Lo scambio capitalistico è davvero compatibile con il liberalismo?
Molto volentieri e con grande interesse vi propongo questo articolo dettagliato e attento dell’amico e studioso di Filosofia Lucio Mamone. Buona lettura! A.G.
Con molto interesse ho seguito il dibattito che si è sviluppato in questo blog a proposito delle relazioni tra socialismo, mercato e settore pubblico, dibattito nato attorno ai due articoli del Professor Giannuli “Stato e mercato. Togliamo di mezzo un po’ di idee confuse” e al più recente “Privato/statale: tertium non datur?”. Desidererei pertanto fornire un piccolo contributo alla discussione, proponendo qualche ulteriore spunto.
Ritengo infatti che ai due nodi problematici fin qui emersi ve ne si possa aggiungere un terzo, che funge in qualche modo da prospettiva complementare rispetto a quanto tematizzato e che formulerei preliminarmente in questi termini: posta la legittimazione politica dell’economia capitalistica in quanto condizione materiale per la realizzazione degli ideali liberal-democratici, si può davvero affermare che tale modello economico sia congeniale a questo scopo? Il capitalismo è realmente la via più efficace, o addirittura l’unica via, per una società libera, aperta ed equa?
La posizione nettamente predominante nella filosofia politica contemporanea è proprio quella che identifica nel capitalismo la premessa necessaria per ogni ordinamento che si ispiri agli ideali di libertà ed uguaglianza. È curioso constatare come, all’interno di questa cornice, ci si interroghi sì sul nesso fra capitalismo e democrazia, ma si dia assolutamente per scontata la compatibilità con il liberalismo. Si pensi ad esempio a Fukuyama, per il quale il carattere liberale di uno stato risiede in nient’altro che nell’impianto capitalista (e liberista) della sua economia. Anche i critici del capitalismo tendono perlopiù a mostrarne la tendenza facogitatrice verso il nucleo democratico delle costituzioni, ma concedono senza troppe riserve che economia capitalistica e tutela liberale dei diritti individuali viaggino solidalmente. Una delle critiche oggi più ricorrenti verso i governi occidentali imputa loro per l’appunto l’estensione dei diritti civili al prezzo dell’erosione dei diritti politici e sociali dei cittadini. Si ravvisa quindi in essa un potenziamento del carattere liberale degli ordinamenti giuridici, ma un deperimento di quello democratico.
Personalmente mi riconosco a pieno nell’interpretazione dell’attualità come fase di declino della democrazia occidentale, ipotesi in favore della quale credo stiano emergendo elementi sempre più comprovanti. Mi sembra invece riduttiva l’analisi che, tenendo esclusivamente conto delle conquiste sopra citate, riscontra negli ultimi decenni un’espansione della libertà individuale nelle nostre società. Ritengo al contrario che i passi fatti in avanti siano più che controbilanciati da quelli fatti indietro, per cui propenderei ad interpretare la tendenza in atto più nel senso di una complessiva regressione che di un sviluppo dello spirito liberale.
Prima di prendere in esame cause e forme di tale regressione, è bene individuare i fattori che inducono anche i critici del capitalismo a identificarlo acriticamente con il liberalismo e di conseguenza a non riconoscere, a fianco di quella democratica, la crisi di quest’ultimo.
Il primo fattore ha carattere prevalentemente storico: la classe sociale che si è fatta portatrice degli ideali liberali, la borghesia, è stata allo stesso tempo il principale agente dello sviluppo dell’economia capitalista; essa per prima ha sostenuto l’identità fra impresa capitalistica e libertà individuale e in ragione di ciò ha raffigurato il proprio agire economico come una battaglia per l’emancipazione umana e il progresso della società. Risulta perciò del tutto naturale pensare che i diritti individuali “servano” allo sviluppo e al mantenimento del sistema economico attuale e che una legislazione più attenta alla tutela della sfera privata corrisponda automaticamente a più ampi margini d’azione per il capitale.
Il secondo fattore ha invece a che fare con la cultura giuridica di impronta kelseniana oggi predominante e che ricondurrei sotto l’etichetta di formalismo giuridico. Questa posizione teorica identifica gli organismi politici (come ad esempio stati o organizzazioni internazionali) con l’insieme delle loro norme (leggi e trattati) e, interpretando il diritto come una tecnica, non contempla una significativa differenza fra il testo giuridico e la sua applicazione. In forza di ciò, si tende oggi a negare l’arretramento della libertà individuale nei paesi occidentali sulla base del semplice fatto che non si riscontra in essi una significativa produzione legislativa che vada in tal senso.
Uno stato è però un sistema ben più complesso di un insieme di proposizioni giuridiche e limitarsi all’analisi di esse fa perdere di vista gli effetti prodotti dalle prassi politiche e burocratiche, dalle modalità di funzionamento dei tribunali, dal contesto socio-economico, da quello antropologico-culturale ecc. Tutti questi elementi sostanziali partecipano dell’identità di un ordine giuridico tanto quanto le sue caratteristiche formali e si pongono con esse in un rapporto di reciproca mediazione.
Ora, a proposito del nostro tema, va innanzitutto premesso che non è vero che nella storia recente dell’Occidente manchino del tutto interventi legislativi liberticidi: basti pensare alla legislazione americana in materia di antiterrorismo promulgata all’indomani dell’11 settembre e ancora oggi parzialmente in vigore. Tuttavia le violazioni più lesive dei principi liberali sono da ricondurre alle prassi diffuse in seno alle burocrazie sia pubbliche che private. Quanto alle prime, non si pensi solo agli scandali che periodicamente coinvolgono i servizi di intelligence, ma ancor più a dati allarmanti come quello riguardante la popolazione carceraria statunitense, ormai oltre le 2 milioni e mezzo di unità, una cifra in termini assoluti superiore rispetto al picco massimo registrato nell’Unione Sovietica di Stalin. Naturalmente questo dato è anche il frutto di leggi più severe in materia penale, ma queste non bastano a spiegare il fenomeno: bisogna anche considerare la spirale di corruzione alimentata dal processo di privatizzazione del sistema penitenziario, i regolamenti interni alle carceri che consentono facili scappatoie per il prolungamento del periodo di detenzione e poi ancora le assai onerose spese giudiziarie necessarie ad affrontare un processo penale negli Stati Uniti, le quali risultano per la maggioranza degli imputati affatto insostenibili. Non sarà un caso che meno del 2% degli imputati americani decida di andare a processo, mentre il restante 98% patteggi la pena. Come però accennato, la limitazione della libertà nelle nostre società trascende l’opposizione classica tra individuo e potere statale, in quanto ugualmente incisive in questo campo si rivelano essere le ingerenze esercitate da soggetti privati, soprattutto nella forma di pratiche di controllo delle aziende verso i propri dipendenti. Mi si potrebbe obiettare che tali violazioni siano sintomatiche esclusivamente di una stretta nei confronti dei diritti dei lavoratori, essendo tali i soggetti colpiti, e che pertanto poco abbiano a che fare con la tutela liberale della libertà individuale. Credo che questa lettura sia in certa misura ancora sostenibile quando tali pratiche hanno luogo sul posto di lavoro, ma nel momento in cui l’azienda vincola il dipendente ad un determinato comportamento al di fuori di tale ambito, controllandone ad esempio le opinioni espresse sui social network, egli non sia più leso dei suoi diritti solo come lavoratore, ma anche come semplice persona. Nel momento in cui sfuma il confine tra orario di lavoro e tempo libero, tra sfera professionale e sfera privata, sfuma quindi anche la distinzione tra diritti sociali e diritti naturali di libertà.
Ma come spiegare che il liberalismo arretri proprio nel momento dell’incontrastata avanzata su scala mondiale del capitalismo, che dovrebbe esserne invece la più naturale oggettivazione?
Prendiamo a questo punto in esame il modello teorico su cui la dottrina liberale dei diritti naturali è costruita, così da verificare la sua supposta corrispondenza all’economia capitalistica. Tale modello cerca innanzitutto di determinare ciò che è proprio dell’individuo indipendentemente dal contesto sociale di riferimento. Attraverso questa astrazione emerge che egli dispone di una serie di libertà che non acquisisce grazie all’appartenenza ad un gruppo, ma che possiede semplicemente in quanto individuo: la libertà di disporre del proprio corpo, la libertà d’espressione e di apprendimento, la libertà di riunirsi con i suoi simili e infine quella di difendere se stesso e la sua proprietà; tutte queste libertà non presuppongono né logicamente né materialmente l’esistenza della società, come invece avviene ad esempio per il diritto di voto, e sono perciò definite come naturali. Il compito fondamentale di una costituzione liberale consiste nel trasformare tali libertà naturali in diritti inviolabili e in forza di ciò preservare l’autonomia dei singoli dal collettivo. Uno stato, restando sempre all’interno di un’ottica liberale, è dunque legittimo fintanto che i propri membri non perdono quella condizioni di libertà ed uguaglianza di cui godrebbero se restassero nello stato di natura, ossia in uno stato di assoluta indipendenza.
