Costituzione materiale: le origini del dibattito da Santi Romano a Costantino Mortati.

Per comprendere le vicende costituzionali degli anni trenta (e non meno quelle successive di epoca repubblicana) è necessario partire dalla crisi di fine ottocento dello stato liberale conclamata con l’emergere della questione sociale e con la sua inadeguatezza ad affrontarla.
Gregor Jellinek fu fra i primi a tentare di stabilire un nesso fra diritto e decisione politica (che non era certamente negata, ma ammessa solo come precedente logico necessario) per poi ricavarne la fondazione di un diritto positivo, con proprie rigidità anche rispetto alla volontà politica. Sotto la suggestione della nascente sociologia –che cercava di applicare alle comunità umane le leggi scoperte dalla biologia- , un gruppo di giuristi prevalentemente francesi (Leon Duguit, Maurice Hariou, Raymond Carrè de Malberg), ma non solo (anche Vittorio Emanuele Orlando ed il già citato Jellinek) iniziò ad affermare l’idea, inizialmente poco precisa, di una “costituzione materiale”, come apparato necessario all’attuazione di quella formale ed in rapporto di reciproco condizionamento con essa. Questo indirizzo di incipiente sociologia giuridica si scontrò immediatamente con l’egemone scuola positivista, che vedeva nella norma l’unico referente giuridico.
Santi Romano, già allievo di Vittorio Emanuele Orlando”, nel 1916, pubblicò “L’ordinamento giuridico”1 che costituì la più organica sistematizzazione teorica dell’indirizzo antipositivista. Romano partiva dall’affermazione per la quale diritto non è solo l’insieme delle regole, ma include un antestante, di cui le regole sono solo l’espressione e questo antestante sono i rapporti sociali: ubi societas ivi jus. La società è comunque capace di autoregolarsi, anche senza produrre norme esplicite che, peraltro, prima di essere scritte, sono state consuetudinarie. Esse sono il prodotto della cultura che tiene insieme l’aggregato sociale. Romano a differenza di Jellinek, dal quale, pure era influenzato) non identifica con la sola decisione politica l’antestante che considera interno al diritto come suo momento fondativo. D’altro canto, la norma è sempre in ritardo sul fatto ed ha costantemente bisogno di essere “interpretata evolutivamente”2, dunque la norma è parte di un processo che nasce prima della sua elaborazione e finisce con l’interpretazione giurisprudenziale. È palese, in questo, tanto la radice del diritto romano che, come si sa, era essenzialmente giurisprudenziale piuttosto che normativo, quanto la contaminazione con la nascente sociologia giuridica.
Per Romano, il diritto è una “secrezione spontanea” della società e si afferma in primo luogo come consuetudine, quindi come decisione, poi come norma positiva, infine come sua interpretazione giurisprudenziale e il tutto costituisce l’ordinamento giuridico.
Ma una volta affermata l’esistenza di un ordinamento giuridico come realtà di fatto, nulla impediva che potessero esistere e convivere più ordinamenti giuridici in rapporto di reciproca indifferenza o di integrazione reciproca o, ancora di reciproco contrasto. E’ abbastanza noto l’esempio che fa della Mafia che, nella sua opposizione all’ordinamento giuridico statale, tuttavia costituisce un suo ordinamento interno. Ma ovviamente, la parte più ampia del testo è dedicata all’esperienza storica della coesistenza fra ordinamento statale ed ordinamento ecclesiale. Quel pluralismo ordinamentale tipico della nostra storia nazionale.
Con Romano nasceva la scuola istituzionalista che ebbe a Roma il suo primo nucleo con Giuseppe Chiarelli, Sergio Panunzio ed i più giovani Costantino Mortati, Vezio Crisafulli, Giuseppe Maranini, che, dopo, saranno fra i più importanti costituzionalisti di epoca repubblicana.
Contro le tesi di Romano si espresse Hans Kelsen dando vita a quello che fu il più grande dibattito giuridico del Novecento, nel quale si inserì anche Carl Schmitt.
Kelsen sostenne che occorresse separare con nettezza il diritto tanto dalla natura quanto dalla politica e dalla morale, poiché il diritto ha una funzione qualificante in sé e, pertanto la dottrina pura del diritto non può che essere teoria del diritto positivo e generale, basato sulla Grundnorm (norma fondamentale) posta al vertice delle fonti ed alla quale tutte le altre norme debbono essere subordinate. A queste tesi Kelsen dette compiuto svolgimento nel 1934 con la “Dottrina pura del diritto3 (poi rielaborata nel 1960; ), ma, parte di esse era stata anticipata da una raccolta di saggi del 19214 ed è, quindi, poco successiva al libro di Romano.
