La questione catalana e la crisi spagnola
Con estremo piacere torno ad ospitare sul sito un contributo di Steven Forti, da Barcellona, che invito tutti a leggere perchè di assoluto valore ed interesse, in particolare in giorni decisivi per le questioni catalane e scozzesi. Grazie a Steven per la collaborazione e buona lettura! A.G.
Oggi la Catalogna torna a fare notizia. Anche sui giornali italiani. Come negli ultimi due anni, anche questo 11 settembre una grande manifestazione occuperà il centro di Barcellona. L’11 settembre è la Diada, la festa nazionale catalana. È una festa molto particolare perché non si celebra una vittoria, ma una sconfitta: la caduta di Barcellona che, in quello stesso giorno del lontano 1714, fu riconquistata, dopo quattordici mesi di assedio, dalle truppe spagnole del duca di Berwick. Atto che pose fine alla guerra di successione spagnola.
I catalani, che appoggiavano il pretendente al trono Carlo d’Austria, furono sconfitti, i Borbone instaurarono una monarchia assolutista e per punire i “traditori” catalani il re Filippo V impose i Decreti di Nueva Planta che abolirono le autonomie locali catalane esistenti fin dal Medio Evo. Dalla sua istituzione nel 1980, la manifestazione della Diada ha difficilmente raccolto più di alcune decine di migliaia di persone, per lo più indipendentisti duri e puri che reclamavano la secessione della Catalogna da Madrid.
Il cambio è avvenuto nel 2012, quando circa un milione di persone è sceso in strada dietro ad uno striscione dove campeggiava la scritta “Catalogna: nuovo Stato d’Europa”. Nel 2013, poi, oltre un milione e mezzo di catalani si sono dati la mano in una catena umana di 400 km (la cossiddetta Via Catalana) che andava dai Pirenei al delta del fiume Ebro. Per quest’anno gli organizzatori – l’Assemblea Nazionale Catalana (ANC), un’organizzazione independentista nata nel marzo del 2012, e Òmnium Cultural, un’entità fondata nel 1961 che si occupa principalmente della difesa della lingua catalana – hanno avuto un’altra idea per dare visibilità alla causa catalana: le due arterie principali di Barcellona, la Diagonal e la Gran Vía, verranno utilizzate per creare una V di 11 km, che vuole significare “votare, vittoria e volontà”. Alle 17.14 in punto, questa enorme V si colorerà di giallo e di rosso, trasformandosi in una immensa senyera umana. La senyera è la bandiera catalana. E nella Plaça de les Glories, congiunzione della Diagonal e della Gran Vía, verrà installata una grande barca contenente 947 urne, in rappresentanza dei 947 comuni catalani. Nulla è lasciato al caso, come si può dedurre. Nemmeno l’appoggio finanziario (130 mila euro e le 947 urne, fabbricate dai detenuti del Centro di reinserzione di Lerida), logistico (oltre mille autobus, ecc.) e propagandistico (soprattutto attraverso TV3 e Catalunya Radio, la televisione e la radio pubbliche della Catalogna) del governo regionale, per quanto siano due associazioni non governative le organizzatrici ufficiali della manifestazione.
Secondo Carme Forcadell, presidentessa della ANC, quella di quest’oggi deve essere la “Diada definitiva”, ossia quella che aprirà le porte all’indipendenza della ricca regione spagnola. Il 2014 è infatti un anno altamente simbolico per i catalani: si celebra il Tricentenario della caduta di Barcellona di cui si è detto precedentemente (da qui le 17.14 come minuto clou della manifestazione). Da alcuni mesi la città è invasa da mostre, iniziative ed eventi, dove l’abuso pubblico della storia è piuttosto evidente, con il chiaro obiettivo di legare le celebrazioni del Tricentenario al presente politico catalano.
Ormai non solo nelle conversazioni ai banconi dei bar, ma anche sui giornali e nelle dichiarazioni di alcuni rinomati politologi, storici ed economisti si sente ripetere che la Catalogna vuole riconquistare la propria libertà e togliersi di dosso l’oppressione spagnola che dura ormai da trecento anni. Inoltre, il 2014 è simbolico per un’altra ragione strettamente legata alla precedente: il prossimo 9 novembre dovrebbe celebrarsi un referendum di autodeterminazione della Catalogna (da cui la V di “votare” della manifestazione di quest’oggi). Un’altra data non scelta a caso: il 9 novembre del 1989 cadde il muro di Berlino. Ma di che libertà e di quale oppressione si sta parlando?1 Facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire come si è arrivati a questo punto.
Le politiche di ricentralizzazione del Partito Popolare e il nuovo statuto d’autonomia catalano
L’antecedente diretto della situazione attuale è il processo legato alla riforma dello statuto d’autonomia catalano del 2005-2006. Il nuovo statuto è stato preparato quando al governo della Generalitat di Catalogna c’era il Tripartito – formato dal PSC, ossia la federazione catalana del PSOE, gli indipendentisti di sinistra di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) e i postcomunisti di Iniciativa per Catalunya Verds-Esquerra Unida i Alternativa (ICV-EUiA) e guidato dall’ex sindaco di Barcellona, il socialista Pascual Maragall – e a Madrid il primo governo del PSOE di Rodríguez Zapatero. Il nuovo statuto d’autonomia doveva sostituire quello del 1979, discusso ed entrato in vigore poco dopo l’approvazione della Costituzione spagnola del 1978, durante la fase finale del processo di transizione dalla dittatura franchista alla democrazia. Nella Costituzione si posero le basi dello Stato delle Autonomie (Estado de las Autonomías): si crearono le 17 regioni autonome (comunidades autónomas) che si dotarono di propri statuti. Inizialmente le tre nazionalità storiche (Paesi Baschi, Catalogna e Galizia) avrebbero dovuto godere di maggiori autonomie, ma nel giro di pochi anni si arrivò al cossiddetto café para todos (caffè per tutti) in cui si copiò il modello di autonomia catalano per tutte le altre regioni, alcune senza un’identità storica e create ad hoc, come la Cantabria, la Rioja o la stessa regione autonoma di Madrid. Invece che creare un sistema di autonomie asimmetriche, vi fu una generalizzazione per ragioni prettamente politiche. In ogni caso, quello del 1979 non fu il primo statuto d’autonomia catalano: nel 1932, durante la Seconda Repubblica spagnola (1931-1939) se ne era approvato un altro, abolito poi con la vittoria dei franchisti nella Guerra Civile.