Nell’elenco dei diritti naturali ve n’è uno che merita qualche ulteriore considerazione: la proprietà. Se abbiamo affermato che i diritti naturali sono pre-sociali, come può la proprietà figurare tra questi? Ciò avviene perché essa è pensata come il frutto del lavoro autonomo dell’individuo, il quale solo dopo il momento della produzione crea delle relazioni economiche di scambio con gli altri uomini. È bene sottolineare che ciò rappresenta una premessa teorica necessaria, perché qualora la produzione fosse riconosciuta come processo collettivo, verrebbe a cadere il carattere pre-sociale della proprietà e quindi la sua inviolabilità. Queste precisazioni ci permettono di comprendere in modo definitivo il significato di libertà ed uguaglianza per il diritto liberale: la prima consiste nell’autodeterminazione di bisogni e scopi del proprio agire da parte dell’individuo e, in campo economico, nella partecipazione allo scambio unicamente secondo la propria volontà; la seconda non implica il possesso della stessa quantità di beni, ma bensì un’uguaglianza di status che rimanda nuovamente alla condizione di autonomia con cui l’individuo prende parte allo scambio. In definitiva è possibile affermare che, per dirla con Ulrich K. Preuß, la teoria costituzionale borghese è legata ad un modello economico individualistico-proprietario, in cui «il produttore è proprietario e il proprietario è produttore».
Da questo quadro credo risulti abbastanza chiaro come il sistema di produzione e scambio ipotizzato dal diritto liberale non corrisponde affatto alla realtà capitalistica. Quest’ultima infatti nasce proprio dalla separazione tra forza lavoro e mezzi di produzione, quindi tra produttore e proprietario, la cui identità è invece la premessa necessaria del liberalismo. Necessaria perché da essa dipende, oltre al carattere naturale e inviolabile della proprietà, l’uguaglianza di status dei soggetti agenti nel mercato. Perciò nel passaggio da un modello economico all’altro cambiano le dimensioni dello scambio: orizzontale nel caso della società individualistico-proprietaria; essenzialmente verticale nel caso dell’economia capitalistica (non solo nella relazione tra proprietario e dipendente, ma anche in quella tra proprietario e consumatore). Come dimostrato sempre da Preuß, i due modelli si differenziano ulteriormente per via delle dinamiche che le rispettive strutture generano: se la società individualistico-proprietaria ha una dinamica piuttosto statica e prevedibile per via degli scambi tra beni equivalenti che in essa hanno luogo, quella capitalistica al contrario segue un andamento ciclico e disarmonico, generato da scambi ineguali che polarizzano la ricchezza.
Il riconoscimento della divergenza tra la struttura dell’economia capitalistica e l’impostazione del diritto liberale non è un innocuo esercizio di pedanteria intellettuale, in quanto rivela che i principi di libertà e uguaglianza posti alla base delle nostre costituzioni non possono essere strumenti sufficienti per la preservazione della realtà sociale a cui si vorrebbero applicare. In quest’ottica si possono interpretare le sempre più ricorrenti violazioni della costituzione formale come mezzi per sopperire alle “mancanze” dei suoi principi fondamentali, secondo quella dinamica che la teoria giuridica della Scuola di Francoforte ha efficacemente colto con la nozione di «zweistufige Legalität» («doppio livello di legalità» o «legalità a due stadi»).
La prospettiva iniziale va quindi ribaltata: il capitalismo non è la premessa necessaria né dei diritti democratici né di quelli liberali, ma tende al contrario verso il loro svuotamento.
Pensare forme di scambio alternative al capitalismo non rappresenta pertanto solo una possibilità di rinnovamento degli ideali socialisti, ma potrebbe anche rivelarsi una necessità per la sopravvivenza del liberalismo.
Lucio Mamone
Bibliografia:
Colombo, Alessandro: Tempi decisivi, Natura e retorica delle crisi internazionali. Milano: Feltrinelli, 2014.
Fukujama, Francis: La Fine della Storia e l’ultimo uomo. Milano: BUR Saggi, 2011.
Kirchheimer, Otto: Politische Herrschaft: Fünf Beiträge zur Lehre vom Staat. Frankfurt am Main: Suhrkamp Verlag, 1981.
Locke, John: Due trattati sul governo. Pisa: Edizioni Plus, 2007.
Mattei, Ugo – Nader, Laura: Il Saccheggio. Regime di legalità e trasformazioni globali. Milano-Torino: Bruno Mondadori, 2014.
Neumann, Franz: Die Herrschaft des Gesetzes. Frankfurt am Main: Suhrkamp Verlag, 1973.
Preuß, Ulrich Klaus: Legalität und Pluralismus. Beiträge zum Verfassungsrecht der Bundesrepublik Deutschlands Frankfurt am Main: Edition Suhrkamp, 1973.
Schmitt, Carl: Die geistgeschtliche Lage des heutigen Parlamentarismus. Berlin: Duncker & Humblot, 2010.
Schmitt, Carl: Politische Theologie. Berlin: Duncker & Humblot, 2009.
Schmitt, Carl: Verfassungslehre. Berlin: Duncker & Humblot, 1989.
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francesco cimino
Se si dà un’occhiata ai forum in rete, come quello del Fatto quotidiano, si nota subito che molti difendono le politiche dette ” liberiste ” con classici argomenti ” marginalisti ” o presunti tali: tali politiche si limiterebbero a trarre le conseguenze delle libere preferenze dei consumatori. Con soggetti del genere, sarebbe piuttosto esasperante replicare ricordando cose che dovrebbero esser ovvie…lo schema pseudo – liberale è diffuso e coriaceo.
Lucio Mamone
Gentile Cimino, assolutamente d’accordo. Quello sul carattere semplicistico (e quindi irrealistico, quando non proprio ideologico) dei modelli economici oggi dominanti sarebbe un altro bel argomento, che a mio avviso dice molto sulla storia del pensiero occidentale (naturalmente non solo economico). Del resto il Professor Giannuli, anche in questo sito, ha più volte argomentato di come il neoliberismo sia innanzitutto un fenomeno di regressione culturale. Se poi pensa che oggi si vorrebbero costruire teorie della razionalità partendo dal dilemma del prigioniero…
Gaz
Gran bell’articolo arioso.
In un mio precedente breve intervento citavo i dubbi di Friedman sulla validità contemporanea delle sue tesi, ma il discorso va appronfondito.
Verrebbe da dire che il diritto è una cosa fin troppo seria per essere lasciata solo ai giuristi. Benvengano i contributi delle discipline giuridiche non positive.
L’equità è la reazione al rigore del diritto, che nel suo irrigidirsi diventa summa iniuria. Ben diverso è il concetto di uguaglianza, frutto della Rivoluzione Francese, ma escerpita e generalizzata da testi romanistici e canonistici durante il barocco. Ma uguaglianza di chi, fra chi e rispetto a chi e per fare cosa? Marx era molto critico verso la Rivoluzione borghese francese.
Le critiche provenienti dalla destra ultraliberista alle costituzioni sociali post belliche vorrebbero smantellare il wellfare, perche ritenuto un peso per l’economia. Forse è il contrario.
Se i liberali si nutrivano delle loro contraddizioni, in quano postulavano l’esistenza di uno stato minimo comunque da mungere, i liberisti si nutrono dei loro fallimementi, perchè hanno accentuato disuglianze, povertà e squilibri.
L’abolizione sic e simpliciter delle regole poteva andare bene ai pirati, ai corsari, ai filibustieri, ma non ai mercanti, i quali vivevano di regole, non fosse altro per stabilire dove e quando fare piazza, con quali regole e quali tutele. Le autorità indipendenti, quali supplenti tecnici depotenziati della politica, hanno contribuito a portare allo stato attuale delle cose.
Mi verrebbe da dire che il libersimo senza regole a profitto dell’interesse di pochi è ontologicamente incompatibile con la democrazia -lasciamo perdere la questione delle aggettivazioni- le cui regole sono dettate nell’interesse dei molti.
Attenzione a non crederci noi occidentali, con la nostra storia e le nostre idee, l’ombellico del mondo. La lezione di Amarthya Sen ci impedisce di essere eurocentrici.
