Che succede in Libia?

Le radici del gran pasticcio libico stanno in parte nella storia degli ultimi decenni del paese, ma, in altra parte, nella sua storia remota, perché la Libia, come noi la conosciamo, è una realtà molto recente.

Paese vasto (1.700.000 kmq) ma scarsamente popolato, con ampie zone desertiche, oggetto di ripetute scorribande di popoli vicini che spesso  sedimentavano qualche insediamento locale, è stato caratterizzato da un accentuato ruolo delle tribù, e, pertanto, da un inesistente senso nazionale, un limitato sviluppo economico e culturale.  Storicamente , si formarono tre aree geografiche dai confini assai labili ma ben separate dalle zone poco o per nulla abitate: Cirenaica ad est della costa, Tripolitania ad ovest della costa e Fezzan nell’entroterra a sud, abitate da diverse comunità tribali in rapporti di scambio commerciale e culturale fra loro: a differenza di altri paesi come la Siria, in Libia, anche per la diversa disponibilità di spazio, non c’è mai stata una accentuata conflittualità fra le varie tribù.

A dare unità al paese e confini precisi fra le tre regioni fu l’ occupazione italiana, in particolare con la “riforma” della colonia voluta da Italo Balbo. Dopo la fine della guerra e l’indipendenza (1949), la Libia assunse una conformazione federale rispecchiata nella bandiera de periodo monarchico (con il rosso della Tripolitania, il nero della Cirenaica ed il verde del Fezzan), cui seguì un tentativo di accentramento de Re Idris. Nel 1969. Il periodo repubblicano fu aperto dal colpo di stato di Gheddafi, sostenuto ed incoraggiato dall’Italia che protesse sempre Mu’ ammar da tentativi di assassinio e colpi di stato, in genere orditi dagli inglesi. Di fatto, Gheddafi, spesso atteggiato a leader terzomondista ed antimperialista, ha sempre agito all’ombra dell’imperialismo petrolifero italiano.

Sino al 1969, nel mondo arabo si era manifestata una forte spaccatura fra le tradizionali monarchie –ortodosse e filo americane- e i regimi repubblicani  militar-nazionalisti inaugurati da Kemal Ataturk (anni trenta) e seguiti dall’affermazione dei regimi Baas ispirati da Nasser (anni cinquanta e sessanta) che esprimevano un primo tentativo di secolarizzazione delle loro società. Gheddafi rappresentò una prima correzione di rotta nel senso di una re-islamizzazione dei regimi repubblicani, facendo in qualche modo da battistrada all’ondata fondamentalista (che si affermerà qualche anno dopo in Iran) dalla quale, peraltro, rimarrà distinto. L’Islam politico di Gheddafi si collocò in una posizione intermedia fra il socialismo militarista panarabo ed il fondamentalismo jiadista (fu proprio lui a riesumare per primo il termine Jihad).

Peraltro, se è vero che quella gheddafista è stata una autocrazia militare simile a quelle baatiste, è anche vero che ebbe caratteri propri e quel che rese particolare quel regime fu la netta preponderanza della milizia sull’esercito regolare che, a differenza di quello siriano, irakeno o egiziano, di fatto, non ha mai combattuto una vera e propria guerra (il caso del Ciad non fa testo) e fu una realtà politicamente e militarmente molto debole. Inoltre Gheddafi fece ricorso anche ad un reclutamento mercenario nei paesi confinanti, che indebolì ulteriormente il peso politico dell’esercito.

Di fatto, l’unico reale limite al potere di Gheddafi fu quello delle tribù, per cui la struttura del potere in Libia fu sostanzialmente quella di un autocrazia che mediava fra le diverse tribù ed etnie, protetta da una guardia pretoriana pagata con la rendita petrolifera con opposizioni interne ed esterne al regime, troppo deboli per rovesciarla. In questo gioco, Gheddafi privilegiò costantemente le tribù del centro della costa  (zona della Sirte) da cui proveniva, ed ebbe molto rispetto per i Warfalla (la tribù libica più popolosa) mentre fu sempre ben più sfavorevole alla Cirenaica (da sempre più esposta alle influenze inglesi ed egiziane) allo stesso modo in cui esercitò una dura repressione contro le aspirazioni ad un sistema politico democratico e rispettoso dei diritti umani.