In realtà, dietro lo scontro apparentemente tutto scientifico fra l’istituzionalismo di Romano, il normativismo kelseniano e il decisionismo schmtittiano (sul quale non abbiamo modo di soffermarci come meriterebbe, perché ci porterebbe troppo lontano rispetto all’asse del nostro ragionamento), si celava uno scontro di evidente natura politica. Kelsen era preoccupato di salvare l’impianto individualistico dell’ordinamento liberale e temeva l’organicismo degli indirizzi istituzionalista di Romano e decisionista di Schmitt (peraltro niente affatto coincidenti fra loro) come potenzialmente portatori di ordinamenti autoritari. Ma se questo timore era sicuramente fondato per un maestro della rivoluzione conservatrice come Schmitt, lo era meno per quanto riguarda Santi Romano che, pure, personalmente ebbe forte compromissione con il fascismo (fra l’altro, concesse il suo prestigioso nome, quale membro del comitato scientifico, della rivista “Il diritto razzista”) ma il cui indirizzo di studio era aperto ad esiti molto diversi fra loro (come si dimostrerà in epoca repubblicana) e che, peraltro, trovava alcuni punti di convergenza persino con le teorie giuridiche di giuristi sovietici come Petr Stucka ed Eugenij Pasukanis5.
Tuttavia, è innegabile che la teoria del pluralismo ordinamentale abbia fornito un’ ottima linea di difesa al regime fascista che poteva presentare il Partito ed i suoi organi come un ordinamento giuridico in sé che si integrava con quello dello Stato.
Le diverse riforme fasciste, di fatto ebbero l’effetto di svuotare lo Statuto di gran parte della sua efficacia, pur senza mai toccarne la lettera. Già le norme sul Gran Consiglio, contenenti il ben noto passo sulla successione e sulle prerogative regie, si muovevano in una dimensione che scavalcava lo Statuto: se ci fossero potute essere nuove norme in materia, esse non avrebbero potuto essere che in ambito statutario che, per il carattere ottriato della carta, non potevano che spettare al Sovrano. Dunque, una eventuale modifica decisa dal Re avrebbe dovuto essere sottoposta al parere preventivo del Gran Consiglio: una norma palesemente lesiva delle prerogative regie e peggio ancora sarebbe stato se l’ipotesi di modifica fosse partita dalla Camera (istituzionalmente controllata dal Pnf) e poi rafforzata dal “parere” del Gran Consiglio.
Le testimonianze sono discordi circa l’atteggiamento personale di Vittorio Emanuele III in quella occasione, ma sono concordi nel sostenere che ci fu un certo scandalo negli ambienti di Corte. In ogni caso, la finzione giuridica del carattere “consultivo” salvò capra e cavoli ed una successiva dichiarazione del Gran Consiglio che stabiliva che, con certezza, l’erede al trono era solo Umberto, principe di Piemonte, valse a far rientrare la cosa.
D’altro canto, la porta allo svuotamento dello Statuto era stata aperta già con le “leggi fascistissime”, che avevano vanificato le poche garanzie riservate ai cittadini, e con la l. 25 novembre 1926 n 2008, istitutiva del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, che agiva secondo le norme del codice penale militare di tempo di guerra, e che era sostanzialmente affidato alla Milizia Volontaria per la difesa dello Stato.
L’approvazione della legge sul Gran Consiglio, peraltro, accese un dibattito sulla natura giuridica del Pnf. Santi Romano, teorizzò che il Pnf avesse rilievo costituzionale in quanto “ausiliario dello Stato” sia nel senso politico che giuridico, “intimamente collegato con lo Stato o a questo sottoposto, ma distinto da esso”6. Ancor più spericolato fu il contributo di Pietro Chimienti, per il quale il partito era “un’istituzione costituzionale dello Stato perché essenziale alla costituzione giuridica dello Stato, pur senza avere la qualifica di organo costituzionale perché non ha attribuzioni di Stato>> dimenticando, però, già nel 1926 era stato istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, affidato alla Mvsn che aveva attribuzioni di ordine statale ed era una articolazione del partito. Carlo Costamagna identificava il Pnf come soggetto di natura pubblica per la sua finalità di servizio allo Stato in forma di milizia civile.
Più prudentemente, Giovanni Salemi sostenne la natura di soggetto di diritto pubblico del Pnf, ma tenendolo distinto dallo Stato e Arturo Carlo Jemolo (che, a differenza del suo maestro Francesco Ruffini, prestò giuramento di fedeltà al regime fascista), ritenne che il Pnf avesse funzione solo politica 7
Altri interventi sostanzialmente consentanei alla legge vennero da Oreste Ranelletti, Gino Dallari, Paolo Biscaretti di Ruffia, Costantino Mortati; e dunque, possiamo dire che i giuristi, non solo quelli di indirizzo istituzionalista, ma anche altri indirizzo più “classico”, furono abbastanza allineati al regime.
Il conflitto, per quanto coperto, ci fu, invece nel 1938 con la legge che promuoveva il Presidente del Consiglio al rango di Maresciallo d’Italia e capo delle forze armate in caso di guerra. Le vivaci rimostranze del Re ottennero una modifica molto pasticciata per la quale lo stesso grado era riconosciuto al Re che, in questo modo, si trovava sullo stesso piano del suo Presidente del Consiglio, una situazione sicuramente contraria a quanto stabilito senza ombra di dubbio dall’art 5 dello Statuto.
Questa volta il Re sollecitò un parere di legittimità costituzionale della norma al Presidente del Senato, Santi Romano che, in due giorni, rispose sostenendone la piena legittimità. Secca la reazione del Re:

<< I professori di diritto costituzionale, specialmente quando sono dei pusillanimi opportunisti, come il professor Santi Romano, trovano sempre argomenti per giustificare le tesi più assurde: è il loro mestiere, ma io continuo ad essere della mia opinione. Del resto non ho nascosto questo mio stato d’animo ai due presidenti delle Camere, perché lo rendessero noto ai promotori di questo smacco alla Corona che dovrà essere l’ultimo.>>8

Pertanto la torsione dello Statuto era giunta molto vicina al punto di rottura e il Re lo faceva presente. Certamente avrebbe potuto non firmare (si giustificò con il desiderio di non produrre una crisi in un momento internazionale particolarmente delicato), ma questo avrebbe portato con ogni probabilità ad un braccio di ferro con il regime ed il Re non poteva essere affatto sicuro che l’eventuale crisi si sarebbe risolta in suo favore, anche se, presumibilmente, avrebbe potuto contare sulla lealtà dei carabinieri e, probabilmente dell’esercito. Ma il 1938 non era ancora il 1943.
Di fatto, però, il problema costituzionale si poneva, l’alibi della “flessibilità” dello Statuto non reggeva più molto e la dottrina fu sollecitata a studiare il problema, fornendo la base per le successive decisioni. Decisivo, in questo senso fu il lavoro di Costantino Mortati “La Costituzione in senso materiale”, importante, come vedremo, anche ai fini del successivo sviluppo costituzionale in epoca repubblicana.
In origine, come ricorda lo stesso autore, il testo avrebbe dovuto comparire in una raccolta di scritti in onore di Santi Romano, ma non essendo stato finito in tempo, compariva qualche tempo dopo molto ampliato ed in veste di libro, ma sempre come omaggio al suo maestro.
Mortati era stato fortemente influenzato dalle teorie elitiste di Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels che sostenevano l’ineguaglianza degli uomini da cui derivava che la funzione di governo fosse destinata a pochi mentre la grande massa dei governati dovesse essere necessariamente molto più numerosa. Conseguentemente, e a differenza del suo maestro Romano, Mortati non riteneva che l’ordinamento giuridico di una società potesse emergere spontaneamente, ma in conseguenza di un preciso indirizzo politico razionalmente e coerentemente elaborato9. Egli aveva una visione non armonica ma conflittuale della società e, pertanto, riteneva che il progetto di un ordinamento giuridico non potesse essere che opera di parte, di quella parte meglio organizzata e più capace di imporsi agli altri. E, infatti, Mortati, convinto assertore delle teorie di Mosca e Pareto, riteneva che solo ad una èlite spettasse il compito di determinare l’indirizzo politico che avrebbe creato l’ordinamento giuridico e che questa èlite dovesse essere a capo di un partito politico, strumento necessario per la sua affermazione.
Come nota Dogliani10, se Mortati si fosse fermato qui, sarebbe stato un decisionista come Schimitt, al contrario egli criticava il decisionismo per non sapere distinguere fra l’indirizzo politico generale e la politica contingente, in questo modo, a suo avviso, cadendo nell’irrazionalismo e vanificando la stessa nozione di diritto costituzionale. Per evitare che politica, diritto e costituzione si fondessero in un unico magma indistinto, dove la politica contingente avrebbe riassorbito il resto, il giurista italiano elaborava un concetto di costituzione materiale che “imponeva uno scarto ed il recupero dei tratti trascendenti della costituzione rispetto alla mera volontà politica”11. La dottrina positivistica aveva accettato di buon grado una lettura di totale flessibilità dello Statuto (salvo che per la natura monarchica dell’ordinamento, unico dato non mutabile) e con ciò stesso si era privata della possibilità di darsi una dottrina della costituzione come atto normativo vincolante nei confronti degli stessi attori politici che l’avevano prodotta, A tutto questo, Mortati contrappose la sua teoria di costituzione in senso materiale fondata su un indirizzo politico generale distinto dalla politica contingente e vincolante per esso. La costituzione per Mortati è il progetto di società e di ordinamento che l’èlite vincente si dà. Ed è questo che dà luogo ad una costituzione formale come servente rispetto a quella materiale:

<< La funzione strumentale della costituzione formale rispetto alla costituzione materiale può assumere in determinate circostanze storiche modulazioni peculiari.
Una costituzione scritta può svolgere, per esempio, funzioni garantiste e certificative di patti politici tra forze concorrenti: in questo caso si accentua la sua forza oggettivizzante di limite e di vincolo, alla stessa classe governante>>12

E questo afferma il carattere relativamente rigido della Costituzione, dall’altro ne decreta la validità sinché regge la Costituzione materiale che la sorregge. Per quanto attiene al rapporto fra riforme costituzionali introdotte dal fascismo e Statuto, c’è un passo delle conclusioni che, pur nella sua astrazione, è illuminante:

<<.. Ma soprattutto nei riguardi della posizione giuridica da attribuire al Partito nello Stato è necessario far riferimento alla correlazione essenziale fra il fine politico e la forma dello Stato. Se è vero che, nell’esame di questa posizione, non può prescindersi dalla considerazione delle particolarità della disciplina giuridica stabilita dai singoli ordinamenti positivi … è vero altresì che l’identità propria della funzione propria del partito nello Stato moderno agevola l’interpretazione dei testi positivi e può portare a dimostrare il carattere solo apparente delle divergenze fra ordinamenti diversi , desunte dall’esame comparativo delle norme che lo disciplinano>>13

Ovvero: lo Statuto va interpretato alla luce della presenza del Partito vincente e del suo programma politico, pertanto esso è riassorbito in un contesto costituzionale che include quelle stesse riforme a partire da quella relativa alla costituzionalizzazione del partito stesso e del suo Gran Consiglio. In questo modo lo Statuto restava vigente ma “incapsulato” all’interno dell’ordinamento fascista.

Aldo Giannuli

1) Santi ROMANO “L’ordinamento giuridico” il volume ebbe una sua edizione successiva, rivista dall’autore nel 1946; noi lo citiamo in questa seconda edizione del 1946 a sua volta ripubblicata da Sansoni, Firenze 1977

2) Identica formula, non a caso, verrà usata negli anni settanta, da Magistratura Democratica, la corrente più a sinistra dei magistrati italiani

3) Hans KELSEN “La dottrina pura del diritto” Einaudi, Torino 1960

4) Hans KELSEN “Il primato del Parlamento” Giuffrè, Milano 1982

5) Petr STUCKA, Eugenij PASUKANIS Andreij VYSINSKIJ “Teorie sovietiche del diritto” Giuffrè, Milano 1964

6) cit. in Claudio SCHWARZENBERG “Diritto e giustizia nell’Italia Fascista” Mursia Milano 1977 p.71.