Va ricordato che le libertà individuali e sociali non sono date una volta per tutte e che finaziare i diritti costa, se non li vogliamo svuotare dall’interno. Si possono fare proclami bellissimi che rischiamo di restare lettera morta per mancanza di denaro pubblico. Questo discorso porta alla centralità del managment pubblico e alle sue specifiche regole, perchè va detto che il privato/multinazionale farà solo il suo egoistico interesse a scapito della collettività, inasprendo le tariffe e tagliando sul costo dei servizi. Certo nel diritto vi sono anche moduli che consentono ciò, ma non sono una scelta obbligatoria per le pubbliche amministrazioni, che hanno a disposizione altri strumenti: non si tratta degli unici schemi organizzatori. Sono soluzioni introdotte da poco, storicamente transeunti, che così come sono state introdotte possono essere espunte e che fin ora hanno dato pessima prova a tutto danno delle collettività.
Lucio Mamone
Gentile Gaz, la ringrazio per il cordiale apprezzamento. Che il neoliberismo sia incompatibile con la democrazia ce lo dice innanzitutto il giudizio positivo che i pensatori neoliberisti tendono ad avere verso l’autoritarismo. Anche qui ciò che sostiene Fukuyama è davvero esemplificativo: il sistema politico più razionale è l’autoritarismo liberista à la Pinochet; peccato che gli uomini non siano solo ragione e necessitano di riconoscimento (che noia!), per cui è bene sacrificare un po’ di razionalità per creare un sistema un po’ più stabile: la democrazia liberista. È chiaro però che partendo da queste premesse, secondo le quali la democrazia non contiene un’istanza razionale ma solo timotica, bisognerà fare in modo che l’efficienza del sistema non venga troppo compressa, per cui gli elementi democratici di una costituzione dovranno essere quanto più formali possibili, ossia incidere quanto meno possibile nel processo di formazione della decisione politica (che forse è bene ricordare essere il nodo centrale della democrazia). Quindi ciò che Fukuyama caldeggia è una democrazia sostanzialmente illusoria, in cui la conduzione dell’economia resta una questione tecnica e quando la “razionalità” non è difendibile democraticamente, tanto peggio per la democrazia (ma anche per la libertà individuale). Ora, le cito Fukuyama non perché è “un bersaglio facile”, ma perché mi sembra che espliciti in forma chiara e non ipocrita quello che è lo schema di pensiero con cui ragionano le nostre classi dirigenti. Se a questo aggiungiamo anche, come ha ricordato lei, la ben scarsa razionalità economica fin qui dimostrata, direi che del neoliberismo rimane solo la sua tendenza autoritaria (e totalitaria).
Giovanni Talpone
Penso che la situazione sia peggiore di quella delineata da Lucio Mamone. Infatti, prendiamo gli esempi di libertà apparentemente non collettive citati: ” la libertà di disporre del proprio corpo, la libertà d’espressione e di apprendimento, la libertà di riunirsi con i suoi simili e infine quella di difendere se stesso e la sua proprietà” La libertà di disporre del mio corpo (per esempio, assumendo un medicinale o no) in realtà deve fare i conti con un sapere medico e farmacologico che è fuori di me; similmente la libertà di espressione e di appendimento, o la esercito con i miei vicini di casa, oppure ho bisogno di una scuola, di un pc, di internet ecc. ; per non parlare della libertà di difesa, che è mediata dal costo delle porte blindate e dal funzionamento della Polizia e della Magistratura (o, in casi estremi, delle Forze Armate). Quindi, in realtà l’insieme dei diritti naturali è un insieme vuoto (a meno di non essere Robinson Crusoe).
Lucio Mamone
Gentile Talpone, sicuramente possono essere trovate molte altre violazioni alle libertà individuali rispetto a quelle che ho elencato, mi sembra tuttavia che lei sia un po’ troppo pessimista! Quando i liberali parlano di libertà dell’individuo, intendono una libertà essenzialmente negativa, cioè un’assenza di obblighi a comportarsi in un certo modo. Se prendiamo il caso da lei citato della libertà sul proprio corpo, non credo si possa parlare di una sua violazione finché io continuo a disporre della libertà di assecondare o no i pareri del medico. Penso sia invece illegittimo in un’ottica liberale il divieto dell’eutanasia, in quanto appunto mi impedisce di prendere una decisione sul mio corpo che non ha ricadute sul piano sociale e che pertanto dovrebbe competere solo a me. Quanto alla libertà di difesa bisogna rammentare, come è messo in luce dallo stesso Locke, che il passaggio dallo stato di natura alla società, consiste proprio nella rinuncia a difendere da sé le proprie libertà naturali. Facendo parte di uno stato accetto dunque il principio che se qualcuno viola i miei diritti vi sarà una forza pubblica che mi tutelerà e punirà al mio posto il mio aggressore. Si badi bene che ciò è posto come condizione normativa (cioè rappresenta un dovere per il potere politico) e non la descrizione di uno stato di fatto (cioè la credenza che il potere agisca sempre e comunque a difesa dei suoi cittadini), per cui nel momento in cui lo stato non garantisce più la mia libertà, esso perde la sua legittimità e cessa il mio dovere di obbedienza verso di esso. Per questo motivo la libertà di disporre del proprio corpo e della proprietà non cessa quando essa viene tutelata da un soggetto terzo (lo stato), anzi ciò segna proprio il passaggio da semplice libertà naturale a diritto vero e proprio, ma quando questa tutela da parte dello stato viene meno.
Lorenzo
Bè… colla sua reinterpretazione della dottrina liberale del diritto di proprietà Mamone si pone nella condizione di mutuare il concetto marxiano di lavoro (e quindi di umanità) alienato. Colla differenza che lo strumento del riscatto non è più il sol dell’avvenire ma il ben più gettonato (nell’era dello Washington consensus) liberalismo, non più combattuto come avversario ma anzi elevato a istanza di inveramento dei sacri pregiudizi umanisti.
Beninteso, ogni volta che si discute di materie pratiche (politiche, morali e giuridiche), si entra in un mondo di corpora mystica e di monadi teofaniche, nel cui ambito una parola di buon senso basta a scardinare patrimoni millennari di dottrina. L’intera dottrina dei diritti naturali o giusnaturalismo è un esercizio di fantasia finalizzato a sacralizzare i pregiudizi vigenti nella società e quindi nella testa dello scrivente, da Aristotele che proclamava la naturalità della schiavitù in poi. Come si fa a pensare che ci possa essere “apprendimento, riunione con i propri simili” e addirittura “difesa della proprietà” fuori da un contesto sociale?? Quali sarebbero questi “simili” coi quali ci si riunisce, delle immagini di se stesso riflesse allo specchio?!
Come si fa a postulare per un solo decimo di secondo che il processo produttivo possa precedere la fase della socializzazione, se prima di cominciare a lavorare uno è neonato, poi bambino, poi studente o apprendista, gioca coi coetanei, impara la lingua, i costumi, le regole della convivenza e quelle del mestiere??? O anche solo la fase dello scambio e dell’appropriazione, sol per il fatto che uno deve nutrirsi finché non ha l’età per lavorare?
Il liberalismo, al pari di ogni sistema mitogenico (quindi aggregativo e vitale), non confligge col capitalismo, ma colla più elementare presa d’atto della realtà.
Lucio Mamone
Gentile Lorenzo, grazie alle sue obiezioni posso chiarire un possibile grande equivoco: il mio articolo non vuole essere un’apologia del liberalismo. Del resto non sarei la persona più indicata per una tale fatica, non essendo io un liberale. Il motivo principale per cui non mi ritengo tale è dovuto al fatto che, come lascio intendere nell’articolo e come anche lei sostiene, l’elevamento della proprietà privata a diritto naturale ha a mio avviso un carattere ideologico, in quanto mistifica le modalità concrete di produzione e acquisizione della proprietà. E non ritenere la proprietà privata come naturale credo sia sufficiente per collocarsi al di fuori dell’orbita liberale.
Ciò detto, resta il fatto che, ci piaccia o no, viviamo in ordinamenti liberal-democratici e tutto sommato se un autentico liberalismo non è il migliore dei mondi possibili, non è neanche il peggiore. Per cui creda sia utile schierarsi in difesa di alcune sue istanze, pur restando critici verso altre.
Le faccio poi notare che giusnaturalismo e liberalismo non sono sinonimi, essendo l’idea dell’esistenza di diritti naturali dell’uomo più antica ed comprensiva del liberalismo (del resto un tale presupposto non è estraneo neanche al pensiero socialista). Se mastica un po’ di tedesco, su questo argomento le consiglierei l’ottimo “Die Herrschaft des Gesetzes” di Franz Neumann (purtroppo mi pare di capire che non vi sia una traduzione italiana, al limite può trovarlo in inglese).