Il nuovo statuto, con il quale si chiedevano, tra le altre cose, maggiori competenze per la regione autonoma catalana, si concepì però già durante la seconda legislatura di José María Aznar (2000-2004), in cui il Partito Popolare (PP) deteneva la maggioranza assoluta. Fu in quel contesto che la destra spagnola postfranchista del PP si mostrò pubblicamente senza più complessi: si definì una nuova idea di Spagna, dopo il quindicennio socialista di Felipe González (1982-1996) e una prima legislatura dove il PP non disponeva della maggioranza assoluta (1996-2000) e dove governò con l’appoggio esterno dei catalani di Convergència i Unió (CiU): con il secondo governo Aznar sia economicamente sia politicamente sia culturalmente si iniziarono ad applicare una serie di politiche di ricentralizzazione con lo scopo di ridimensionare il più possibile lo Stato delle Autonomie approvato nella Costituzione spagnola del 1978.
In questo contesto, durante la campagna elettorale delle elezioni regionali catalane di novembre del 2003, fu proprio Rodríguez Zapatero – allora segretario di un PSOE che i sondaggi davano ben lontano dalla possibilità di tornare al governo – che appoggiò le voci interne al PSC favorevoli ad una riforma dello Statuto di autonomia della Catalogna. La costituzione, come ricordato poc’anzi, del primo governo del Tripartito in Catalogna (2003-2006) e la successiva inaspettata vittoria del PSOE alle elezioni politiche spagnole del marzo del 2004 – tre giorni dopo l’attentato alla stazione di Atocha di Madrid – diedero il via al processo di riforma dello Statuto che fu approvato dal Parlamento catalano nel settembre del 2005 e con alcune riduzioni e limitazioni fu infine approvato anche dal Parlamento spagnolo nel marzo del 2006. In un referendum, celebrato in Catalogna il 18 giugno dello stesso anno, e in cui votò meno del 50% degli aventi diritto, i catalani diedero luce verde al nuovo statuto.
Il lento processo di dibattito e di approvazione dello statuto e le modificazioni imposte da Madrid crearono un certo malcontento sia politico – ERC decise di votare no al referendum poiché “ridotto” dal Parlamento spagnolo e fece cadere il primo governo del Tripartito – sia sociale. Un malcontento che crebbe gradualmente a causa del ricorso di incostituzionalità dello statuto presentato presso il Tribunale Costituzionale (TC) spagnolo dal PP, allora all’opposizione, che si distinse nella raccolta di 4 milioni di firme in tutta la Spagna, fomentando un mai sopito sentimento di catalanofobia. La questione rimase in standby per quasi quattro anni: il 28 giugno 2010 la sentenza del TC, per soli 6 voti a 4, rigettava il ricorso del PP, ma giudicava incostituzionali 14 articoli dello statuto (di un totale di 238) e dichiarava la “inefficacia giuridica” del preambolo dello statuto in cui compariva l’espressione che la Catalogna è una nazione. La sentenza aprì un vaso di Pandora: il 10 luglio 2010 una manifestazione alla quale partecipò oltre un milione di persone invase le strade di Barcellona per difendere il nuovo statuto del 2006. Il lemma era: “siamo una nazione, noi decidiamo”.
L’inaspettato successo della manifestazione indusse il secondo governo del Tripartito (2006-2010), guidato dal socialista José Montilla, a convocare elezioni anticipate. Tenutesi il 28 novembre 2010, Convergència i Unió (CiU), partito catalanista di destra legato all’oligarchia catalana, che aveva governato la Generalitat dal 1980 al 2003 e che aveva mal digerito la condizione di partito di opposizione vissuta tra 2003 e 2010, sfiorò la maggioranza assoluta, ottenendo 62 seggi su un totale di 135. Guidato da Artur Mas, delfino del “padre del catalanismo moderno” Jordi Pujol, CiU non fu mai indipendentista, ma un partito che giocava la carta delle buone relazioni con Madrid, appoggiando gli esecutivi che non avevano ottenuto la maggioranza assoluta – come con Felipe González nel 1993 e con José María Aznar nel 1996 – in cambio di maggiori quote di autonomia per la Catalogna. Era la politica, piuttosto redditizia per i governi catalani a dire il vero, del cosiddetto peix al cove. A partire dal 2010, pur senza abbandonare questa strategia, Artur Mas, anche per il successo della manifestazione del 10 luglio, iniziò un giro politico che sarebbe approdato, con una notevole ed inaspettata accelerazione, all’attuale posizione indipendentista di CiU.
La crisi economica spagnola
Non è possibile comprendere quel che è successo dopo il 2010 in Catalogna se non si tiene conto delle conseguenze della crisi economica che ha colpito la Spagna in questo ultimo lustro. Il paese che nella prima metà degli anni Duemila sembrava essere diventato uno dei motori europei si è dimostrato, dopo lo scoppio della grande crisi del 2008, un piccolo gigante dai piedi d’argilla. La bolla immobiliare e i relativi fenomeni di speculazione edilizia sono stati la punta dell’iceberg di una situazione che si è aggravata nel tempo: i primi provvedimenti decisi dal governo di Rodríguez Zapatero sono del maggio 2010, le misure draconiane di austerity del governo di Mariano Rajoy sono iniziate nel dicembre del 2011, subito dopo la vittoria elettorale del PP alle elezioni politiche del mese di novembre, la richiesta di aiuto al BCE, che solo ufficialmente non si è convertita in un salvataggio allo stile greco, irlandese e portoghese, è del giugno 2012.