7) Ibidem p. 72

8) Renzo DE FELICE “Mussolini il duce” Einaudi, Torino 1981, pp.33-4

9) Sulla teoria dell’indirizzo politico in Mortati vedi Mario DOGLIANI “Costituzione Materiale ed indirizzo politico” in Alessandro CATELANI e Silvano LABRIOLA (A cura di) “La costituzione materiale” Giuffrè, Milano 2001.

10) Op cit. p. 181

11) Ivi

12) Giuseppe VOLPE “Il costituzionalismo del Novecento” Laterza, Roma Bari 2000, p. 123

13) Costantino MORTATI “La Costituzione in senso materiale” Giuffrè, Milano 1940, p. 233

aldo giannuli, costituzione materiale


Aldo Giannuli

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Comments (10)

  • Grazie per questo fenomenale e denso excursus nella dialettica intorno alla filosofia del diritto: perché la costituzione repubblicana è “rigida” proprio in ottica antifascista.

    Sono afflitto nel vedere che né questo articolo, né l’articolo che propone le slide con l’incredibile lavoro sulla crisi degli studenti non ha aperto a dibattiti.

    Complementare e fondamentale, è comprendere perché la Costituzione repubblicana è fondata sul lavoro e sullo Stato sociale: ovvero è antiliberista proprio in quanto antifascista.

    Questo, come i precedenti, è un lavoro degno di nota che segnalo:

    http://orizzonte48.blogspot.cz/2015/12/democrazia-federalismo-indipendentismo.html

    Come il precedente, “parole nuove” per un discorso vecchio: il “federalismo interstatale” come restaurazione liberista in funzione anti-democratica; ovvero, in presenza di “vincolo esterno”, possono essere schmittianamente “piegate” le costituzioni rigide. I trattati di libero scambio – da Maastricht al TTIP, passando dallo SME e dalla “banca centrale indipendente” – come strumenti per dare il potere di dichiarare “lo stato d’eccezione” ai mercati finanziari.

    L’identità federalismo/liberismo.

    Cordiali saluti.

  • L’articolo é molto apprezzabile. Non condivido invece il commento. La Costituzione é figlia del proprio tempo. E’ sicuramente antifascista, cioé divisiva, sotto il profilo politico. E’ antiliberista ma anche liberista nella misura in cui riproduce concetti, come correttamente rilevato dal prof. Giannuli, che maturarono negli anni 30 e contaminarono tutte le dottrine politiche, sociali, economiche. Afferma la tutela della proprietà privata, il diritto al risparmio ma canalizzati in un regime di controllo pubblico. Anche il fascismo degli anni 30 e 40 era antiliberista, pur avendo attinto, almeno agli inizi, da quella cultura. Gli Stati Uniti, Paese certamente non antiliberista, negli anni 30-40 videro un incremento della presenza dello Stato nella vita economico e sociale. La rigidità della costituzione, cioé la presenza di una procedura specifica e vincolante per modificarla, non credo sia una caratteristica della cultura antiliberale, antiliberista, antifascista, come scritto nel post. Anche Kelsen teorizzò la rigidità della costituzione; la costituzione USA é rigida. Il tratto della costituzione italiana é quella di essere divisiva sul piano politico e di esprimere valori provenienti dai movimenti politici vittoriosi nel periodo in cui venne elaborata, secondo la dicotomia schmittiana tra amico/nemico, inevitabile per un Paese che usciva dalla guerra civile

    • No “Io”, non credo che le tue considerazioni siano in alcun modo condivisibili: la Costituzione USA non ha *nulla* a che fare con la Costituzione italiana.

      La prima è il trionfo dello Stato liberale, ovvero dell’elitismo capitalista – almeno, fino a prova contraria, stando alle argomentazioni proposte dalla ricerca linkata – la seconda è il trionfo della democrazia sociale: la prima è una democrazia repubblicana “cosmetica”, la seconda, la nostra, una democrazia “sostanziale”.

      È scorretto filologicamente chiamarla “divisiva politicamente”: proprio perché la Costituente ha rappresentato gli Italiani a suffragio universale, in *tutte* le sue forze politiche, convenendo ad un programma (progressivo!) condiviso da *tutte* queste forze: dai reazionari liberali, all’estrema sinistra psiuppina.

