L’Austerity: se non guarisce, uccide
Molto volentieri torniamo ad avere ospite Lamberto Aliberti, che ci propone come sempre una analisi molto accurata dei conti greci e delle reali possibilità per Tsipras, Varufakis ed il governo greco. Buona lettura!
Aggiornamento 6 marzo 2015: Parole e numeri. Una risposta ai commenti.
Il patto.
In realtà sono due e vedremo presto se Tsipras riesce ad ottenerne un altro. Per ora siamo su un accordo molto parziale e provvisorio: mantenimento del programma di aiuti in vigore per 4 mesi, in cambio di impegni, piuttosto misteriosi. Il primo accordo fu siglato il 3 maggio del 2010 fra il primo ministro greco George Papandreou e tre contraenti: la Commissione Europea, per conto dell’Eurogruppo, la Banca Centrale Europea (ECB) e il Fondo Monetario Internazionale (IMF). Si era in emergenza: la Grecia era sull’orlo del default. La posta: aiuti finanziari, in cambio di drastici interventi sul bilancio e sull’economia, nonché il riavvio della crescita, per far bene ai greci, ma anche evitare il rischio di contagio per l’intera Unione Europea o almeno i suoi membri deboli.
I finanziamenti.
Qui l’ultimo aggiornamento del fabbisogno finanziario, da ritenere ancora valido oggi, pur se ha subito qualche ritocco nel corso del 2013. Non si conta l’haircut, cioè il taglio (2012) del debito in mano a privati (in prevalenza banche) pari a 100 miliardi. Insomma, il default della Grecia c’è già stato. L’ha tenuta in vita l’aiuto finanziario dell’Unione Europea, reso necessario dal degrado dei titoli greci a spazzatura, che ha comportato la rinuncia ad andare sul mercato per 18 mesi nel 2011-12. Alla fine del 2014, le istituzioni erano creditori per il 77% del debito. In buona sostanza non si può dire che la famigerata Troika non sia stata generosa. Ecco la situazione: tre filoni istituzionali, IMF, Eurogruppo, che vuol dire direttamente i singoli paesi dell’EU, ECB con la banca di Grecia, preposta soprattutto alla liquidità d’emergenza. In questi due ultimi casi il carico si divide, in funzione delle nostre quote di proprietà dell’ECB, ricalcolate, a propria volta, ogni 5 anni, in funzione della popolazione e del PIL.
Per noi l’onore e l’onere ammonta oggi nel complesso – è un calcolo complicato, che deve mettere insieme capitale e interessi –intorno ai 35 miliardi. Coi nostri affanni, si propetta un bel sacrificio, che potrebbe anche mandarci a gambe per aria. Gli aiuti comprendono interventi a sostegno delle banche greche, endemicamente sottocapitalizzate, afflitte, con irritante periodicità, dalla fuga dei correntisti, col rischio ogni volta di default. Come sta avvenendo di nuovo adesso, quando, nonostante la proroga ottenuta di 4 mesi e le rassicurazioni del governo, si segnala che il livello dei depositi bancari è sceso di 12.2 miliardi di euro nel gennaio 2015, pari a un 8% circa del totale, secondo i dati diffusi dalla Banca centrale europea. Anzi è proprio il soccorso alle banche una delle ragioni più forti per la richiesta di una proroga del programma di aiuti.
Gli impegni per la Grecia.
In contropartita, dal primo soccorso del 2010, la Grecia ha assunto tutta una serie di impegni, ribaditi e in una discreta misura inaspriti dal secondo, e continuamente ricordati dai contraenti, in particolare dal tedesco Schaeuble.
Li richiamano i vari memorandum ad un livello estremo di dettaglio, che in pratica percorre l’intero scibile delle politiche di uno stato moderno. In sintesi:
Se si eccettua l’ultima riga, possiamo negare di trovarci di fronte a un campione significativo di austerity?
I risultati: approccio.