Alcuni dati sono sufficienti per rendersi conto del crollo dell’economia spagnola – un crollo che è stato anche psicologico per un paese che stava crescendo a ritmi sostenuti da oltre un decennio – che si è trasformato in un crollo generale che ha colpito logicamente tutti gli ambiti: quello sociale, quello politico, quello istituzionale, quello territoriale e quello culturale. Nel 2006, l’anno precedente alle prime avvisaglie della crisi negli Stati Uniti, la Spagna viveva in una situazione invidiabile: il debito pubblico era solo del 36%, lo spread non superava i 40 punti, la disoccupazione era all’8,3%, il minimo storico per la Spagna postfranchista, e l’immigrazione di comunitari e di extracomunitari era in continuo aumento. Il panorama attuale è ben diverso: la disoccupazione è oltre il 25% da oltre un triennio e quella giovanile è al 55,5% (valori simili a quelli della Grecia), le imprese continuano a chiudere (ben 16 mila tra 2012 e 2013), gli sfratti per mutui ipotecari sono quotidiani (oltre 400 mila famiglie hanno perso la casa dallo scoppio della crisi), il debito pubblico è arrivato al 98,4%, avvicinandosi ai livelli di quello italiano, lo spread a fine 2011 aveva raggiunto i 638 punti e gli immigrati, ma anche gli spagnoli dopo decenni, abbandonano il paese iberico (nel 2013 la Spagna ha perso 135 mila abitanti).
Dopo sei anni di recessione, da un anno a questa parte il governo di Rajoy non si stanca di sbandierare qualche timido segnale di ripresa economica (+1,1% previsto per il 2014), ma la percezione di tale ripresa è praticamente nulla (attualmente oltre il 90% degli spagnoli ritiene che la situazione economica è pessima). L’unica soluzione adottata per tentare di uscire dalla crisi è quella del mantra neoliberista dell’austerity – tagli al Welfare state, chiusura di scuole e ospedali, privatizzazioni… –, provocando un sempre maggiore divario tra ricchi e poveri. Nel 2013 in Spagna il salario minimo è sceso a 753 euro, le famiglie con difficoltà ad arrivare a fine mese sono passate dal 30% del 2010 al 41% del 2013 e la tassa di povertà ha raggiunto il 21,8%: secondo recenti statistiche della OCSE, la Spagna è il secondo paese – peggio ha fatto solo la Lettonia – in cui più è cresciuta la disuguaglianza dall’inizio della crisi ad oggi. Come ricorda Vicenç Navarro, sociologo e politologo dell’Universitat Pompeu Fabra, il 2013 è stato il primo anno in cui, dopo la fine del franchismo, in Spagna, ma anche in Catalogna – in cui la situazione economica non è diversa da quella di tutto il paese iberico – i redditi da capitale hanno superato i redditi da lavoro.
Nel mentre le banche si sono riprese dopo il collasso del 2012, quando il buco di 23 miliardi di euro di Bankia – amministrata in quel periodo da Rodrigo Rato, ex ministro dell’Economia nei due governi Aznar e ex direttore del FMI tra 2004 e 2007 – obbligò il governo spagnolo a richiedere l’intervento del BCE (con un prestito concesso di 100 miliardi di euro). Ma il caso Bankia apriva un altro vaso di Pandora: molte banche spagnole erano indebitate fino al midollo – soprattutto a causa della bolla immobiliare – e le bancarotte, le chiusure, le fusioni o la nazionalizzazione di alcuni istituti (come Bankia, Catalunya Banc e Nova Galicia) sono continuati senza sosta nell’ultimo biennio, insieme alla rimodellazione del sistema bancario spagnolo e alla quasi completa distruzione del solido ed esteso sistema delle casse di risparmio che sono state fagocitate dai cinque giganti bancari iberici (BBVA, La Caixa, Santander, Banco Popular e Banco Sabadell). Oltre al caso di Bankia un altro caso sintomatico è quello di Catalunya Banc, che ha ottenuto 13 miliardi di euro dal Fondo de Restructuración Ordenada Bancaria (FROB) – un organismo creato dallo Stato spagnolo nel 2009 – e che, dopo la sua ristrutturazione finanziaria, è stata acquistata per solo 1 miliardo e 187 milioni di euro dal BBVA. Dopo qualche anno di perdite, a partire dal 2013 le grandi banche spagnole – e catalane, non dimentichiamolo – hanno di nuovo guadagnato milioni di euro (+118,7% per la Caixa e + 90% per il Santander rispetto all’anno precedente).
Le conseguenze della crisi
La crisi economica e la sua pessima gestione, come si è appena ricordato, hanno provocato una crisi globale del sistema spagnolo che tocca non solo il sociale, colpito duramente dalle politiche neoliberiste, ma anche la politica, le istituzioni e l’organizzazione territoriale dello stato. La Spagna, questo è evidente, non è un caso isolato, ma un caso paradigmatico.