Ma anche se volessimo limitarci alla teoria liberale dei diritti naturali, essa è meno banale di quello che lei pensa, per cui mi consenta di fare un po’ l’avvocato del diavolo: innanzitutto quando si parla di società in questo contesto, che appunto i diritti naturali dovrebbero precedere, non si intende una generica aggregazione di individui, ma un gruppo i cui membri sono legati tra loro da vincoli reciproci (quindi gruppo in cui sono state stabilite e accettate delle regole); se io ad esempio esercito la mia “libertà di riunione” e incontro i miei amici al bar non fondo con questo atto una società e posso tornarmene a casa da un momento all’altro senza dover contrattare la cosa con nessuno. Stessa cosa vale ad esempio per la libertà d’espressione, in quanto questa può essere esercitata anche da un eremita che vive in un bosco isolato da tutti (certo si può dubitare dell’utilità di tale esercizio, ma ciò non toglie che egli possa farlo). L’eremita invece non può imbastire un’elezione, perché essa richiede un gruppo di individui, un insieme di regole riconosciute e un’autorità che vigili sulla correttezza della procedura di votazione e ne renda efficace l’esito. Il mio diritto viene quindi “creato” dalla società a cui appartengo e richiede necessariamente l’intervento dell’autorità pubblica che renda tale diritto effettivo. I diritti naturali di libertà invece non richiedono un intervento del potere pubblico, ma al contrario richiedono che il potere non ingerisca, non legiferi in loro proposito dopo l’iniziale riconoscimento.
Il vero punto debole di questo schema concettuale, che fin qui ritengo coerente e condivisibile, è che non vedo come possa rientrarvi la proprietà privata, poiché anche nel caso dell’individualismo proprietario sono comunque la società e il potere politico a mettermi in condizione di produrre (costruendo vie di comunicazione, fornendomi materie prime, garantendo la possibilità dello scambio ecc.), ma su questo ho già detto di essere d’accordo con lei.
Lorenzo
Caro Mamone, primo, quando lei presumibilmente studiava alla medie io insegnavo a Tuebingen, quindi smettiamo di tirarcela col tedesco. Anche perché quel che conta è la razza, non la lingua, e senza integrità razziale non c’è integrità linguistica.
Secondo, mi sembra che anziché rispondere alle mie osservazioni lei segua un filo proprio. Le sue simpatie andrebbero al socialismo, ma siccome il conquistatore anglosassone ha imposto la sua metafisica della soggettività individuale, lei vuol socializzarla smontandone la sacralizzazione del diritto di proprietà. Io le mostravo invece come la supposta naturalità dei diritti liberali – tutti senza distinzione – sia una mera suppurazione semantica, sorta di “manovra teorica mirante all’identificazione di criterî stabili del giudizio” pratico (Veca) in conformità ai gusti dello scrivente. Come lei riconosce quando ingenuamente ammette di difenderne o rigettarne le istanze in base a criteri di “utilità” – come se questa equivalesse a una dimostrazione logica.
La scienza può esprimere solo giudizi di fatto e fuori dalla scienza c’è solo religione. Anche quando è secolarizzata, e si chiama ideologia, o quando (come nel suo caso) si avvolge di una patina di sofismi e prende il nome di filosofia.
— Wenn es auf den Werth der Erkenntniss ankommt, anderseits ein schöner Wahn, wenn nur an ihn geglaubt wird, ganz den gleichen Werth wie eine Erkenntniss hat, so sieht man, dass das Leben Illusionen braucht, d.h. für Wahrheiten gehaltene Unwahrheiten. Es braucht den Glauben an die Wahrheit, aber es genügt dann die Illusion, d.h. die „Wahrheiten“ beweisen sich durch ihre Wirkungen, nicht durch logische Beweise, Beweise der Kraft. Das Wahre und das Wirkende gilt für identisch, man beugt sich der Gewalt auch hier. – Wie kommt es dann, dass ein logisches Wahrheitsbeweisen überhaupt stattfand? Im Kampf von „Wahrheit“ und „Wahrheit“ suchen sie die Alliance der Reflexion. Alles wirkliche Wahrheitsstreben ist in die Welt gekommen durch den Kampf um eine heilige Überzeugung: durch das πάθος des Kämpfens: sonst hat der Mensch kein Interesse für den logischen Ursprung —
Aldo Giannuli
la razza? In che secolo vive Lorenzo?
Lucio Mamone
Caro Lorenzo, lei vede una provocazione dove non c’è: non volevo in alcun modo fare una gara di bravura con lei o con qualcun altro. Volevo semplicemente consigliarle un libro non tradotto in italiano e dunque che lei abbia insegnato o insegni a Tubinga mi fa solo piacere, perché significa che, qualora vorrà, potrà leggere il libro che le ho consigliato (o magari lo ha già letto). Perché vede, sarà anche la razza, come lei sostiene, quella che conta, ma se non parla la lingua un libro può al massimo prenderlo a testate, ma avrà risultati modesti.
Anche sulla sua seconda obiezione purtroppo non mi trova d’accordo: lei crede che le mie risposte non rispondessero alle sue osservazioni, ma invece a mio avviso è lei a ricadere in errori che le avevo già fatto notare. Innanzitutto l’idea dell’esistenza di diritti naturali che lei attribuisce unicamente al liberalismo, come le avevo precedentemente scritto, è condivisa anche dal socialismo e dal pensiero democratico (pensi a Rosseau: “l’uomo è nato libero ed oggi ovunque è in catene”). Da questa incomprensione segue la seconda, ossia l’opposizione netta tra individuo e collettivo in base alla quale lei vede nell’incorporamento di istanze individuali un imbastardimento dell’ideale socialista. Ma questa supposta opposizione è sostenuta dai neoliberisti, che si pongono come difensori dell’individuo contro i collettivisti che vorrebbero invece semplicemente negarlo, ma non appartiene certo al socialismo. Pensi ai due principi fondamentali della società comunista immaginata da Marx: a ciascuno secondo i propri bisogni e superamento della divisione coercitiva del lavoro, quindi due idee che concedono all’individuo massima dignità e libertà. Pensi poi anche ad Adorno e Horkheimer, i quali in Dialettica dell’Illuminismo scrivono: “L’unità del collettivo manipolato consiste nella negazione di ogni singolo; è una befia rivolta a quella società che potrebbe fare dell’individuo un individuo”. Come vede le ho citato tre autori marxiani e tedeschi, per cui l’imperialismo culturale anglosassone qui c’entra poco.
Ultima cosa: mi sembra le sfugga anche il senso della teoria dei diritti naturali, la quale non vuole aver in alcun modo una portata storica, ma soprattutto metodologica. Dire che l’individuo in quanto tale dispone già di alcune libertà, non significa affermare che nel mondo esistano o siano esistiti individui isolati che hanno poi deciso di stipulare un patto sociale. Significa circoscrivere all’interno dell’insieme dei diritti costituzionali un sottogruppo che necessita per la sua realizzazione la semplice non-ingerenza da parte del pubblico o dei privati. La professione di naturalità serve quindi solo a chiarire come questi diritti devono essere garantiti, non a lanciarsi in improbabili avventure antropo-ontologiche.
Lorenzo
Semplicemente non belo i pregiudizi che il vincitore di turno ha reso prevalenti nella società in cui mi capita di vivere.
io
Non ho ben chiaro una cosa. Giocare con la pars destruens, quando é liberalmente ammesso, é abbastanza semplice. Mi sfugge la pars costruens. “Il capitalismo è realmente la via più efficace, o addirittura l’unica via, per una società libera, aperta ed equa?” Quindi?
Lucio Mamone
Caro io, se come pars contruens mi chiede di delineare una società alternativa al capitalismo e al tempo stesso realizzabile in tempi brevi, temo effettivamente di non essere all’altezza del compito. Ho come molti qualche idea in proposito, ma credo serva ben di più. Se semplicemente vuole delle delucidazioni sullo scopo dell’articolo, le vengo volentieri incontro.
Tutta l’argomentazione è finalizzata a mostrare come vi sia una significativa tensione fra capitalismo e liberalismo, mentre al contrario comunemente si pensa che i due termini siano modi diversi per indicare la stessa cosa. Questa mia posizione comporta che, se il capitalismo non viene superato o quantomeno sufficientemente mediato da istanze a lui esterne, l’unico liberalismo possibile, che dovrebbe comprendere una complessa gamma di articolazioni della libertà individuale, si riduce alla tutela della proprietà privata, che è proprio lo scenario a cui stiamo andando incontro. Niente più possibilità di esprimersi liberamente, niente più libertà di scegliere il proprio futuro, ecc., perché ci si dovrà impegnare, mi verrebbe da dire “letteralmente”, anima e corpo per l’acquisizione della proprietà personale, appena sufficiente alla sussistenza o grande che sia.
Dunque quello che propongo è una divisione concettuale che metta in luce come chi aderisce convintamente agli ideali liberali di libertà, non può al contempo schierarsi dalla parte del capitalismo, e tantomeno di questo capitalismo. È in altri termini il tentativo di un’analisi critica in cui la pars destruens (il capitalismo non è l’inveramento del liberalismo come pretende di essere) diventa pars construens (quindi cari liberali se credete davvero in ciò che dite, contribuite al superamento di questo capitalismo).
andrea z.