Non può essere un bilancio pro o contro l’austerity, ma un’attenta analisi delle conseguenze delle misure imposte alla Grecia, in vigore da più di 5 anni, quindi con un’attendibilità statistica adeguata. Lo svilupperemo su tre fronti:
-le aspettative/previsioni dell’EU; diciamo subito che sono state ripetutamente formulate, in pratica ogni volta che usciva un dossier sulla Grecia; non abbiamo preso le prime e neanche le ultime, precisamente il file ocp94 “The Second Economic Adjustment Programme for Greece – March 2012”, con una leggera libertà, ci siamo limitati cioè alle macrostime, mentre l’approccio EU è di un dettaglio estremo, ricostruibile solo con molta pazienza, anche da parte del lettore e poi privo di rilevabilità diretta, attraverso fonti statistiche affidabili; comunque si è potuto far emergere cosa pensano le autorità comunitarie dell’austerity o perlomeno della loro quasi ultima valutazione, alla luce dei fatti:
-com’è andata per la Grecia, fino al 2013, purtroppo il consuntivo 2014 non è ancora disponibile oggi; la fonte è Eurostat:
-la proiezione 2014-2020, attraverso il modello dinamico Dext, già presentato, per sommi capi e molte polemiche, nel primo articolo su Tsipras; chi voglia approfondirsi sulla metodologia, esperienze e struttura può collegarsi al nostro sito http://www.dextproject.com/ da oggi funzionante; il modello assume ovviamente uno scenario macroeconomico; tra gli altri, la diminuzione prevista del prezzo del petrolio, che scenderà sotto 40$/barile quest’anno per riprendersi solo all’inizio del 2019; per un paese come la Grecia questo va a incidere positivamente sia sulla spesa per le famiglie, con una media dello 0.8% di guadagno, sia sugli investimenti delle imprese, con un 1.1% medio; chi voglia essere deliziato dall’analisi degli effetti del petrolio a basso prezzo, le potrà leggere presto qui, nonché subito sul nostro sito; nello scenario è inoltre presente il Quantitative Easing di Draghi, 60 miliardi al mese da marzo a settembre 2015, che vale una discesa dei tassi d’interesse e uno stimolo all’economia greca dello 0.75% nel 2015 e 2016;
Insomma, cominciamo un bilancio sull’austerity, senza la pretesa di renderlo esaustivo, perché abbiamo contro perlomeno tre circostanze:
-la Grecia è un caso unico sotto una pluralità di profili;
-quanto la Grecia abbia applicato tutte le misure imposte dall’EU è leggibile con estrema difficoltà, anche se abbiamo fatto il possibile per farle emergere e di più ci riserviamo di fare in una prossima puntata, quando si tenterà una generalizzazione e un confronto di politiche;
-la crisi economica, che ha imperversato per tutto il corso dell’esperimento, tende ad ovattare, più di ogni altra cosa, la situazione; per un giudizio insomma occorre – e lo faremo – confrontare politiche di austerity in un clima diverso.
I risultati: la crescita.
Perché partire dalla crescita?
-l’austerity si può realizzare in un mix pressoché infinito di combinazioni;
-ha però sempre un duplice focus: contenimento della spesa pubblica e massimizzazione delle entrate, in particolare attraverso una tassazione da paura;
-con un contraltare: penalizzazione della crescita, cioè il prodotto interno lordo (PIL); es. più tasse, meno spesa delle famiglie (componente quasi sempre principale del PIL); più tasse sulle imprese, meno investimenti fissi lordi (altra componente del PIL);
-inoltre i consumi pubblici, sottinsieme della spesa pubblica, sono una componente, spesso non marginale, del PIL; perciò la riduzione di essi, è ipso facto una riduzione di PIL;
-ma c’è anche qualcos’altro, un prodotto della teoria dei sistemi, non sempre adeguatamente valutato: la retroazione; ridurre il PIL significa ridurre i proventi della tassazione, che sono il prodotto di pressione fiscale per consumi finali (imposte dirette);
-un’altra condizione di retroazione si ha nei confronti degli interessi passivi, da pagare sul debito pubblico; il tasso negoziato coi propri creditori è funzione del rischio e quest’ultimo determinato in misura prevalente dal rapporto debito/PIL; scende il PIL, sale il rapporto, salgono gli interessi;
-e altri fenomeni di retroazione , che rimandiamo alla grafica per evitare allo scrittore di fare una gran confusione;
-mentre andiamo ad osservare la crescita.
Le variabili osservate sono reali, cioè a prezzi costanti, nel caso 2005, dunque depurate degli effetti dell’inflazione.
La più importante è la spesa delle famiglie, comprendente anche le istituzioni non-profit.