Due fenomeni politico-sociali lo spiegano bene. Il primo riguarda la nascita quasi spontanea del movimento degli indignados con l’occupazione della Puerta del Sol di Madrid la notte del 15 maggio 2011 e il dilagare delle acampadas in tutte le città spagnole. Anche, logicamente, in Catalogna, dove il movimento del 15-M – questo il suo vero nome – è stato protagonista di importanti manifestazioni, dall’occupazione della centralissima Plaça Catalunya di Barcellona per oltre un mese al cosiddetto assedio del Parlamento catalano il 15 giugno 2011, quando il governo di Artur Mas stava approvando delle drastiche misure di tagli al sociale (dell’ordine del 10,5% alla sanità, dell’11,5% all’istruzione, del 16% all’università e del 61% alla cooperazione e allo sviluppo per il biennio 2010-2012, che sono poi state approvate). Un movimento, quello del 15-M, che si è innestato in una dinamica globale di proteste (dalle primavere arabe a Occupy Wall Street) ma che ha avuto delle caratteristiche del tutto particolari.2
Dato per morto alla fine del 2011, ha invece dimostrato una grande capacità di attecchire sul territorio con assemblee di quartiere, tutt’ora attive, e con la partecipazione ad altre lotte e proteste (per citarne solo due: le Maree in difesa della sanità e l’educazione pubblica che a Madrid hanno ottenuto importanti vittorie o la Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH), che lotta contro il dramma degli sfratti per mutui ipotecari). Ma il lascito più importante degli indignados, al di là delle critiche che si possono fare a questo movimento, è la politicizzazione di una generazione convertita all’apatia politica per disinteresse e per un sistema che aveva decretato “la fine della storia”. Non è un caso che in questo 2014 siano sorte diverse proposte politiche che si agganciano a quel movimento, per quanto le differenze siano notevoli, come Podemos, il partito che ha ottenuto cinque deputati al Parlamento Europeo nel maggio di quest’anno, e Guanyem Barcelona (Vinciamo Barcellona), una candidatura nata a fine giugno che si presenterà alle prossime elezioni comunali nel capoluogo catalano e che cerca di avvicinare diversi movimenti sociali e associazioni a partire dal basso, tra cui la Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH). E anche altri brevi cicli di protesta, localizzati geograficamente, ma che hanno avuto grande ripercussione mediatica e politica, come il caso Gamonal a Burgos (gennaio 2014) o quello di Can Vies a Barcellona (maggio 2014).3
Il secondo: nell’autunno del 2012, poco più di un anno dopo l’occupazione delle piazze spagnole, è emerso un altro fenomeno che si collega direttamente alla crisi spagnola: la questione catalana. Come si ricordava all’inizio di questo articolo, l’11 settembre del 2012 oltre un milione di persone sono scese in strada a Barcellona chiedendo a gran voce l’indipendenza della Catalogna. Su questo torneremo in un prossimo articolo.
La crisi che sta soffrendo la Spagna è evidente in tutti i campi. La monarchia è attualmente ai minimi storici di popolarità al punto che il re Juan Carlos I, che più di una volta aveva dichiarato che non avrebbe mai lasciato il trono, si è deciso ad abdicare all’inizio del mese di giugno a favore del figlio Felipe VI. Una scelta inaspettata ed improvvisa – una prova è l’assenza nella Costituzione del 1978 di una legge per l’abdicazione del re, legge preparata all’ultimo e approvata in forma express – che tenta di ridare credibilità alla monarchia e ai Borbone, colpiti anche dall’importante scandalo di Iñaki Urdangarín, genero di Juan Carlos. Non sono stati pochi gli spagnoli che sono scesi in piazza in quei giorni a manifestare a favore della Repubblica.
La Costituzione è poi anch’essa ai minimi storici: secondo un sondaggio del Centro de Investigaciones Sociológicas (CIS) del dicembre del 2013 il 73% degli spagnoli è favorevole ad una riforma della Costituzione e ben il 52,5% non è soddisfatto con la Carta Magna del 1978, quando solo nel 2000 erano, rispettivamente, il 35 e il 29,5%. E anche PSOE e PP, i due grandi partiti che hanno governato la Spagna negli ultimi trent’anni, sono ai minimi storici: dall’82% dei voti ottenuto alle europee del 2009 sono passati ad un misero 49% alle europee di maggio. Il PSOE poi è in caduta libera, dopo gli otto anni di governo di Rodríguez Zapatero, considerato il principale responsabile della crisi economica: il fantasma di una fine stile PASOK non è così lontana e il tentativo di rinnovare e ringiovanire la dirigenza del partito, con le dimissioni del segretario generale Alfredo Pérez Rubalcaba – ministro in varie occasioni sia con González che con Zapatero – e l’elezione, mediante delle primarie sul modello di quelle del PD, del giovane madrileño Pedro Sánchez ne è una prova.
Lo stesso dicasi per la Catalogna dove i due storici partiti che hanno governato la regione e la città di Barcellona sono in grave crisi. Convergència i Unió (CiU) è sull’orlo della separazione tra il settore laico, neoliberista e ora indipendentista (Convergència Democràtica de Catalunya, CDC) e il settore democristiano favorevole a una soluzione federale della questione territoriale (Unió Democràtica de Catalunya, UDC), mentre il Partit dels Socialistes de Catalunya (PSC, la federazione catalana del PSOE) vive una crisi di identità notevole stretto tra un settore catalanista che è in parte uscito dal partito e che ha formato diversi movimenti (Avancem, Nova Esquerra Catalana, Moviment Catalunya) e un settore favorevole a una soluzione federale che controlla la segreteria e che è appoggiato dal PSOE. La situazione di impasse e di incapacità di uscire dal baratro (sono stati persi il 50% dei voti nell’ultimo lustro) ha portato alle dimissioni del segretario Pere Navarro e la sua sostituzione con Miquel Iceta, un esperto uomo dell’apparato che sta tentando di ricucire i pezzi di un partito in dissoluzione.
Ma i casi di corruzione hanno ormai infangato tutti i partiti presenti in Parlamento, oltre alla monarchia – il caso Urdangarín come si è detto – e ai sindacati – il caso degli ERE che ha toccato i vertici della Unión General de Trabajadores (UGT), di orientamento socialista, in Andalusia e che ha colpito la stessa regione autonoma andalusa, da sempre un importantissimo feudo socialista –. Il caso Gürtel e il caso Barcenas hanno sconvolto il PP nelle sue roccaforti di Madrid e Valencia, il caso Palau de la Música e le recenti dichiarazioni dell’ex presidente della Generalitat Jordi Pujol – che ha ammesso di non aver pagato il fisco per 34 anni e di avere vari milioni di euro depositati nella Banca di Andorra – hanno colpito duramente CiU, il caso Mercurio ha debilitato il PSC nell’hinterland barcellonese, e il caso Pokemon ha rilevato un’amplia trama di corruzione in Galizia che riguarda sia il PP e il PSOE sia il partito nazionalista galiziano.