La linea di frattura politica principale che si è formata in Libia si identifica in larga parte fra quelli che furono sostenitori e beneficiati di Gheddafi e quelli che furono suoi perseguitati ed oppositori. La rivolta libica della primavera 2011 fu stimolata dai servizi segreti di Francia ed Inghilterra che miravano a rimpiazzare l’influenza italiana in quella importante piazza petrolifera: sappiamo della fuga in Francia di Nouri Masmari, già nell’ ottobre precedente, sappiamo che già nel novembre successivo il colonnello dell’aeronautica Abdallah Gehani incontrò un gruppo di agenti dei servizi francesi. Sappiamo anche che uomini dei reparti speciali inglesi sbarcarono in Cirenaica svolgendo un ruolo importante nell’organizzare l’insurrezione. Questo non significa che l’insurrezione anti Gheddafi sia stata una “invenzione” dell’intelligence occidentale: l’ostilità al regime c’era e non è un caso che la sua roccaforte sia stata in Cirenaica ed è proprio su questa base che i servizi anglo-francesi hanno potuto operare. Si formò un fronte composito ed articolato, riunito nel Consiglio Nazionale di Transizione che, alla borghesia “occidentalizzante” di Bengazi (la cui forza fu probabilmente sopravvalutata) aggiungeva tribù a lungo perseguitate ed altri oppositori fra cui anche aree di fondamentalismo islamico (la cui forza fu invece sottovalutata), mentre importanti gruppi come i Warfalla rimasero a lungo a vedere.

Subito dopo l’abbattimento del regime, complice l’assenza di un forte esercito e la preponderanza delle milizie locali, questa coalizione andò via via sciogliendosi, man mano che riemergevano le antiche divisioni tribali, sulle quali hanno giocato pesantemente le interferenze straniere. Dopo le prime scaramucce fra le milizie, fra  il 2013 ed il 2014 sono emersi due poli: “Dignità” a Tobruk (dove risiede il governo riconosciuto dagli occidentali) ed “Alba Libica” a Tripoli sostenuta da Turchia e Quatar, nel quadro dei tentativi di ciascuno di affermare la propria egemonia sul Medio Oriente e Nord Africa. Nella spaccatura fra i due si sono i inseriti i gruppi jihadisti che hanno insediamenti in diversi punti della Tripolitania (compresa la stessa Tripoli) ed un caposaldo a Derna in Cirenaica.

Dopo vari tentativi di mediazione andati a vuoto, qualche settimana fa era parso che Bernardino Leon, inviato dell’Onu, fosse riuscito a buttare le basi di un accorto fra Tripoli e Tobruk, ma, in pochi giorni la speranza è crollata ed, anzi, c’è stata una ripresa delle ostilità (che, fra l’altro, ha registrato una violenta fiammata antitaliana). Come spiegare questa inattesa evoluzione? In primo luogo, è probabile che l’inviato Onu abbia avuto troppa fretta ed abbia cercato di “forzare la mano” insieme ai moderati dei due schieramenti, per mettere i rispettivi falchi di fronte al fatto compiuto; peccato che, nella difficile situazione venutasi a creare, nessuno abbia il completo controllo del proprio schieramento, per cui i “falchi” hanno preso il sopravvento, non sappiamo se in entrambi i poli o solo in uno di essi e quale. Ma la ragione di fondo appare piuttosto un’altra: a non reggere è la geografia complessiva del Medio Oriente-Nord Africa, con i suoi stati artificiali nati dalla dissoluzione dell’Impero Ottomano, con le sue linee di confine tracciate con il righello, con le sue profonde disomogeneità da paese a paese.

Crisi come quelle libica, siriana, iraquena (e direi anche sudanese) non troveranno mai una soluzione al di fuori di un riassetto complessivo dell’area sulla quale si dispiegano troppi piani di potenza e nessun progetto complessivo.

La Libia ci serve unita, viene spesso ripetuto e la cosa ha un suo fondamento, non ultimo il bisogno di far fronte all’offensiva jihadista, ma, direbbe Kant, aver bisogno di cento talleri ed avere cento talleri non sono affatto la stessa cosa ed il paese appare avviato verso la divisione. D’altro canto, anche in Iraq il disperato tentativo di tenere insieme curdi, sunniti e sciiti mantenendo in vita l’improbabile stato-nazione ideato da Churchill non pare stia avendo molto successo, come pure in Siria.

Nel frattempo cosa possiamo aspettarci? Una entropia crescente dell’area con la nascita di nuovi focolai, una ulteriore avanzata degli jihadisti e sempre nuove ondate di profughi che si dirigeranno verso l’Europa. D’altro canto, questo disastro lo abbiamo provocato noi con scelte remote (come il colonialismo e la successiva decolonizzazione malcondotta) e recenti (le sciagurate guerre del Golfo e dell’Afghanistan che hanno spalancato la porta al fondamentalismo). Ora arriva la prima rata del conto da pagare. Ne seguiranno altre ed il conto finale rischia d’essere molto pesante.