      Vengono esclusi “rigidamente” – ma in *comune* accordo e compromesso – *tutte* quelle istanze non compatibili con il programma costituzionale a cui appartengono il fascismo e il liberismo; in particolare, in un celebre scambio con Einaudi, Ruini consegna le teorie economiche neoliberali di Einaudi all’obsolescenza ottocentesca. Non sono compatibili con la Costituzione: la proprietà privata è “garantita” ma è “limitata” dalla esigenze sociali, come tutta l’economia della Nazione, che viene subordinata a finalità sociali. Se viene garantito il *risparmio* costituzionalmente, non può venire garantita la “stabilità finanziaria”. Se viene garantito il *lavoro*, non può essere garantito il *profitto*.

      Dove sarebbe il liberismo? Viene rigettato completamente. Il punto è sapere cosa è il “liberismo”, perché pare tu confonda l’economia di mercato in un ordinamento socialista, con il liberismo economico a fondamento dello Stato liberale: già Marx nel Manifesto mette in luce l’abuso del termine “libertà” dei borghesi: un conto la libertà di commercio rispetto ai “vincoli medievali”, un conto quella illimitata e “darwinista” dei liberali.

      Non a caso, con buona pace dei nostalgici della RSI, tutti i marginalisti e gran parte dei liberali sostennero il fascismo, che venne visto come garanzia dirigista per conservare i privilegi delle élite mercatista dalle rivendicazioni democratiche dei socialisti. Salvo poi pentirsene data la naturale contraddizione dialettica di cui il nazionalismo fascista era gravido: l’intervento dello stato in economia che apriva le porte per l’identità nazionale e di classe delle masse di lavoratori, nel momento in cui le rivendicazioni democratiche e socialiste sarebbero diventate più violente. Il nazifascismo scoppiò in faccia agli angloamericani che, grazie a Stalingrado, dovettero concedere le democrazie costituzionali e il keynesismo.

      Liberali alla Calamandrei pronunceranno il celebre discorso a Milano del ’55 che potrebbe essere pronunciato da uno psiuppino riformista E rivoluzionario.

      Durante la Costituente, nell’avanguardia intellettuale c’è una grandissima crescita culturale.

      L’articolo del Professore non rende ragione a Mortati, che specificherà che la “democrazia è *sociale* o non è”.

      Non è assolutamente vero, quindi, che i Costituenti cedono allo spauracchio bolscevico – nonostante il terentennio d’oro keynesiano sia da imputarsi geopoliticamente a questo – semplicemente la *sinistra economica* trova la convergenza di *tutte* le istanze politiche.

      Per approfondimenti, consiglio *vivamente* http://orizzonte48.blogspot.it/2015/11/orizzonte49-book-2-la-costituzione.html da oggi in libreria.

      Mi scusi il Professore per la prolissità.

      • Faccio qualche puntualizzazione. Il liberismo, per me, é economia di mercato. E’ un termine che ci siamo dati noi, all’italiana, per fare dei sofismi. Il liberismo o liberalismo é economia di mercato, declinata in modo diverso nei vari periodi storici. L’economia di mercato in un Paese socialista in Europa e nell’occidente non l’ho mai vista. Forse in Cina, dove effettivamente credo si sia scritta una nuova pagina della storia del capitalismo, più che del socialismo. Che l’economia di mercato dovesse in quel tempo essere temperata da un’intervento dello Stato era una dato pacifico anche per un liberale, tanto più che un ruolo dello Stato in economia era necessitato dalla situazione in cui versava il Paese alla fine della seconda guerra mondiale.
        Quanto al fatto che fosse divisiva politicamente (solo in tal senso) mi pare di ricordare che il 45 e rotti per cento nel 46 votarono monarchia…nel 1948 il 100% era repubblicano? Ho qualche dubbio. La costituzione vietò la ricostituzione del partito fascista. Si può dire che nel 1948 non esisteva più un corpo elettorale fascista? Non credo. Sarebbe come ammettere che alla fine della seconda guerra mondiale non vi fosse più un sostenitore del partito nazionalsocialista in Germania. La Costituzione fu espressione e traduzione dei valori di cui si fecero portatori i gruppi politici prevalenti all’epoca. In questo senso parlavo di una costituzione divisiva politicamente, più che economicamente o socialmente. E ribadisco che dopo una guerra civile non poteva che essere tale. La Germania fu umiliata e divisa ma non ebbe una guerra civile. Per questo i governi che si succedettero furono molto più stabili di una nazione come la Francia che conobbe un’instabilità interna simile a quella italiana, pur avendo una tradizione nazionale ed unitaria ben più consistente della nostra.
        Sono solo mie riflessioni, forse errate, ma che avevo piacere di esporre

        • “Il liberismo, per me, é economia di mercato.”

