo che qualcuno già nel 1848 l’aveva ampiamente descritta:
“La necessità di uno sbocco sempre più vasto per i suoi prodotti lancia la borghesia alla conquista dell’intera sfera terrestre. Bisogna annidarsi dappertutto, dovunque occorre consolidarsi e stabilire collegamenti.
La borghesia ha strutturato in modo cosmopolitico la produzione e il consumo di tutti i paesi grazie allo sfruttamento del mercato mondiale. Con grande dispiacere dei reazionari essa ha sottratto all’industria il suo fondamento nazionale. Antichissime industrie nazionali sono state distrutte e continuano a esserlo ogni giorno. Nuove industrie le soppiantano, industrie la cui nascita diventa una questione vitale per tutte le nazioni civili, industrie che non lavorano più le materie prime di casa ma quelle provenienti dalle regioni più lontane, e i cui prodotti non vengono utilizzati solo nel paese stesso ma, insieme, in tutte le parti del mondo. Al posto dei vecchi bisogni, soddisfatti dai prodotti nazionali, se ne affermano di nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti delle terre e dei climi più lontani. Al posto dell’antica autosufficienza e delimitazione locale e nazionale si sviluppano traffici in tutte le direzioni, si stringe una reciproca interdipendenza universale fra le nazioni. E ciò sia nella produzione materiale che in quella spirituale. Le conquiste spirituali delle singole nazioni divengono bene comune. L’unilateralità e la delimitazione nazionale diventano sempre meno possibili e dalle varie letterature nazionali e locali si costruisce una letteratura mondiale.”
Immagino non occorra citarne la fonte…
Queste affermazioni sono di una attualità sconcertante e l’unico concetto da aggiornare ai nostri tempi è quello di borghesia.
Personalmente sono convinto che l’origine della attuale crisi sia semplicemente la riaffermazione del capitalismo liberista allo stato puro e della sua solita atavica e congenita incapacità di ridistribuire i profitti, problema a cui nel primo trentennio del secondo dopo guerra aveva messo una toppa l’applicazione di politiche economiche ridistributive ispirate a Keynes.
Pierluigi
Come volevasi dimostrare globalizzazione e delocalizzazione della produzione sono fenomeni risalenti.
Il fatto che siano descritti già nel Il manifesto del partito comunista conferma come non siano frutto di un gomblotto ma che siano conseguenza naturale di dinamiche economiche evidenti già 170 anni fa.
Lo sviluppo dei trasporti ed il venire meno dei blocchi della guerra fredda ha enormemente amplificato detti fenomeni con la conseguente perdita di potere contrattuale dei lavoratori occidentali.
Ed anche all’immigrazione consegue lo stesso effetto, anche se non è di sinistra ricordarlo.
E come mai la Germania si sottrae al declino della manifattura occidentale?
Aldo Giannuli
Scusa ma chi ha parlato di complotto?
pierluigi
Uno dei commentatori parla di omicidio premeditato del benessere dei lavoratori occidentali da parte delle loro stesse classi dirigenti.
Se non e’ un gomblotto questo ….
Aldo Giannuli
prendi troppo alla lettera le figure retoriche
Ugo
Infatti Pierluigi, la mia era una similitudine conseguente a quella del professore.
Non ridurrei mai la lotta di classe e le politiche economiche liberiste ad un complotto.
La vedo piuttosto come una strategia vincente il cui successo sta paradossalmente portando al collasso il capitalismo perché ne fa esplodere le sue stesse contraddizioni, proprio come previsto Marx 170 anni fa.
pierluigi
@ Aldo & Ugo
A me sembra che non riusciate a leggere la realtà’ con lenti che non siano quelle della lotta di classe.
Il mondo, pero’, e’ un po’ cambiato ed oggi le oligarchie dominanti, essendo cosmopolite, delle classi subalterne e delle loro lotte se ne fottono allegramente.
I piccoli imprenditori, invece, falliscono e si suicidano grazie ad uno stato che paga a distanza di anni e che esercita una pressione fiscale elevatissima fornendo servizi di infima qualità’.
E quindi, spiegatemi perche’ in Germania la delocalizzazione non provoca la catastrofe evocata
Ugo
L’analisi di Marx è stata geniale per l’epoca in cui fu scritta ed in alcuni punti è tuttora valida come dimostra anche la citazione di cui sopra e, anche se non sono Marxista, apprezzo la ragione quando la vedo da qualsiasi parte provenga (anche da Gherardo Maffei che qui sotto, fra molti pregiudizi qualcosa di interessante l’ha scritto).
Pierluigi ti invito a non fermarti all’uso consuetudinario delle parole; lotta di classe è una definizione antica ed appesantita da pregiudizi ma rende ancora l’idea purché si pensino le classi in modo diverso dal 1800, se preferisci chiamiamoli 1% contro 99%. La media e piccola borghesia come ad esempio i piccoli imprenditori e le professioni intellettuali adesso fanno parte a pieno titolo della forza lavoro che è ampiamente sfruttata da quella che era l’alta borghesia ma che ormai sarebbe meglio definire con un concetto tipo: “neo-feudalesimo finanziario internazionale”.
Lo stato non paga ed esercita una pressione fiscale elevatissima perché non ha capacità di spesa non potendo creare il denaro necessario per perseguire qualsiasi politica economica non sia in accordo con le direttive dalla BCE che sono chiaramente tese, con grande successo, ad ottenere la deindustrializzazione dell’Italia.
Infine la Germania non sta affatto bene, il prof. Bagnai lo spiega molto meglio di quanto potrei fare io:
http://goofynomics.blogspot.it/2014/08/qed-37-la-germania-riassunto-per-i.html
Gherardo Maffei
Citate ad ogni piè sospinto Karl Mordechai figlio di un rabbino, meglio conosciuto come Marx.Badate che vi sono anche altre correnti di pensiero, altri autori, a cui poter attingere a piene mani, per capire la catastrofe attuale. Perché non fate una salutare lettura del “Tramonto dell’Occidente” di Oswald Spengler, che aveva anticipato abbondantemente a cavallo dei due secoli decorsi la fine della porcilaia attuale denominata occidente.Oppure attingere al pensiero economico di Werner Sombart, leggendo il suo libro scritto, agli inizi del novecento “Perché non vi è il socialismo negli USA”. Poi noto che si tende ad ironizzare sulla teoria del complotto nel corso della storia. Magari da parte delle varie “anime belle” che pullulano in questo sito e che hanno mandato all’ammasso il cervello, intossicati fino al midollo, con complotti “neri” vari, elaborati da parte dei “fontanologhi” in servizio permanente effettivo, tutti smentiti poi dalle sentenze assolutorie delle toghe.Meditate invece come hanno fatto la famiglia dei cosmopoliti Elkan ( imparentata con la nota famiglia di banchieri parigini Rotschild) dopo aver liquidato gli Agnelli, a diventare padroni della FIAT, portandola a Detroit (USA) e la sede legale in un paradiso fiscale.Certo se poi leggiamo il rifondaiolo Ferrero, non capiremo mai una mazza. Non moriamo idioti!