Durante il trentennio d’oro del capitalismo industriale, dal ’45 al ’75, i detentori del capitale erano in qualche modo costretti ad aver a che fare con la democrazia, i sindacati, i parlamenti, i partiti politici.
Ma nella fase attuale, il denaro non deve essere trasformato in merce per essere moltiplicato; grazie alla finanza, il denaro crea denaro senza passare attraverso il mondo prosaico e materiale dell’industria e del commercio; bypassando la società.
I politici devono garantire ai banchieri solo le condizioni indispensabili della speculazione: libero trasferimento di capitali, possibilità di creazione infinita di titoli finanziari, mancanza di separazione tra banche ordinarie e d’affari e così via.
Nell’epoca del capitalismo finanziario occorre che gli ordini impartiti dalle cupole speculative siano eseguiti rapidamente, senza troppi dibattiti parlamentari o scocciature sindacali.
Lo vediamo anche nella struttura europea, dove alla Germania è stato assicurato un ruolo di assoluto predominio, funzionale ad una rapida esecuzione degli ordini.
Si sprecava troppo tempo a convincere tutti i governi e i parlamenti dei singoli Stati; adesso, quando i centri finanziari passano una loro imposizione alla Germania, sono sicuri che questa verrà osservata dagli altri Paesi europei lungo la catena di comando.
La finanza richiede governi asserviti, parlamenti depotenziati, corpi sociali e politici intermedi umiliati e annientati; una democrazia solo formale, che salvi le apparenze e l’opera di manipolazione delle masse riservata ai media perfettamente controllati.
Lucio Mamone
Caro Andrea, naturalmente non posso che essere d’accordo con quanto da lei sostenuto. Se non lo avesse già letto, mi permetto di consigliarle il libro “Il Saccheggio” di Mattei e Nader che trova in bibliografia.
Nell’articolo mi sono limitato ad analizzare lo svuotamento del liberalismo da parte del capitalismo (soprattutto finanziario), dando per assodato quello della democrazia, sul quale lei invece a ragione si sofferma. Magari più avanti proporrò al Professore un articolo anche su questo tema, così da poter riprendere gli aspetti da lei menzionati.
Mariulin
Credo che non emerga quanto il liberalismo sia la naturale sovrastruttura ideologica del capitalismo, in quanto fondato sul liberismo economico.
Ovvero, la battaglia della classe capitalistico-borghese contro le altre classi: prima contro quella nobiliare e clericale, per cui è stato funzionale il parlamentarismo (che è accidente e non sostanza del liberalismo), ora – come già teorizzato da Herbert Spencer – contro le democrazie sociali che stavano progressivamente – tramite il keynesismo – diventando effettive a detrimento del potere della élite economica.
Il liberalismo non ha mai portato alla “socializzazione del potere”, se non per motivi strumentali, tanto che, per “sua natura”, il liberalismo ritiene dialetticamente implicito lo schiavismo: per motivi ben descritti dalla scienza economica, liberoscambismo e anti-interventismo (laissez faire) si giovano della schiavitù (si pensi ai motivi per cui gli Yankee guidati da Lincoln, sulle orme di Hamilton, presero le armi contro il “liberoscambismo filobritannico” degli stati del sud).
Liberalismo e democrazia intesa come socializzazione del potere non c’entrano nulla.
Il liberalismo è sovrastruttura del capitalismo moderno.
Per approfondimento sul rapporto tra pensiero liberale e schiavitù invito a leggere Losurdo, che approfondisce come uno dei padri del pensiero liberale Locke fosse conseguentemente impegnato nella tratta degli schiavi.
Non ci può essere liberto senza schiavo: “un liberale non è un liberatore”.
Spartaco sarebbe stato socialista, non sicuramente liberale.
La grande conquista delle democrazie costituzionali moderne è stato proprio l’abbandono dello Stato liberale per lo Stato sociale.
http://orizzonte48.blogspot.it/2015/03/liberismo-e-liberalismo-la-liberta-non.html
Mariulin
Se posso portare un altro contributo alla discussione, farei notare che tutta la retorica sui diritti naturali è cosmetica: i diritti individuali vengono garantiti squisitamente in base al censo.
Infatti i liberali classici si oppongono ai diritti sociali e si limitano a rivendicare la giustizia commutativa, rifiutando quella sociale.
Il neoliberalismo non è affatto “neo”: si cita giustamente Hayek. Hayek non è altro che un reazionario (controrivoluzionario, ovvero “oltre” la mera “conservazione”) che non fa altro che rispolverare il liberalismo classico.
Inoltre la “destra estrema” a cui fa riferimento “quasiscrive” non è mai esistita come istanza politica svincolata dal liberalismo, da cui nascono i nazifascismi (l’esoterismo non modifica i rapporti di produzione…): de Benoist è più vicino al tradizionalismo di Evola e Guenon, che a livelli di struttura sociale non offrono particolari spunti, e filosoficamente fanno molti meno “danni” di reazionari come Nietzsche: il “tradizionalismo” è per certi aspetti – come argomenta dettagliatamente Corey Robin nel senso di “sguardo verso il passato” – più vicino alla Sinistra storica in quanto in netta contrapposizione all’angosciante modernismo del liberalismo di cui la “sinistra” post-ideologica (ovvero, liberale…) ha fatto bandiera.
Attualmente il tradizionalismo è contenitore ideologico sovrastrutturato alle istanze sociali e alle potenze geostrategiche che si oppongono al mondialismo liberale, che, nella sua essenza totalitaria (con buona pace dei Kelsen e dei Popper) non accetta il multipolarismo.
C’è spazio per le democrazie sociali all’interno del tradizionalismo, mentre non c’è all’interno del liberalismo. (Si cita Schmitt: proprio Schmitt faceva notare che “democrazia liberale” fosse – e sia! – un ossimoro).
Per questo motivo il movimento del FN che rigetta il fascismo per un approccio conservatore/tradizionalista alla De Gaulle è da salutare con grande incoraggiamento.
(Voglio dire, il tradizionalismo non è né di destra né di sinistra, non implica nessun sistema economico particolare: quindi un buon programma keynesiano su una propaganda conservatrice fa sicuramente gli interessi della maggioranza. Il liberalismo è “il male assoluto”. Assolutamente condivisibile: sia a livello sociale e, soprattutto, a livello culturale)
quasiscrive
Che la “destra estrema” non sia mai esistita come istanza politica svincolata dal liberalismo mi pare una conclusione un po’ affrettata. Il fascismo delle origini nacque proprio in aperta (e ontologica?) opposizione alla democrazia parlamentare, di cui il liberalismo è l’inesorabile effetto. Imposizione etica (fascismo) contro imposizione economica (liberalismo). A sconfiggere Hitler furono risorse e potenza tanto russe che americane. Non certo la più alta morale dei suoi nemici.
Altrettanto affrettata pare l’affiliazione di de Benoist a Evola e Guénon. Per quel che ne so né Evola né Guénon – mi trovo del tutto d’accordo – offrono precise disposizioni di strutturazione della società. Al contrario, però, di de Benoist… che da anni va concentrando la sua attenzione critica sull’azzeramento dell’homo sapiens in favore dell’homo oeconomicus. De Benoist ha sostenuto testualmente che il liberalismo è il nemico assoluto per una sola, semplice ragione: fa del cittadino un elemento umano degno d’esistenza garantita se e solo se appartiene alla massa che si accresce e obbedisce esclusivamente nel più assoluto rispetto necessità economica. Senza mercificazione della persona il liberalismo crollerebbe poiché l’unica cosa che garantisce, con ogni evidenza, è la libertà economica individuale. In tutto questo, d.B., anziché parlare di fascismo parla di comunitarismo, con ciò intendendo una sociazione (la proposta di neologismo è di Ulrich Beck, autore de Lo sguardo cosmopolita) fondata sulla prevalenza dei diritti collettivi su quelli individuali, sia a livello politico che economico. Deriva pericolosa, sicuramente – soprattutto per chi molto ha e molto ha da perdere, non avendo i mezzi per difendersi da un’aggressione organizzata. Sulla paura del forte di diventare debole (Commendator Meneghetti), quindi, e su quella del debole di non poter mai diventare forte (Fantozzi) si fonda la struttura liberale della società dove, con Weber, solo lo Stato non etico, neutro e garante dei diritti, ha il monopolio legittimo della forza.
Mariulin
Mi piace l’argomentazione e sono d’accordo in genere: per quanto ad ora il tradizionalismo e il conservatorismo siano l’unico contenitore disponibile che abbia rilevanza politica e culturale (grazie soprattutto alla Russia…), l’interpretazione “addomesticata” di Nietzsche di questi autori non la condivido e la trovo pericolosa (d’altronde Vattimo a fatto di peggio, venendo da “sinistra”…).