          Questo *per me* si dovrebbe iniziare a far sparire….

          “Che l’economia di mercato dovesse in quel tempo essere temperata da un intervento dello Stato era una dato pacifico anche per un liberale.”

          Se intendi con “liberale” alcuni membri del *partito* liberale inglese sì, altrimenti no. Il liberalismo *postula* l’intervento dello stato in economia come “distorsivo” della legge naturale del mercato.

          L’economia “di mercato”, invece, si contrappone a quella “pianificata”, come quella del “socialismo reale” sovietico. (Ma non quella cinese, che non lo è *mai* stata completamente, lasciando una grande decentralizzazione a livello regionale proprio per la resilienza, ad esempio, a quello che i tecnici definiscono “shock asincroni”, e lasciando spazi al mercato per le produzioni “minori”, proprio come avrebbe in realtà auspicato Lenin per la Russia…).

          Il keynesismo, come sviluppo – di fatto – della teoria *economica* marxiana, si oppone al liberismo ma non all’economia di mercato.

          I liberisti prendono “tecnicamente” le difese del capitale, i keynesiani del lavoro.

          Un economista keynesiano può essere marxista, ma non può essere “liberale” nella sua accezione classica. Lo può essere, al limite, nella sua accezione post-rooseveltiana, per cui la “prospettiva del conflitto” marxiana viene spesso, però, rigettata (contraddittoriamente) in favore di teorie sociologiche di tipo “funzionalista”. (Notare che nonostante Keynes taccia a livello “sociologico”, tutta la teoria economica keynesiana è fondata sul *conflitto distributivo*).

          La nostra Costituzione, in quanto keynesiana (lavoro, risparmio, investimenti pubblici, parastatali, ecc.) e fondata sulla solidarietà sociale e sulle reti di protezioni sociali, rientra a pieno titolo tra quelle “socialiste” (almeno che non si vuol lasciar il monopolio del sostantivo “socialismo” all’esperienza bolscevica e parenti).

          Sul fatto che insisti a non comprendere la differenza dello “stato meramente politico” (cit. Calamandrei) come quello di una guerra civile, e quello in cui i conflitti vengono ricomposti nell’aula di un Parlamento, mi spinge a consigliarti con forza la “La costituzione nella palude”:

          http://www.ibs.it/code/9788868303754/barra-caracciolo-luciano/costituzione-nella-palude.html

          Saluti.

          p.s.

          Sulla retorica della “stabilità” della Germania: se i tedeschi danno così importanza alla “stabilità dei prezzi” (questo significa per il capitale “stabilità politica”… ovvero, il conflitto di classe deve stare al di fuori dei parlamenti….), significa che non sono una democrazia fondata sul lavoro. Ovvero non sono mai stati una democrazia tout court (v. sopra Mortati).

  • “Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”. Questa fu la concezione giuridica ed economica del regime fascista, che trovò concretizzazione alla fine nella RSI. Per quanto riguarda il New Deal di Franklin Delano Roosvelt, costui inviò in Italia il suo sottosegretario Rexford Guy Tugwell, economista e docente universitario, che incontrò anche Mussolini, per studiare il corporativismo fascista.Il New Deal si ispirò al sistema economico corporativo italiano.Il New Deal fu bollato con parole di fuoco dall’antifascista “liberogiustiziere” Ernesto Rossi,mentre si trovava al confino nella amena e salubre isola di Ventotene. Isola nella quale soggiornò anche un altro confinato antifascista Sandro Pertini, che guarì dalla tubercolosi,contratta nella “galera fascista” (sic) campando fino ai 93 anni.Nulla a che vedere coi lager tedeschi o i gulag sovietici evidentemente .Per documentarsi sul pensiero di Ernesto Rossi sul corporativismo e sul New Deal esorto alla lettura del suo libro autobiografico dal titolo eloquente:” Elogio della galera,lettere dal carcere 1930-1943″.

      • @ Gaz io tra gli economisti di spicco del novecento prediligo il tedesco Werner Sombart.Citerò tre titoli tra i suoi celebri libri pubblicati in Germania all’inizio del secolo scorso . 1)- “Il capitalismo moderno” ; 2)-“Gli ebrei e la vita economica”, 3)-“”Perché non esiste il socialismo negli USA”. In lingua italiana è disponibile solo il secondo libro citato.Buona lettura.