Aldo Giannuli

(questo pezzo è apparso sul “Venerdì” della scorsa settimana)

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Aldo Giannuli

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Comments (4)

  • Caro Aldo,
    non condivido il punto d’arrivo del post per la quale …. Crisi come quelle libica, siriana, iraquena (e direi anche sudanese) non troveranno mai una soluzione al di fuori di un riassetto complessivo dell’area sulla quale si dispiegano troppi piani di potenza e nessun progetto complessivo. ….
    Nella crisi libica ipotizzare un’intervento, all’esito del quale si potrebbe anche dividere il paese, non sconta le complicazioni presenti nell’area siro-irachena dove turchi, curdi, persiani, arabi ( pure divisi tra sunniti e sciiti), israeliani, americani e russi giocano al tutti contro tutti.
    Nello specifico libico, anzi, un intervento militare sembra necessario al fine di spazzare l’IS prima che un gruppo etnico/tribale abbia la sventura di vedere le proprie sorti identificarsi con quelle del Daesh, com’è accaduto ai sunniti siro – iracheni.
    Un intervento suonerà anche come un ceffone alle velleità di Erdogan, del quale apprezzi la pericolosità, che ci dovrà pensare due volte prima di inviare altre navi cariche di armi….
    Nel contempo, mi sembra imperativo supportare economicamente Egitto e Tunisia, le cui economie sono provate dagli attacchi terroristici ai turisti.

    Quanto alle trattative sin qui portate avanti dall’ONU mi sembra che il fallimento delle stesse abbia ragioni ben precise.
    Infatti …….. Il mediatore dell’ONU, Bernardino León, ha annunciato che terminato il suo incarico di mediatore andrà a lavorare per 50 mila dollari al mese nell’accademia di formazione diplomatica degli Emirati Arabi Uniti, un paese che non solo è coinvolto fino al gomito negli affari della Libia, ma che appoggia esplicitamente uno dei due governi, quello orientale di Tobruk.
    Una serie di mail pubblicate dal Guardian dimostra che León stava contrattando i dettagli del suo nuovo lavoro negli Emirati Arabi Uniti fin da giugno 2015. Nel dicembre 2014 León scriveva di essere al lavoro ad una soluzione che “non includa tutti” e che la sua strategia era di “delegittimare il governo di Tripoli” e “separarlo” dal suo principale alleato, il consiglio che governa la città di Misurata. Proprio in quei giorni, il New York Times rivelava che aerei degli Emirati Arabi Uniti avevano bombardato posizioni militari del governo di Tripoli.
    In alcune mail ottenute dal sito Middle East Eye, León fa capire esplicitamente per conto di chi sta lavorando. Il 31 dicembre scrive al ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti, il principe Abdullah bin Zayed al-Nahyan: «Tutti i miei movimenti e le mie proposte sono stati suggeriti (e in alcuni casi scritti e pensati) dal governo di Tobruk e da Aref Nayed e Mahmud Jibril (con i quali parlo quotidianamente) in seguito alla Vostra richiesta”. Jibril e Nayed sono due politici libici che vivono negli Emirati Arabi Uniti. «Non avevo mai sentito nulla del genere – dice Toaldo – Se León non avesse confermato l’esistenza delle mail probabilmente nessuno ci avrebbe creduto».
    Dopo le rivelazioni, il governo di Tripoli – quello che León ha cercato di danneggiare nel corso del suo lavoro come mediatore – ha detto di volere ancora un accordo di pace e che quella che si è persa è soltanto la fiducia in un singolo mediatore. «È probabile che in qualche modo i negoziati proseguiranno anche perché nessuno vuole apparire come quello che li ha fatti saltare, ma sarà probabilmente poco più di una finzione».

    All’Unione europea, quindi, e all’Italia in particolare, non resta che coadiuvare il nuovo mediatore ONU Kobler, anche per il tramite di un intervento volto ad eliminare la presenza del IS, permettendo alle due parti di girare pagina e di far ripartire le trattative. …..

  • Vorrei chiedere: quando si parla di ” tribù “nel mondo islamico, di che si tratta? Sarebbero gruppi etnici, diversi per tratti culturali? O solo gruppi locali, in pratica non differenti? Sono sempre gruppi interclassisti o qualche volta sono socialmente omogenei?

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