Insisto, però, che al di là della sovrastruttura ideologica ed etica (che di per sé non condivido, ma anni luce dalla “negatività” liberale) del fascismo e di alcune istanze del nazismo, questi furono mere sovrastrutture del capitalismo liberista, che rinunciava ad alcuni suoi storici corollari (pluralismo, libertà di stampa, d’associazione, ecc.) per difendere ciò che realmente struttura i rapporti di produzione capitalistici: il liberismo economico.
Il fascismo nasce in primis per coordinare la proprietà terriera ed industriale non ancora internazionalizzata per disciplinare lavoratori e sindacati: per respingere la forza socialista.
Tutto il mondo liberale, da Pareto a Einaudi e tutti i marginalisti, sostenne il fascismo: Mussolini si presentò come liberista fino praticamente al ’29.
Del nazismo non ne parliamo: a Norimberga è emerso che il programma di Hitler era paro paro quello dei consigli di amministrazione del complesso finanziario ed industriale tedesco.
Non c’entra nulla l’etica: da conflittualista credo che esistano solo rapporti di forza e la capacità culturale di gestirli trovando risoluzioni “civili” al conflitto.
La verità è che mettere i “totalitarismi” tutti nel medesimo calderone è stata una fregnaccia da guerra fredda: in URSS i rapporti di produzione erano stati rivoluzionati sul serio.
E ora che è crollata ne paghiamo le conseguenze.
https://www.youtube.com/watch?v=3Avx4j2l4TE
quasiscrive
Se tutti i fascismi e il nazionalsocialismo in tutte le loro declinazioni fossero stati solo il manganello del capitalismo in crisi (interpretazione che, in forma coerente e definitiva data a Charles Maier, La rifondazione dell’Europa borghese, 1975), non si capirebbe perché ad abbatterli entrambi abbiano dato un contributo determinante in sangue e risorse tanto gli Stati Uniti che l’Impero britannico.
I rapporti di forza non sono solo scaturigine dell’oggettiva disponibilità di mezzi e fini. Al contrario, sono altrettanto strutturati dalla mutua percezione soggettiva degli attori. Senza questo secondo aspetto, la guerra fredda non sarebbe mai esistita o sarebbe durata il tempo di far prevalere l’uno sull’altro; non cinquant’anni. Senza etica – che si può definire come disposizione rispetto all’ambiente – la politica, in quanto dinamica di relazione fra centri decisionali, non ci può essere perché tutti sono, e tutto è, uniforme. Chi, dopotutto, ha bisogno d’altro se non di mangiare, bere e stare al sicuro?
Hobbes sulla stato di natura e necessità fonda la sua teoria della Stato, tuttora la più condivisa. Weber, al contrario, che volle arrivare a sostenere la strutturale imparzialità dello Stato liberale grazie alla burocratizzazione (vd. D. Bentham, La teoria politica di Max Weber) è stato molto contestato e gode di credibilità, quasi assoluta, solo in àmbito sociologico.
Mariulin
Sono a grandi linee in sintonia, ma credo sia storicamente è difficile sostenere una tesi contraria sui nazifascismi: i giganteschi cartelli tedeschi erano gonfi di capitale sia britannico che americano.
(Tra l’altro meno di adesso, ma transeat…)
Mentre i liberali in Italia pian piano che il ruolo dello Stato autoritario si faceva para-keynesiano, si defilavano, il keynesismo di guerra hitleriano era la tipica forma di risoluzione della depressione economica: risollevi l’economia tramite l’intervento dello Stato (piena occupazione, aumento della *domanda* aggregata, insomma, Keynes) *senza* ridistribuire il reddito e, “soluzione finale liberale” (ovvero dal lato dell’offerta…) con la distruzione dei mezzi di produzione (insomma, Marx).
La retorica anticapitalista delle camicie brune era, appunto, retorica. Finché non è divenuta troppo scomoda a chi finanziava l’NSDAP.
Si può assumere che in realtà gli alleati siano intervenuti più a fermare coloro che il tributo di sangue lo versarono veramente e issarono la bandiera rossa sul Reichstag. Non vorremo mica mettere a confronto il tributo di sangue degli alleati con quello dei russi, no?
Ora il capitalismo *cosmopolita* non ha più necessità di Hitler: i banchieri sono in prima linea a organizzare il Reich. Basti pensare a Soros.
Infatti non credo sia neanche condivisibile che il “parlamentarismo sia naturale portato del liberalismo”: lo è stato per ovvi motivi in un periodo storico.
Citavo appunto Spencer: egli fu un liberale di grandissima influenza, e affermava appunto che il liberalismo si sarebbe dovuto difendere prima o poi dal parlamentarismo dopo essersi difeso dall’assolutismo monarchico.
Era chiaro che parlamentarismo ed industrializzazione erano gravidi dell’antitesi democratica e socialista.
Riguardo all’Etica condivido assolutamente: intendevo che la sconfitta del nazifascismo non è da attribuire ad una “superiorità morale” degli alleati.
L’etica è tutto: figuriamoci.
Hobbes – che giustamente citi – definiva lo “stato di natura” proprio come quella condizione sociale in cui “l’etica non è condivisa”.
Ma, da buon riformista rivoluzionario quale cerco di essere, rifiuto “l’imposizione etica” in quanto la considero sovrastrutturata all’imposizione “economica”. Il liberalismo è pregno di moralismo secolarizzato: basta accendere la radio…
Non la considero “morale”, ma ideologia: ovvero falsa coscienza. Al di là degli sforzi di alcuni autori.
L’unica Etica “condivisa” che deve materializzarsi in prassi tramite le Istituzioni è quella che “domina “la Legge: ovvero quelle che scaturisce dalla legislazione di un’assemblea costituente eletta a suffragio universale.
Mariulin
Dalla legislazione di una repubblica democratica fondata sul lavoro.
Lucio Mamone
Gentili Mariulin e quasiscrive,
Parto dall’inizio: il liberalismo è “la sovrastruttura ideologica del capitalismo”? Ni. Si può dire tale al momento della nascita del capitalismo. Non dimentichiamoci però che il liberalismo precede cronologicamente il capitalismo. Anzi i temi fondamentali del liberalismo (diritti natuali, regime di legalità, separazione dei poteri ecc.) iniziano a svilupparsi per la prima volta in Inghilterra come strumenti dell’aristocrazia contro il re e solo in un secondo momento divengono l’ideologia con cui la borghesia rivendica il suo primato politico-sociale (come ho scritto nell’articolo). Vi è in questa dinamica una certa somiglianza con quanto avviene con la rivoluzione francese, la cui premessa storica è il contrasto tra corona e aristocrazia e che diventa invece la lotta della borghesia contro entrambe. Il vero nemico del liberalismo è dunque all’origine più che l’aristocrazia, l’assolutismo monarchico. Tenere a mente questo fatto è sì necessario per capire il liberalismo, ma non commettiamo l’errore di sovrastimarne l’importanza e cioè, parafrasando Marc Bloch, di considerare le origini come momenti sufficienti a spiegare. Le idee come le specie animali hanno un loro percorso evolutivo in cui si trasformano, riacquistano nel corso del tempo tratti che avevano perso, si scindono o semplicemente diventano qualcosa d’altro. L’origine del liberalismo spiega tanto quanto confonde, poiché nel corso della sua storia esso si differenzia in svariate forme, anche in contrasto tra loro.
Per questo motivo non mi convince affatto l’idea che liberalismo e liberismo siano la stessa cosa: e allora Keynes? E John Stuart Mill, il quale sosteneva che se la proprietà privata doveva avere la conformazione attuale allora meglio il socialismo? Il liberismo a livello politico è una concezione che semplicemente ritiene inviolabile la proprietà privata, assolutizzando un singolo aspetto della più vasta visione liberale. Pertanto io propenderei ad affermare, come peraltro viene sostenuto da personaggi ben più illustri di me come Hobsbawm, che vi può essere un liberismo che aspira ad essere liberale (come è pur al netto di tutte le sue contraddizioni quello della società europea precedente al primo conflitto mondiale) ed uno che non vi aspira neanche (Pinochet, Franco, Fujimori ecc.). Ciò nonostante la mia opinione è che un liberalismo liberista è comunque una realtà intrinsecamente contraddittoria, in quanto condannato a restare un liberalismo “zoppo”, o forse più esattamente “selettivo” (e qui le do quindi sostanzialmente ragione, Mariulin, quando dice che “i diritti individuali vengono garantiti squisitamente in base al censo”).