Il quadro è veramente deprimente, fra il 2008 e il 2013, la Grecia la vede ridurre di quasi un terzo. Non c’è da stupirsi se i poveri sono cresciuti a dismisura e le jacqueries impazzano, nonostante lo scudo di Tsipras. Meno ancora c’è da stupirsi di come la Troika minimizzi la questione. Ancora più pessimistica è la visione del modello. Il petrolio a basso prezzo porta vantaggi, ma se anche diminuisce il prezzo della benzina, le famiglie greche probabilmente hanno smesso o non hanno la macchina e magari neppure i soldi per goderne in altro modo.
I consumi finali pubblici, come sottinsieme della spesa pubblica, sono, a nostro parere, una decisione (fattore sotto controllo del governo), anche se soggetto a vincoli di ogni tipo. Diventa quindi esilarante che storicamente si sia ridotta di quasi un terzo, mentre per l’EU è stabile, pur se su valori molto inferiori alla soglia massima, con una decisa tendenza finale alla crescita. Dunque l’applicazione delle direttive europee, da parte del governo greco, è andato oltre le attese. Surtout, pas de zèle, ragazzi. Per il modello che sia una decisione è un vincolo, per cui si assesta su quelle che abbiamo ritenuto le direttive EU.
Sugli investimenti fissi lordi c’è unanime consenso delle tre fonti. Tra il 2007 e il 2013 si portano a meno del 40%, rispetto alla punta. L’Eu si accoda. Andiamo dunque ben oltre l’austerity in questo caso, in un’economia agli estremi. E, siccome la variabile è in relazione causa/effetto con tutte le altre, come si può pensare di risollevarsi? Neanche la pallida malcerta speranza del modello può indurre all’ottimismo. E sicuramente, ancor più dei precedenti, fa pensare che Tsipras non sia solo animato da ideologia, ma abbia ragione anche in termini economici.
Non meraviglia nessuno che l’export sia anch’esso in caduta libera. Meraviglia, in fondo, che storicamente non perda più di un 25%, in coincidenza con la crisi economica, forse più che per l’austerity. Del resto questa condizione si ritrova in moltissimi paesi, conseguenza di una caduta drammatica della domanda mondiale. Quando, se non si era più che robusti sul piano della competizione – e la Grecia certo non lo era – l’export aggiungeva significative perdite di competitività. Nel nostro caso, la stabilizzazione del 2010-2010 suona comunque, se non rassicurante, confidente, in termini di futuro. Ma forse dobbiamo credere alla nera visione del modello, che registra, su un livello decisamente inquietante, l’effetto della minima ripresa degli investimenti fissi lordi. Più realistica del re, l’EU trascina le sue previsioni quasi alla soglia del 2002, per una ripresa successiva, che non si capisce come giustificata.
Dell’import, a prima vista, sembra tutto scontato: quasi un dimezzamento fra il 2008 e il 2013, colto sia sul piano storico che dall’EU e dal modello, che segnala una effimera ripresa. Se però facciamo mente al saldo di export meno import emerge una debolezza, che fa pensare malissimo per il futuro. La Grecia è stata storicamente sempre in saldo negativo, con una punta, nel 2007, di una dimensione, che non trova forse un altro equivalente al mondo. La crisi economica, paradossalmente, ha dato il maggior contributo a riportare il saldo a livelli più normali per un paese senza materie prime e senza un know how da vendere sui mercati mondiali. Certo la storia un po’ di ottimismo lo mette. E l’Eu l’enfatizza. Ma forse è più realistico il modello, che disegna un andamento leggermente decrescente.
L’aver descritto in dettaglio le cinque componenti del PIL ci riduce notevolmente il molto da dire a quest’ultimo proposito. Non siamo affatto stupiti che la storia registri una perdita del 25%, coincidente con la crisi economica mondiale. Se osserviamo bene notiamo però che tale recessione è anche in parallelo col varo delle misure di austerity decise dalla Troika (2010), che, in un primo momento si adegua, per stimare un’inversione nel biennio 2011-2013. Questa circostanza è però poco plausibile e diventa giocoforza credere di più al modello, che prevede un’effimera ripresa, seguita da una più
accentuata recessione, su valori comunque estremamente bassi, al di sotto del minimo, raggiunto nel 2000.