La crisi della politica, come in tutto l’Occidente, è gravissima: secondo un sondaggio dell’Encuesta Social Europea, reso pubblico nel gennaio di quest’anno, la fiducia degli spagnoli nei partiti politici (1,9 su 10) e nel Parlamento (3,4 su 10) è la più bassa di sempre. Una crisi dunque che non è solo economica, ma che è anche e allo stesso tempo politica, istituzionale, territoriale e sociale. Una crisi in cui si rimette in discussione la maniera in cui si è gestita la transizione dal franchismo alla democrazia, la costituzione del 1978 e l’organizzazione territoriale dello stato. Ed è in questo contesto che si deve inserire anche la questione catalana.
Appuntamento sabato 13 settembre per la seconda puntata!
di Steven Forti
Ricercatore presso l’Instituto de Historia Contemporanea dell’Universidade Nova de Lisboa e presso il CEFID dell’Universitat Autònoma de Barcelona
aldo giannuli, barcellona, crisi economica spagna, crisi spagnola, diada, indipendentismo catalano, questione catalana, spagna, steven forti
leopoldo
nella seconda puntata ci sono i chiarimenti su cosa fare se vincono, restano in U€? Quale moneta adotteranno?
marco t
Buongiorno Prof. Giannuli,
l’articolo è impeccabile per quel che riguarda l’analisi delle cause della nuova ventata di autonomismo in Catalogna. Come giudizio io rimango sempre perplesso su autonomismi, regionalismi e secessionismi: sono un falso problema e non vedo motivo di simpatizzare per ideali del genere. Non è che “me ne vado allora tutto migliora”. La soluzione ai disastri che ha fatto la crisi economica è sociale, e una lotta sociale può e deve essere fatta da tutti gli spagnoli (Catalani, Castigliani, Galiziani, Baschi). Poi non è chiaro cosa si voglia ottenere dividendo la Catalogna: se ne vanno anche dalla UE? Restano in Europa e si ciucciano la BCE, le imposizioni della Commissione Europea? Che modello economico avranno, liberista? keynesiano? altro?
Mi spiace ma non riesco a togliermi dalla mente l’affinità con i leghismi nostrani.
Saluti,
Marco
SantiNumi
@marco t
Se mi posso permettere, questo è un argomento essenziale.
Premessa: il diritto all’autodeterminazione dei popoli è pari ai diritti inalienabili della persona. (v. L.Basso)
Analisi: i secessionismi di matrice “leghista” nascono negli anni ’80, e non è un caso.
Il neoliberismo hayekiano impazza in tutto il mondo con Reagan, la Thatcher e lo SME (il papà dell’euro): la matrice ideologica, come si può constatare dal paper “The crisis of democracy” della Trilateral Commission (commissione che diresse vari studi da cui nacquero le “veline” che finirono nelle mani nelle varie “P2” d’Europa e non solo) è di tipo “oligarchico”.
https://en.wikipedia.org/wiki/The_Crisis_of_Democracy
Le Democrazie, per i reazionari neoliberali, sono viste come fumo negli occhi e, come indicavano le ricette hayekiane stesse, erano sotto naturale tutela degli Stati nazionali.
Hayek, e di conseguenza i “tecnici” che poi si occuparono di modificare la traiettoria keynesiana/marxiana intrapresa in particolare dalle Democrazie costituzionali, suggeriva quindi di “disperdere” la sovranità degli Stati nazionali.
Come?
Primo: tramite la diffusione di ideologie che vedessero la realizzazione della “pace” tramite l’edificazione di superstati di fatto astorici e tecnicamente irrealizzabili: gli USE. Hayek infatti argomentava finemente già dagli anni ’30 per quale motivo il “federalismo interstatale” tra Stati molto eterogenei avrebbe portato alla “dispersione delle sovranità” (cit. “The Road to Serfdom” e “The Economic Conditions of Interstate Federalism”).
Secondo: tramite la sollecitazione dei fenomeni indipendentisti a causa degli irrisolti conflitti inter-etnici, magari sedati dai trasferimenti e dalla decentralizzazione federale/regionale, di aree omogenee che però sono storicamente integrate economicamente e politicamente con lo Stato nazione.
L’obiettivo del mondialismo neoliberista non è quindi “l’autodeterminazione dei popoli”, ma la loro negazione.
La Luxemburg ci ricordava che gli Stati nazionali non nascono a caso: ma sono il prodotto di fenomeni socio-economici che hanno una storia importante.
Secondo te Catalogna, Scozia, Triveneto, ecc., in caso di “secessione”, si doterebbero di “sovranetà monetaria”?
Non è un caso che gli indipendentisti veneti siano vicino al Bruno Leoni o che la Lega Nord sia stato il primo partito populista in Italia a reclamare apertamente il neoliberismo. (G. Miglio stesso era profondamente influenzato dall’ordoliberismo germanico, de facto anti-socialista)
L’obiettivo è, semplicemente, la distruzione degli Stati nazionali, la disgregazione dei popoli che perderanno la propria identità culturale, a partire dalla Lingua, e il loro totale assoggettamento ad una neo-aristocrazia apolide.
Tutto in nome del cosmopolitismo, della pace, della libertà e dell’autodeterminazione. Slogan di sinistra e politiche di destra.
Infatti non c’è nessuna resistenza: l’eurozona è un raccapricciante esempio mozzafiato.