Veniamo al tema dello schiavismo. Che lo schiavismo venisse praticato e accettato da pensatori e società liberali, così come oggi lo sfruttamento e la repressione delle classi popolari, dimostrano sicuramente la loro cattiva coscienza (che è un’altra parola per dire “ideologia”), quindi di ciò che ho appena definito l’applicazione selettiva dei loro principi. Ma anche qui, che il liberalismo o anche solo il liberismo debbano essere necessariamente schiavisti, mi sembra francamente un volo pindarico piuttosto ingiustificato.
Liberalismo e democrazia sono compatibili? Certamente: lo stato di diritto democratico è la sintesi tra i due principi. E lo stato sociale, che oggi sta scomparendo, non è che l’integrazione degli ideali socialdemocratici all’impianto del precedente stato liberale. Certo, resta poi da vedere se la democrazia liberale sia il miglior sistema possibile (o più ristrettamente la miglior democrazia possibile). Liberalismo e democrazia sono la stessa cosa, come implicitamente afferma Popper con la rozzezza che gli è propria quando parla di politica? Assolutamente no e a proposito della loro diversità Carl Schmitt scrive le pagine più che abbia mai letto, pur commettendo l’errore di restare troppo “affezionato” alle forme pure, come gli capita ad esempio anche sulla questione della sovranità, riconoscendo conflittualità lì dove vi è semplice mediazione.
Ultimo punto: destra estrema e liberalismo. La destra estrema è paradigmaticamente inconciliabile con il liberalismo e almeno negli intenti tendenzialmente ostile al parlamentarismo (un pò più complesso è il suo rapporto con la democrazia). Non vi sono invece imprescindibili ragioni ideologiche di opposizione al liberismo, al contrario il connubio tra estrema destra e liberismo è stata probabilmente la variante della prima storicamente più ricorrente. E, come ho già detto, proprio questo fatto fornisce un chiaro esempio di come liberalismo e liberismo non siano la stessa cosa.
Lucio Mamone
*Carl Schmitt scrive le pagine più belle che abbia mai letto
Mariulin
Passi per la distinzione tra liberalismo e liberismo che fondamentalmente esiste solo in Italia (e in Germania): Mill e Keynes sono l’inizio e la fine del liberalismo *sociale* inglese.
Keynes milita nel partito liberale perché rigetta alcuni presupposti “conflittualisti” e l’organizzazione del partito laburista: lo spiega bene in “Am I a liberal?”
Keynes non viene, infatti, considerato un liberale dai liberali.
Per la discussione sul rapporto tra liberismo economico e liberalismo rimanderei ad Einaudi, Hayek e… al link che ho provato a segnalare.
Lo stesso Bobbio mette in luce come nella storia il liberismo economico sia implicito nel liberalismo.
Sulle differenze tra Stato liberale (costituzione che limita il governo, “libertà da”) e democrazia costituzionale moderna (Stato sociale, “democrazia partecipata”, “libertà di” tramite il lavoro, e Stato come sinonimo di comunità sociale) rimanderei ai lavori della Costituente: in particolare alla discussione tra Calamandrei e Basso).
Costituente in cui il liberismo viene rigettato: storico l’intervento di Ruini in risposta ad Einaudi.
Sicuramente il “nominalismo” non rende semplicissimo chiarire certi concetti che, in realtà, sono piuttosto pacifici almeno in quell’ambito scientifico in cui si studia la relazione tra paradigmi economici, istituzioni, ed ordine sociale: almeno, su questi argomenti credo sia interessante il confronto appassionante tra giuristi ed economisti che scrivono su Orizzonte48.
Sulla relazione tra liberalismo e schiavitù rimando a “destra” con le argomentazioni di Leo Strauss e a “sinistra” con i recenti interventi di Canfora e Losurdo: si argomenta che non è semplicemente “falsa coscienza” e non è solo un’evidenza storica: è una questione ideologica e filosofica.
Il liberismo ha come *fondamento* il lavoro merce: l’elasticità dei salari verso il basso in caso di shock economici è un postulato dell’economia liberale e neoclassica (come ci ricordano quotidianamente sui giornali). Tutto il resto è “distorsione”, indebita interferenza dello Stato nell’ordine naturale dei mercati, ecc., ecc.
Dopo il ’29 e la *conseguente* WWII non è un caso che abbiamo fondato la nostra Repubblica sul lavoro.
Non credo sia invece accettabile affermare che il “liberalismo precede cronologicamente il capitalismo” che nasce notoriamente ben prima in Italia: tanto che il liberismo tout court nasce in ambito “cattolico”, fino a venir razionalizzato e formulato a Salamanca; tutto il *paravento* “filosofico” ed “istituzionale” è successivo, con l’eccezionale contributo degli empiristi scozzesi.
Sarebbe interessante verificare le fonti e procedere ad un altro articolo che sintetizzi la discussione.
Grazie mille.
quasiscrive
Capisco che citare testi in tedesco impressioni il pubblico ma fatico molto a credere che siano stati letti in tale lingua.
Detto questo, non capisco come si possa parlare di nesso e/o correlazione fra capitalismo e liberalismo senza riferirsi neppure una volta Hayek.
Era troppo bravo ad argomentare? La mia posizione è di estrema, vecchia destra e, ciononostante, per quanto riguarda il liberalismo – che ritengo il nemico assoluto – faccio riferimento a de Benoist.
Aldo Giannuli
Hayek a parte posso garantirle che Lucio parla benissimo il tedesco perchè da tre anni studia in Germania
Lucio Mamone
Gentile quasiscrive,
1) So che mettere in bibliografia le versioni tedesche dei libri è potuto sembrare un gesto di vanteria, ma avevo delle buone ragioni: innanzitutto la metà dei libri in tedesco citati non sono stati tradotti in italiano e quindi almeno in quei casi la scelta era obbligata; in secondo luogo nella versione originale volevo inserire qualche citazione (ovviamente tradotta in italiano) e, essendo in possesso solo delle versioni in tedesco, potevo far riferimento solo a quelle per il numero di pagina. Poi l’articolo stava diventando troppo lungo e ho preferito tagliare e parafrasare le citazioni.
2) Hayek lo conosco, ma probabilmente non abbastanza per esprimermi in termini certi sulla questione, tuttavia sinceramente mi sfugge in che modo le sue posizioni avrebbero potuto modificare il quadro delineato. Quando ho parlato di liberalismo l’ho fatto considerando il modello teorico posto alla base delle nostre costituzioni, non esponendo le concezioni di questo o quel filosofo. Non ho cioè voluto proporre una storia del pensiero liberale, ma ho semplicemente illustrato quella concezione comune a tutto il liberalismo che è la teoria dei diritti naturali di libertà. Se però attraverso Hayek lei crede di poter dimostrare la presenza di errori nell’articolo, sarei io stesso davvero interessato alla questione.
quasiscrive
Hayek, naturalmente, è una citazione obbligatoria in un articolo dal titolo “Lo scambio capitalistico è davvero compatibile con il liberalismo?” dato che, notoriamente, è stato proprio Hayek a teorizzare per primo un nesso strutturale e ontologico fra libertà e capitalismo. Sarebbe un po’ come parlare del populismo mediatico, (su cui Tarchi ha scritto un libro identificandovi un fenomeno nuovo) senza mai nominare Tarchi stesso.
Sulle citazioni in tedesco, – chiedo scusa se insisto – continuo a non credere che sia seriamente possibile da parte di un non madrelingua la reale comprensione di testi accademici finalizzata a un’interpretazione euristica e non puramente strumentale. Così non fosse – giusto per fare un esempio – non si capirebbe per quale motivo su autori di ancora maggior impatto, come Nietzsche, da oltre un secolo germanisti di ogni provenienza continuino a essere radicalmente discordi.
Detto questo, fatico anche a capire cosa significhi esattamente “il modello alla base delle nostre costituzioni”, soprattutto in riferimento all’aggettivo di possesso. Nostre in che senso? Occidentali? Se è così, tanto peggio. Perché allora, oltre alla mancata (e, ripeto, grave) citazione di Hayek, ci sarebbe anche quella di Rawls.
Paolo Federico
A Lucio Mammone
Non sono soddisfatto del suo modo di porre la questione. Ho come la sensazione che lei ci giri intorno senza affondare il colpo. Liberalismo e socialismo sono due facce della stessa medaglia, quella che pretende, attraverso l’economia, di capire spiegare e per discesa dirigere la realtà.
Si è già avverato il socialismo, per edificarsi ha distrutto un impero e poi ha distrutto se stesso in settant’anni: un nano secondo nella storia, lasciando campo libero al liberalismo,il quale ha condotto, complice lo scientismo e la tecnologia, l’intero pianeta sull’orlo di una catastrofe globale. Ce ne abbastanza per farsi domande molto più radicali di quanto possa suggerire il suo articolo.