In conclusione, dobbiamo dire che sul disastro Grecia ha contribuito di più la sua storia e la crisi economica generale partita nel 2008. Ma l’austerity ha una sua parte non marginale. Nell’evolvere dell’analisi, soprattutto quando si arriverà ai confronti con paesi che la crisi l’hanno subita allo stesso modo e vi hanno reagito con politiche diverse, potremo essere molto precisi. E scoprire che c’è austerity e austerity. Come ci rivela il modello, facendo emergere andamenti che nel lungo periodo potrebbero rivelare sorprese, vedere le dinamiche degli investimenti fissi lordi.
E ora avviamoci ad accertare se nel suo ambito l’austerity ha funzionato, cioè ha messo a posto il bilancio della Grecia.
I risultati: il bilancio.
Arriviamo al debito attraverso le sue componenti principali. Le fonti sono quelle già citate.
I ricavi pubblici, composti principalmente di tassazione, sono in discesa, sia per la storia, che per le aspettative EU, che per il modello. Possiamo dire che non ce l’aspettavamo? Certo che no. La loro dipendenza dallo sviluppo dell’economia è estremamente accentuata. Cala il PIL, calano inevitabilmente le entrate dello stato, per quanto si inaspriscano i balzelli, che possono oltretutto innescare una drammatica retroazione, quando il legislatore, a corto di soldi, preme l’acceleratore delle tasse, con la conseguenza di deprimere ulteriormente il PIL, in una serie di cause ed effetti, che possono portare al disastro.
Sulla spesa pubblica c’è tutta una storia da raccontare. L’abbiamo già detto, non possiamo che trattarla come una decisione della politica. Ne costituisce il principale fattore sotto controllo sul piano economico. Indubbiamente è frenata da ritardi, pastoie, salvaguardie e quant’altro, ma resta una decisione, che nel lungo periodo, qualche volta estremamente lungo, può prendere i valori, che i governanti vogliono.
Che la spesa pubblica greca avesse bisogno di un intervento lo scopriamo confrontando i valori del 2009 (oltre 115 miliardi) con quelli dei ricavi (meno di 98). Considerando che la stiamo esaminando al netto degli interessi, c’è un deficit, in rapporto col PIL, che supera il 12%, non solo ben lontano dalle prescrizioni di Maastricht, ma strada sicura per il default. È peraltro vero che, in parallelo alla richiesta di aiuti, la spesa pubblica inizia a scendere con un andamento veloce. E che le aspettative dell’EU sono inferiori, ma non lontanissime. Ma con ricavi così bassi, la situazione può diventare rapidamente insostenibile. Se ne fa carico il modello, che stabilisce necessario un ulteriore drastico taglio, sfruttando appieno la convinzione che la spesa pubblica sia una decisione, quindi possa assumere il valore che si vuole. D’altro canto la percezione della gravità del problema aleggiava già nel 2014. Ma sembra proprio che non si sia provveduto, se non in minima parte. Noi, calcolando minutamente gli effetti delle prescrizioni della Troika, arriviamo a quei circa 75 miliardi, stimati stabili per il futuro, perché non c’è ragione di fare diversamente. Poi la realtà sarà diversa. Ma non siamo ancora al forecast, semplicemente stiamo disegnando uno scenario possibile. Dove, tra l’altro emerge, che la Grecia non ha applicato tutte le direttive ricevute e da parte dell’EU un po’ di connivenza c’è stata.
L’avanzo primario (differenza fra entrate e uscite, al netto degli interessi, della vendita di parti del patrimonio e di interventi sul debito) mette nel dovuto rilievo il gap su cui ci siamo intrattenuti.
Non a caso il suo livello cruciale è del 2009, proprio quando Papandreou confessa che la Grecia è al collasso e chiede aiuto ai partners europei. Dopo è un recupero anche rapido, ma non si raggiunge mai la soglia positiva, anzi, storicamente, la situazione, dal 2011 ricomincia a peggiorare, sia per una ripresa della spesa pubblica, che un’ulteriore caduta dei ricavi. Pertanto all’inizio l’EU è allineata, successivamente si sgancia. In questa prospettiva, l’ipotesi tratteggiata dal modello, che potrebbe apparire all’inizio irrealistica, diventa tutt’altro in prospettiva, con un probabile riallineamento al termine del quinquennio.
Passiamo oltre. Siamo all’interessante capitolo degli interessi passivi.