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Germano Germani
Invece di blaterare contro l’autodeterminazione dei popoli, diritto inalienabile di tutti i popoli del globo terracqueo, vogliamo prendere atto, che l’Italia è fallita.Rammento per l’ennesima volta ciò che saggiamente sosteneva il principe Metternich, cancelliere austriaco nel 1815, durante il congresso di Vienna:l’Italia non è una nazione,non è un popolo, ma solo una espressione geografica.Cosa hanno in comune gli abitanti della Valle d’Aosta, coi calabresi dell’Aspromonte? Poi ai vari benpensanti ricordo la ex Jugoslavia, che dopo la forzata unificazione sotto il terrore del dittatore Tito, ha finalmente conosciuto, dopo una guerra civile sanguinosa ma liberatrice, un’ epoca di libertà e di prosperità. La verità che la fallimentare Italietta, teme ad esempio l’indipendenza del Veneto, che da oltre un secolo, giace sotto il dominio della mafia romano centrica. Una nazione e un popolo come il Veneto, godrebbe di una civiltà e di un benessere di livello svizzero o austriaco, senza la tirannia sudista. Veneto libero e indipendente come la Catalogna!
marco t
Buongiorno sig. Germani
io blatero eccome per almeno tre motivi:
1) l’autodeterminazione dei popoli è un bel principio ma si basa sulla definizione di popolo. L’Italia è abitata da tanti popoli? Ma anche il Veneto! Qualcuno potrebbe contestare che Belluno ha la sua identità autonoma e chiederne la secessione dal Veneto. Qualche paesotto della provincia di BL potrebbe sostenere di avere avuto una storia particolare e richiederne l’indipendenza. Ed esiste pure un precedente concreto di questo delirio imbecille: in Liguria un comune di 290 abitanti (Seborga) anni fa si era autoproclamato Principato indipendente sulla base di antichi documenti secolari. Ragionando come Lei, l’Italia dovrebbe mutarsi in 8000 staterelli indipendenti, ed eccoci precipitati nel feudalesimo da medioevo. Mica male, come concetto di progresso. Cos’hanno in comune un abitante della Val D’Aosta e uno dell’Aspromonte? Molto più di me e del mio vicino di casa, che pur essendo nati nella stessa città (e temo anche nello stesso quartiere) non abbiamo gli stessi valori, le stesse idee, la stessa opinone del futuro e ci odiamo reciprocamente.
Per quel che mi riguarda gli Italiani sono un popolo, e non vi può essere nessuna autodeterminazione interna che non ci porti ad una ridicola riedizione del feudalesimo, con tanto di signorotti locali.
2) questi secessionismi odierni – Catalogna, Scozia – mi stanno tanto più sul piffero quanto più non sono accompagnati da un’idea alternativa di economia e sociale. Cercano di rimanere all’interno di un sistema, quello neoliberista, che prevede che le decisioni sulle sorti economiche dei popoli siano prese né dai popoli né dai politici da loro eletti, ma da organizzazioni internazionali NON-ELETTIVE: parlo di BCE, WTO, FMI, Banca Mondiale e compagnia cantante. Se devi fare la secessione per poi obbedire a bacchetta ad un banchiere che vive a Francoforte o a Washington, è meglio che ti risparmi la fatica. Se questi autonomismi fossero finalizzati a separarsi ANCHE dal sistema globale lo capirei, e magari simpatizzerei, ma siccome non è così deduco che il leghismo sia solo un modo per fuorviare l’opinione pubblica dai propri reali problemi.
3) il Veneto se fosse indipendente col cavolo che sarebbe un paese ricchissimo, perché resterebbe all’interno di BCE, WTO, FMI, Banca Mondiale e compagnia cantante, quindi le aziende sarebbero stimolate a delocalizzare all’estero non meno di quanto lo siano oggi; non potrebbe gestire la svalutazione competitiva; avrebbe spese oggi non previste quali la difesa (settore notoriamente in perdita); subirebbe la precarizzazione del lavoro, l’abbattimento dei salari e l’immigrazione deregolamentata per il fatto stesso di rimanere nella UE. Di Svizzera ce n’é una sola.
Saluti,
Marco
Cerberus
Il signor Germano Germani(un nome e un “programma”)fa finta di non accorgersi che il veneto giace non sotto il tacco di Roma ma bensi sotto l’egida delle innumerevoli basi n.a.t.o….per la precisazione 19 tra basi e installazioni.L’indipendentismo veneto fa parte di quel programma di “disintegrazione del potere statuale” che tanto fa comodo,e sul quale tanto si è discettato nei salotti atlantici,ai vari kissinger,soros,luttwak e brezinsky vari.Le favolette sull’italietta addirittura riesumando mummie austriache non possono far altro che suscitare ilarita’ e compassione.
Germano Germani
Signor Marco io ho citato l’esempio eclatante dell’ex Jugoslavia, quello può essere assunto come modello federativo.Mentre lei volutamente lo ignora.Perché non seguirne l’esempio? Mi risparmi il citare i morti che purtroppo ci furono, ma anche l’unificazione dell’Italia, fu realizzata su stermini e saccheggi.Karl Marx sosteneva che la violenza è il lievito della storia. Il Veneto rappresenta effettivamente un popolo e una nazione,con una storia della Serenissima che la esorto studiare. Quello citato da lei è una parodia del federalismo; è solo un becero campanilismo.L’autodeterminazione dei popoli è un principio sancito anche dall’ONU e riconosciuto dalla giurisprudenza internazionale.Numerosi sono i casi di popoli che hanno duramente lottato per tale principio di libertà e di identità.La Germania è un altro esempio di stato federativo che potremmo prendere ad esempio.Concludo replicando a Cerberus, citando l’attualissimo contemporaneo pensiero politico di Gianfranco Miglio,visto che non vuole sentire parlare del Principe Metternich.Il professore Miglio sosteneva ad esempio che le popolazioni del sud Italia, non appartengono alla Mitteleuropa, in quanto in esse la radice etnica nord africana, è all’origine della tipica mentalità levantina, che le contraddistingue.Ma anche un meridionalista convinto come Gaetano Salvemini (che perse undici figli nel terremoto di Messina)riconosceva il carattere “malandrino” dei meridionali.Ma continuo nella mia provocazione ricordando il docente universitario Gianfranco Miglio, il quale era solito parlare alle proprie galline in tedesco! Ora scatenatevi pure…
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La questione catalana e la crisi spagnola | Reologia Sociale
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Cerberus
Signor Germano Germani…l’unica cosa che si puo’ scatenare qui è una sonora risata,soprattutto quando cita comunissimi professori universitari come fossero profeti..o forse meglio dei novelli San Francesco, dato che parlano agli animali addirittura in tedesco.E che animali,delle galline…evidentemente il solo elettorato capace di ascoltarlo e di essere d’accordo con lui.Per quanto riguarda l’ipotetica origine dei meridionali,vorremmo sapere come fa ad essere alla base di una mentalita’ levantina una radice etnica nordafricana…mischiando radici e basi(povera matematica) e confondendo levante e maghreb(povera geografia), non ci rimane che attestare che il suo intervento forse è stato solo una maldestra esibizione.Ma lei e il suo Miglio sapete che significa Levante? E una bussola l’avete mai vista?E ancora, a quale Gaetano Salvemini si riferisce?..Forse a colui che alleno’ il Bari?Guardi Germano che sappiamo benissimo che tutti i movimenti indipendentisti sono “legati” da un unico network sotterraneo e che la frammentazione degli stati sovrani a opera degli “indipendentisti di ogni dove” non è altro che il “programma di riserva” della stessa cricca che ha creato l’europa unita li dove avesse dovuto fallire il progetto europeo.E l’uno e l’altro programma hanno un solo obiettivo:indebolire gli stati sovrani.Tipici giochetti atlantici.