L’unica certezza storica che possiamo desumere osservando tutte le civiltà e le conseguenti organizzazioni sociali è che esse si dispongono sempre secondo un ordine gerarchico il quale perciò stesso deve essere considerato naturale, con al vertice una élite che non fa nulla e possiede tutto e alla base una massa che fa tutto e non possiede nulla, in ciò non facendo eccezione il socialismo.
Stante quanto sopra premesso, diventa conseguenza naturale, ponendo l’economia a fondamento dell’agire umano, l’emergere come élite dominante un tipo umano totalmente deviato e degradato: il finanziere, il banchiere, in parole povere: lo strozzino!
Queste sono le vere parole rivoluzionarie.
Lucio Mamone
Gentile Paolo Federico,
quella di pormi in un orizzonte piuttosto concreto è stata una scelta consapevole. Quindi concordo con lei che è possibile porsi domande più radicali rispetto a quelle che ho posto.
Non sono invece d’accordo con lei quando equipara socialismo e liberalismo in quanto entrambi propugnatori del primato dell’economia sulla politica. A mio avviso ciò è vero per il liberismo, può esserlo (ma non necessariamente) per il liberalismo, ma non dovrebbe esserlo per il socialismo. Nel dibattito che è seguito all’articolo si è citato in un paio di occasioni Hayek, il quale rimprovera al collettivismo, e dunque al socialismo, proprio la pretesa di governare l’economia attraverso la politica. Riprendendo quello che lei dice, credo che ad esempio si possano imputare all’Unione Sovietica un gran numero di errori, contraddizioni e limiti, ma non certo quello di aver messo il potere nelle mani di finanzieri e banchieri!
Come ho risposto ad un altro interventore, lo scopo dell’articolo era semplicemente quello di marcare la differenza tra capitalismo e liberalismo e con ciò invitare a riflettere sul fatto che per difendere non solo i diritti democratici e sociali delle nostre costituzioni, ma anche quelli liberali è opportuno realizzare delle forme di limitazione e superamento del capitalismo. Ciò nonostante resta la possibilità che possa aver comunque mancato il colpo e su questo mi affido al vostro giudizio.
Paolo Federico
A Lucio Mamone
“Non sono invece d’accordo con lei quando equipara socialismo e liberalismo in quanto entrambi propugnatori del primato dell’economia sulla politica. A mio avviso ciò è vero per il liberismo, può esserlo (ma non necessariamente) per il liberalismo, ma non dovrebbe esserlo per il socialismo. Nel dibattito che è seguito all’articolo si è citato in un paio di occasioni Hayek, il quale rimprovera al collettivismo, e dunque al socialismo, proprio la pretesa di governare l’economia attraverso la politica.”
Andiamo signor Lucio, questa è una difesa un po’ ideologica del socialismo.
Il socialismo ha utilizzato la politica (e ahimè non solo la politica) come strumento della dittatura del proletariato per guidare l’economia, proprio perché l’aveva posta a fondamento dell’agire umano. Continua a girarci intorno e non affonda il colpo.
Lucio Mamone
A Mariulin,
innanzitutto la ringrazio per i suoi contributi alla discussione. Le assicuro che avevo letto l’articolo da lei segnalato, ma come ho poi scritto non ne condivido l’impostazione di base: posso concedere senza troppe esitazioni che il liberale sia stato nel corso della storia solitamente un liberista, ma questa constatazione è altra cosa dal dire che il liberalismo presupponga il liberismo. Parlerei dunque di ricorrenza storica, più che di necessità logico-filosofica, come dimostrano le numerose, seppur minoritarie, varianti liberali non liberiste (come riferimento meno ortodosso rimanderei ad esempio “Cent’anni di solitudine”). Lo stesso Bobbio, che lei cita, riteneva il socialismo superiore al liberalismo, in quanto il primo include il secondo ma non viceversa, quindi si capisce come egli tenga per buona la differenza tra liberalismo e liberismo (non avrebbe senso infatti pensare che il socialismo contenga il liberismo).
Anche il tema della nascita del capitalismo sarebbe, come da lei suggerito, da discutere. Sarei ad esempio molto interessato alla sua riconduzione del capitalismo all’ambiente cattolico italiano, immagino tardo-medievale o all’alba della modernità. Per risponderle adesso in due righe, io ritengo invece corretto parlare di capitalismo come sistema economico a partire dalla rivoluzione industriale. Ciò che precede questa fase, lo indicherei più come elementi proto-capitalistici in un sistema però che non definirei tale. Anche a livello teorico probabilmente è possibile individuare alcuni pensatori “capitalisti” precedenti alla rivoluzione industriale (Adam Smith), ma resta da capire quanto e in che modo essi siano effettivamente tali e quanto invece questa identificazione è una nostra proiezione in loro dello sviluppo successivo.
Effettivamente sarebbe positivo un articolo di sintesi, visti i numerosi ed eterogenei contributi che ci sono stati. Temo però di non aver davvero la possibilità di scrivere l’articolo, quantomeno in questo momento, per via di vari impegni universitari. Cercherò di ritagliarmi un po’ di tempo, ma intanto mi scuso preliminarmente qualora non dovessi riuscirci.
Gianluca
Lucio Mamone,
riguardo la teoria del sistema-mondo di Wallerstein lei cosa pensa? Un’economia-mondo è andata strutturandosi fin dal 400, e naturalmente il pensiero liberale ne è stato l’alfiere fino alla sintesi di un paradigma liberal-marxista (oggi peraltro superato). Nel pensiero liberale ci sarebbero le basi di quella proprietà privata illimitata fondamento del capitalismo, per la costruzione di quella realtà virtuale tipica della modernità fondata sull’individualismo di autori come ad esempio Locke, e Spinoza col suo monadismo.
Lucio Mamone
Gentile Gianluca,
lei come Mariulin solleva l’importante questione dell’origine del capitalismo in funzione del chiarimento del suo nesso con il liberalismo. Premetto di non avere grandi titoli per esprimermi sul tema, ma naturalmente le fornirò il mio punto di vista. Mi sembra peraltro di ricordare un articolo del Professore proprio a proposito della “datazione” del capitalismo, purtroppo però non sono riuscito a ritrovarlo.
Diciamo che la concezione di Wallerstein e Braudel di un capitalismo che inizierebbe già nel ‘400 non mi convince molto, nonostante faccia emergere degli elementi significativi. Terrei quest’ultimi dicendo piuttosto che le grandi scoperte geografiche costituiscono una condizione di possibilità comune per il successivo sviluppo sia del capitalismo che del liberalismo. Quanto al primo crea per gli europei una prima possibilità di accumulazione (rispetto alla situazione dell’epoca) illimitata, quanto al secondo fa accrescere l’esigenza di una teoria giuridica universalista da rivolgere contro i nativi e legittimare la conquista (pensi a Vittoria). Su quest’ultimo punto mi richiamo manifestamente a “Il Nomos della Terra” di Schmitt.
Mi sembra però un eccesso teleologico quello di interpretare questa situazione o come un passaggio che doveva portare necessariamente al capitalismo o addirittura come momento di nascita del capitalismo. Non ritengo neanche corretto vedere nel liberalismo nascente una teoria che già si pensa sovrastruttura del capitalismo: ad esempio in Locke l’idea di un’accumulazione illimitata è esplicitamente rigettata, in quanto gli individui hanno diritto alla proprietà nella misura in cui ne possono godere (II. Trattato sul governo, Cap. V), il che ci fa capire, insieme all’intera costruzione teorica con cui giustifica il carattere naturale della proprietà, come non fosse il capitalismo la realtà economica che Locke aveva in mente. Come ho scritto in una risposta ad un precedente intervento, il prototipo del liberalismo nasce in Inghilterra come teoria per difendere la rendita fondiaria dalle ingerenze della corona e non come strumento della borghesia per il suo attacco ai poteri tradizionali (e qui rimando a “Il Saccheggio” che trova in bibliografia).
Sempre per rimanere su Wallerstein mi sembra poi troppo netta la distinzione tra impero-mondo ed economia-mondo, perché da un lato mi sembra de-politicizzi eccessivamente l’ordine economico che europei prima ed americani poi vanno costruendo a partire dal XV secolo, mentre dall’altro imposta il discorso su una prospettiva essenzialmente eurocentrica che esclude una serie di esperienze precedenti, che magari si ponevano proprio come soluzioni di mezzo (come ad esempio l’Impero cinese).
Con ciò non voglio negare che tra capitalismo e liberalismo si possano trovare una serie di punti di congiunzione sia soggettivi che oggettivi, o che al momento della nascita del capitalismo il liberalismo sia stata impiegato come sua ideologia, ma credo sia necessario tener presente anche quegli altrettanto significativi elementi di differenza da cui scaturisce l’incompatibilità di cui ho parlato nell’articolo.