  • Articolo piacevole e succoso.
    E’ inutile, juristen bose christen.
    Quando si vanno a scrivere le storie delle singole discipline si trovano quasi sempre pagine che inevitabilmente a qualcuno dispiacciono, perchè riportano alla luce le compromissioni col potere dei “monumenti” accademici, lotte feroci per far salire in cattedra i propri allievi e colpi più o meno bassi.
    Marbury v. Madison (se non erro è del 1803) era più che conosciuta nella Penisola prima dell’Unità. Chi estese lo Statuto Albertino lo aveva ben presente tanto che nel preambolo è scritto: “abbiamo ordinato ed ordiniamo in forza di Statuto e Legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della Monarchia”.
    Alessandro Pace, in una lucida monografia mostra come lo Statuto, inizialmente concepito e interpetato come costituzione rigida, e tale classificata in Italia e all’estero, si sia flessibilizzato, sotto il peso delle spinte politiche.
    Il primato del parlamento, ma sarebbe più giusto dire delle maggioranze parlamentari … ha destabilizzato per lungo tempo il sistema politico e in primo luogo il parlamento.
    I termini del discorso sono noti: la dottrina costituzionale dell’ottocento ha reso un pessimo servigio; tra diverse alternative non ha scelto la migliore attraverso l’innesto di elementi stranieri.
    Sul piano giuridico ci si potrebbe dilungare, ma altri contributi, penso, che possano venire dagli storici di estrazione non giuridica, che si prendano la briga -e il piacere- di andare a scavare sull’origine di un’opera così cattiva.
    Costantino Mortati razionalizza un lavoro iniziato nel secolo precedente.
    Il formalismo è stato a lungo dominante. Istituzionalisti, costituzionalisti e amministrativisti spesso hanno zombettato, per non dire degli incesti -tutti italiani- tra toga accademica e forense.
    Santi Romano è una figura singolarissima. Al presidente del Consiglio di Stato e al condordato D’Amelio – Romano del 1930, preferisco ricordare il giovane Santi Romano, che in un libro sui diritti pubblici soggettivi del 1898 (potrei sbaglirmi di qualche anno sulla data) delinea la strada di una possibile costruzione teorica unitaria dei diritti privati e di quelli pubblici, in linea con la tradizione continentale. Santi Romano conosceva il pensiero di Jellineck. L’unico limite di quel libro è di essere scritto in un italiano non letterario. Paradossalmente, però quel contributo finì nel trattato di diritto amministrativo di Vittorio Emanuele Orlando. Si, proprio lui, l’uomo di Versailles. Citando Giannuli, si protrebbe dire che la politica è uno specialismo, e tanto più lo è la politica estera.
    Alle soluzioni intraviste dal giovane Santi Romano e da Jellineck, la Cassazione è giunta solo nel 1999, dopo un lungo percorso sugli interessi legittimi, in cui magna pars è proprio il Santi Romano del Concordato.
    Per amor di Patria tralascio il giudizio non lusinghiero di Hans Kelsen sui giuristi italiani e sullo stato del diritto in Italia, dettato quando era ormai un’affermato studioso di diritto internazionale.
    Mi sono trattenuto così a lungo per sottolineare che negli snodi, a volte, la storia delle idee, oso pensare, sarebbe potuta andare in una direzione piuttosto che in un’altra …
    Mah !! Qualche sospetto viene … solo ora si riesce a comprendere id più grazie agli storici.
    Non meravigliatevi se il mio sport preferito su questo blog è prendere per il cxxx quelli altri.
    Mi congratulo con quei pochissimi che lanciano bordate e fanno centro.

    P.s. Sono profondamente dispiaciuto di non aver potuto parlare politicamente di quel ……….. di Sciaboletta, il quale criticava Santi Romano, reo di aver opportunamente preso la tessara del PNF solo un mese prima di essere nominato Presidentre del C.d.S. . E lui che ha nominato Illo e lo ha ricevuto con tutti gli onori per 20 anni, applicando la sua stessa logica, sarebbe il re degli opportunisti?
    Se quello fu re.
    Tanto, si sapeva che il re non valeva …..

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