Poi sono d’accordo sul fatto che un veneto indipendente potrebbe avere un livello economico da Svizzera…dato che storicamente le prime banche usuraie sono nate proprio in veneto a dimostrazione che l’usura era una pratica in cui erano molto versati i cittadini della repubblica di venezia!!
Gabriele Orlando
Bell’articolo, peccato però per gli “sfratti da mutui ipotecari”, espressione superficiale ed approssimativa.
Germano Germani
Cerberus in verità la pratica dell’usura non era prerogativa dei veneziani, ma della comunità ebraica di Venezia.Proprio in questi giorni il grande artista (ex repubblichino) Giorgio Albertazzi, interpreta il ruolo di un circonciso usuraio veneziano, nella nota commedia intitolata “Il mercante di Venezia” di William Shakespear. La esorto andarla vedere, le servirà a schiarirsi le idee. Poi per quanto attiene a Salvemini, convinto meridionalista, da costui si può estrapolare tutto e il contrario di tutto.Io amo citare la sua celebre frase nella quale, sosteneva che se vieni accusato di aver stuprato la Madonnina del duomo di Milano, prima scappa all’estero, poi scegli un principe del foro. Alla prossima.
marco t
Buongiorno Sig. Germani,
vuole tanto che le citi la Jugoslavia? La crescita economica che hanno avuto, dopo la guerra, le repubbliche ex-jugoslave non è replicabile per il Veneto, né per alcun’altra regione italiana, e guarda caso proprio per una questione di ordine economico.
La crescita economica di alcuni stati ex-jugoslavi, soprattutto Serbia ma vale anche per la Croazia, è stato essenzialmente dovuto alla DELOCALIZZAZIONE DI AZIENDE IN QUEI TERRITORI, e sto parlando anche di aziende italiane. Non è che se il Veneto si rende indipendente il giorno dopo le aziende tedesche, francesi e olandesi vengono a delocalizzare in Veneto; perché LO STIPENDIO DI UN OPERAIO SERBO, CINESE O CAMBOGIANO E’ ENORMEMENTE PIU’ BASSO, e anche se il Veneto eliminasse tutte le tasse che le impone oggi Roma ladrona (e io ho già dimostrato che questo non sarebbe possibile) le società straniere col cavolo che verrebbero da voi. Andrebbero nel terzo mondo. Soprattutto, gli stessi imprenditori veneti continuerebbero a starsene all’estero, dove hanno già delocalizzato.
Un impianto dentale in Serbia costa qualche centinaio di euro; in Italia si va dai 2.000 euro in su. O i dentisti veneti, dopo l’agognata indipendenza, si accontenteranno di guadagnare quanto un collega serbo, o l’indipendenza della Serenissima non sarà servita a niente, col rischio semmai di peggiorare la situazione.
Saluti
Marco
Lorenzo
Mi sembra facciate un gran baccano senza centrare il nocciolo del problema.
Come ben accennato anche dall’articolo, l’indipendentismo riguarda sempre le zone più ricche dei diversi Paesi ed è una funzione della crisi. Nel senso che man mano che cala il benessere le regioni ricche vogliono cessare i trasferimenti (in senso lato) a quelle povere. Nessuno pensa a invertire i flussi della globalizzazione o a valorizzare radici ancestrali.
Per impedire poi ai loro avversari di agitare lo spauracchio del caos gli indipendentisti si affrettano a rassicurare sulla loro aderenza allo status quo eurista. E’ un modo per dire: “non abbiamo idee strane in testa, l’indipendenza serve solo a tenerci i soldi in casa”. Fino agli anni Ottanta andava di moda rifarsi a un’ideologia globalizzante; in questa società di larve consumatrici con un telefonino al posto del cervello qualsiasi cosa che vada oltre il mutuo, la pensione e il dentista per i figli spaventa il gregge e lo tiene lontano.
