Bhopal, trent’anni dopo.

Più ci penso e più mi accorgo di non riuscire a immaginarlo. Non riesco a immaginare quale possa essere l’odore della peggiore catastrofe chimica della storia. Leggo e rileggo i report, le testimonianze di chi è sopravvissuto, i comunicati stampa. Trovo immagini, interviste, servizi televisivi ma l’odore dell’aria; quello no, mi manca. Continuo a chiedermi di che cosa sapeva l’aria nei dintorni dell’impianto della Union Carbide India Limited a Bhopal, la notte tra il 2 e il 3 dicembre di trent’anni fa. Perché poi è quello il punto centrale: quando una nube chimica striscia in silenzio per quasi tremila chilometri la battaglia è nell’aria, nelle narici, nelle gole e nei polmoni di chi non riesce a scappare. L’odore se lo ricordano in pochi: chi lo ha sentito davvero non gli è sopravvissuto. Mi affido alla rete e digito CH3N-CO, Isocianato di metile. Parto da zero e scelgo Wikipedia, qualcosa trovo: “(…) incolore, tossico, con un odore pungente di cavolo cotto”. Qua e là leggo di qualcuno che si ricorda un vago odore di peperoncino. Quindi, quella notte, l’aria di Bhopal sapeva di cavolo cotto e peperoncino. Curioso come la morte possa avere un odore familiare.

Una nuvola di gas non dà molto preavviso, quando ci si accorge della sua presenza è troppo tardi. Si inizia con la gola che brucia, poi una forte tosse, poi il bruciore agli occhi, mancanza di respiro e vomito. L’isocianato di metile è pesante, va verso il basso e i bambini sono i primi a morire. Scappare è inutile: più si corre più il battito aumenta più in fretta il gas entra nei polmoni e si diffonde nel sangue. È matematico, inevitabile, certo. E maledetta la sorte quella sera, c’era anche il vento.

La nube arriva da un serbatoio degli impianti di produzione di pesticidi: un flusso d’acqua lo ha invaso, scatenando la reazione mortale. I primi a morire sono gli operai che lavorano lì vicino, alla pulizia dei condotti. L’impianto è di proprietà della Union Carbide India Limited, un’azienda per il 51% in mano alla Union Carbide, colosso americano della chimica. Gli impianti di Bhopal sono una gallina dalle uova d’oro: l’Isocianato di metile velocizza la prodzione e dimezza i costi. Poco importa se è pericoloso, del resto il business è rischio no?

Alle prime luci dell’alba l’immagine che invade gli occhi dei soccorritori è agghiacciante. Le strade sono piene di morti: uomini, donne, bambini e animali. Molti di loro sono sporchi di vomito, urina e feci e l’aria è irrespirabile. I mediocri ospedali locali sono impreparati all’emergenza e la gente muore numerosa tra le corsie.

I dati sulle vittime sono controversi, difficile quantificare con precisione. Nella sola notte del disastro sono decedute tra le tre e le quattromila persone. Circa Ottomila se si contano quelle dei giorni successivi. Più di ventimila sono morti negli anni seguenti. Si può anche non morire subito, come con l’amianto, si passano anni a combattere contro gli organi che lentamente si distruggono: fegato, reni e polmoni ci abbandonano lentamente.

La notizia arriva immediatamente in Texas e Warren Anderson, amministratore delegato, parte per l’India con il suo team di tecnici. Appena atterra viene messo agli arresti domiciliari: dalle prime analisi risulta che gli impianti di sicurezza non sono scattati, le valvole di chiusura versavano in pessimo stato e i livelli di reagente nel serbatoio superavano le soglie consentite. La situazione è critica, ma all’americano bastano poche ore e 2.100 dollari di cauzione per essere rilasciato. Pochi giorni dopo è di nuovo negli States.

Inizia la battaglia legale, il governo indiano si dichiara rappresentante delle vittime. La Union Carbide ha fretta di chiudere il processo, troppo clamore guasta gli affari. Lancia la sua proposta: 350 milioni di dollari per metterci una pietra sopra. Il governo indiano, però, rilancia a 3,3 miliardi. Chiuderanno a 470 milioni, pagati subito. Superstiti e autorità locali, però, non ci stanno: nessuna cifra può cancellare dai ricordi la mattina del tre dicembre. Sei anni dopo denunciano Anderson e parte del management per omicidio colposo. La Corte Suprema Indiana li ascolta, riapre il caso e richiede l’estradizione dell’amministratore delegato. Estradizione che Gli Stati Uniti negheranno puntualmente, dichiarando la Union Carbide fuori dalla giurisdizione indiana. Il processo è continuato e nel 2010 sette persone sono state condannate, tutti cittadini indiani membri dell’allora management. Il reato: negligenza, due anni di carcere e 2.124 dollari di multa.

E maledetta la sorte ancora una volta, Warren Anderson è deceduto poco più di un mese fa. Di vecchiaia, impunito e nel suo letto.

Da New Delhi, Daniele Pagani

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Aldo Giannuli

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