Cerberus
Germano Germani svicola via come un’anguilla di laguna sull’argomento “usura come sport principale della nobilta’ e dello stato veneziano”, e fa finta di non sapere,o addirittura non lo sa e non ci meravigliamo di questo, che la proibirono agli ebrei proprio perche’ ne volevano avere il primato.Oltre che in matematica e in geografia(vedasi messaggio precedente) lei ha bisogno anche di una lezione di storia sulla sua amata venezia…vediamo un po’:
tra il 1250 ed il 1350 i finanzieri veneziani misero in piedi una struttura di speculazione mondiale sulle monete e sui metalli preziosi che è del tutto simile all’immensa speculazione odierna degli “strumenti derivati”. Il commercio veneziano su lunga distanza ad esempio avveniva attraverso le “mude di stato”, convogli navali ben scortati, dove tutto era deciso dagli organi dello stato, e dove ai mercanti veniva concessa facoltà di appalto e ricavo ad interesse(usura). Lo stato centralizzava inoltre le attività di diverse zecche ed i traffici in metalli preziosi. I profitti di questo commercio erano cosi ingenti che venivano reimpiegati in usura di alto livello,prestando denaro a stati,sovrani,nobilta’ di ogni tipo e finanziando ovviamente guerre.Potenza economica frutto della libera impresa? Certamente no. Questo “successo” criminale è il risultato dell’“usura come religione di stato”. Dalla metà del Duecento l’oro orientale veniva saccheggiato dai Mongoli in Cina, che fino ad allora aveva posseduto l’economia più ricca del mondo, ed in India, oppure veniva estratto nelle miniere del Sudan e del Mali in Africa e venduto ai mercanti veneziani in cambio di argento europeo enormemente sopravvalutato. L’argento proveniva dalla Germania, dalla Boemia e dall’Ungheria, ma veniva sostanzialmente venduto tutto ai veneziani che pagavano in oro. La zecca veneziana coniava ogni anno 1.200.000 ducati d’oro e 800.000 ducati d’argento, di cui 20 mila andavano annualmente in Egitto ed in Siria, 100 mila sul territorio italiano, altri 50 mila oltremare e ancora altri 100 mila in Inghilterra ed altrettanto in Francia. Il vecchio doge concluse affermando che presto i veneziani sarebbero stati “signori de l’oro de christiani”, mentre c’è anche la lezione che recita “signori de l’oro e de christiani”.Invito tutti a una riflessione profonda sul significato di questa frase.Notare come le affermazioni del doge avessero un che di “mistico”.Ogni anno partiva da Venezia la “muda dei lingotti” composta da venti-trenta galere, armate e scortate senza badare a spese, che navigava alla volta del Mediterraneo Orientale oppure dell’Egitto. Cariche principalmente di argento, le navi facevano ritorno a Venezia cariche di oro sotto ogni forma, monete di tutti i tipi, lingotti, barre, lamine.Dai documenti pervenuti infatti risulta che i finanzieri veneziani prescrivevano ai propri agenti a bordo delle mude di trarre da questi scambi di argento e oro un profitto minimo dell’ 8% per ogni sei mesi di viaggio, il che significa un profitto annuo minimo del 16% e probabilmente medio del 20%. Alla fine del XIII e XIV secolo, Venezia gestiva tutta la coniazione e gestiva i cambi monetari del più grande impero della storia, quello mongolo, allo scopo di saccheggiare e distruggere le popolazioni sottomesse. Venezia aveva esteso il proprio controllo sul resto del commercio e della coniazione di ciò che restava dell’impero bizantino e dei sultanati mamelucchi nell’Africa Settentrionale. In questo stesso periodo Venezia trasformò la circolazione monetaria in tutto l’oriente, da monete in oro a monete d’argento, e di contro trasformò la circolazione monetaria in Europa e Bisanzio, dove la base monetaria d’argento fu sostituita dalla base aurea.
Mercanti e finanzieri veneziani potevano contare su profitti fino al 40% annui su investimenti a breve (semestrali), e questo su una base economica mondiale dove il profitto reale, ovvero il “surplus” produttivo, nei casi migliori si aggirava tra il 3 ed il 4%.Come vede Germano Germani qui la situazione è molto piu’ grave perche’ venezia ha praticamente inventato l’economia usuraio-speculativa odierna che ha gettato il mondo in crisi…un salto di qualita’ insomma l’usura da atto privato è stata portata a modello economico e sistemico.Tutto questo grazie a venezia e i suoi dogi.Germano lei nelle sue analisi ha un approccio da tifoseria alquanto infantile come pensa di essere preso sul serio…parlando di miglio che conta le galline in tedesco?O forse di madonnine fughe all’estero e principi del foro..ma cosa ha appena finito di vedere un film di renato pozzetto?
Germano Germani
Signor Cerberus il concetto di usura a me caro, è quello delineato nelle opere di Ezra Poud e di Werner Sombart.Il suo goffo tentativo di delineare la storia dell’usura. attribuendone l’origine alla Serenissima, mi consenta è solo frutto della sua fervida fantasia. Aria fritta o masturbazioni mentali, privi di ogni riscontro storico serio.Per schiarirsi le idee sul ruolo e la civiltà della Serenissima, la esorto allo studio delle opere dello storico veneto Ettore Beggiato.Capisco che questo possa disturbarla, ma si sa che la verità ci rende liberi.Passo e chiudo.Amen.
Cerberus
Signor Germano sapevo che la lunghezza del mio commento avrebbe messo a dura prova la capacita’ di comprensione di un eventuale “non addetto ai lavori”.Quindi le vengo incontro e sintetizzando le do un aiutino:nella politica della serenissima,il minuscolo so che possa disturbarla ma non ci faccia caso,l’usura da atto privato è stata portata a modello economico e sistemico.Un affermazione questa che non ha nulla a che vedere con “goffi tentativi di attribuire alla serenissima” l’origine dell’usura stessa.
Ora faccia un respiro,non pensi alle galline di miglio e riprovi a leggere lentamente le parole che ho scritto..vedra’ che non è poi cosi difficile comprenderle.
Poi lei mi cita quel Pound cosi tanto affascinato dall’economia che tutto era tranne che economista,infatti fu subito accalappiato per evidenti limiti professionali dalla piu’ fruibile,intellettualmente parlando, delle teorie ovvero la “teoria distributista”.Tipico questo atteggiamento della psicologia da “apprendista stregone” dalla quale mai si separo’ per tutta la vita.Ma fiore all’occhiello della insipienza e contraddittorieta’ di un personaggio evidentemente sopravvalutato ,in quella che fu piu’ una presunta che effettiva sua lotta contro l’usura mondiale è l’opera “Cantos”, in cui si esibisce nel “Canto XLII” addirittura in una lode nientemeno che del Monte dei Paschi di Siena.Provare per credere.
Ora Germano non si preoccupi che piu’ che disturbare i suoi commenti suscitano fragorose risate.Ci saluti Steven Forli…magari lo conosce,se invece no…come se non le avessi detto niente.