Come abbiamo esposto all’inizio, la Grecia ha un debito pubblico estremamente peculiare. Per circa il 77% i suoi creditori sono istituzioni. Non poteva fare diversamente, dato che dal 2010 le sue obbligazioni sono state classificate come spazzatura. Possiamo dunque affermare che il tasso d’interesse dovrebbe essere ben inferiore a quello da pagare sul mercato. Invece inizialmente gli aiuti finanziari sono stati piuttosto costosi. E l’EU si aspetta di mantenerli al livello iniziale. Invece storicamente abbiamo una continua discesa, un po’ misteriosa, perché certamente frutto di quelle negoziazioni, che hanno fatto slittare più volte le scadenze concordate. In queste circostanze però il risultato è sempre un inasprimento del tasso. D’altronde si tratta di una regola finanziaria elementare: più il debito si allunga, più costa, perché, più ci spingiamo nel futuro, più elevato il rischio che le cose cambino e il creditore si trovi con un pugno di mosche in mano. Ma qui sembra essere decisamente l’opposto. Che sia cambiato anche il mix dei prestiti non risulta da nessuna fonte. Che dire? Tanto di cappello ai negoziatori greci.
I valori assoluti ribadiscono sostanzialmente il tasso. Quindi c’è da aspettarsi che il debito sia di livello equivalente in tutte e tre le fonti. Comunque è interessante la riduzione, più di un dimezzamento, sul piano storico, che l’EU non coglie, mentre il modello la fa sua, stabilizzata.
Fuggevolmente è opportuno soffermarsi su una voce tipicamente di quadratura, comprendente quegli interventi sul debito, che si dicevano, vendite di assets, imprevisti ed errori statistici e contabili. Non a caso il solo valore significativo è l’haircut del 2012. Stupefacente è il fatto che l’EU non mostri di accorgersene, anzi lo mette nella crescita del debito. Il modello ovviamente non considera queste voci, salvo che siano esplicitamente annunciate.
Ed ecco infine il debito.
Le tre fonti, pur partendo da punti di vista spesso estremamente diversi si allineano. Per tutti la crescita, che ha portato ad un aumento di quasi il 60% fra il 2006 e il 2011, si è fermata. Per il modello resta immobile per 4 anni, poi mostra un leggera temibile tendenza alla ripresa. Basta comunque la sua stabilità a dirci che l’austerity per la Grecia ha funzionato? Certamente no. Il risultato è misero, non solo non vale la pena dell’aumento della povertà nel paese e delle conseguenti sommosse e violenze, come sostiene Tsipras, ma neppure sembra rilevante sul piano economico.
Lo dimostra splendidamente il rapporto debito/PIL: un leggero inflesso tra il 2011 e il 2012, vedi caso in concomitanza con la cancellazione di 100 miliardi di debito, cioè con un default, sia pure concordato.
La conclusione è che l’austerity per la Grecia, non ha funzionato, penalizzando troppo la crescita – in presenza di crisi economica, non lo dimentichiamo – e incidendo marginalmente sul bilancio. Insomma, diamo ragione a Tsipras, che di queste carte dovrebbe farsi un’arma, anziché abbandonarsi solo alle parole. Che però l’austerity, nelle sue diverse forme, non funzioni mai non ci sentiamo assolutamente di affermarlo. Un paese, come un privato, non può andare avanti per molto tempo spendendo (uscite) più di quanto guadagni (ricavi) e chiedendo soldi a destra e a manca per sopravvivere. In casi del genere viene sempre l’ora di darsi un freno, cioè l’ora dell’austerity, ma occorre farlo con una scelta oculata dei fattori su cui intervenire e con un occhio molto attento alla catena di effetti e retroazioni che si mettono in moto. Che rendono indispensabile il ricorso a un modello dinamico. Lo è per le imprese più avanzate. Perché non deve esserlo per uno stato? La dimostrazione è iniziata qui, ma contiamo di andare ancora più a fondo nelle prossime puntate.
Lamberto Aliberti
28/2/2015
Aggiornamento 6 marzo 2015: Parole e numeri. Una risposta ai commenti.
austerity, crisi del debito, debito, germania, grecia, lamberto aliberti, pil, tsipras, varufakis
giandavide
consiglio innanzitutto di scrivere meglio. dato che, nonostante si dicano solo cose che nel 2014 sono trite e ritrite, le si dicono in modo poco chiaro.
per il resto, dietro questa pretesa assenza di ideologie, ci vedo una non troppo velata ideologia conservatrice che struttura tutto il pensiero. insomma vai avanti così, tutto ciò che può far male al m5s è da me benedetto.
WOWO
tutto ciò che può far male al m5s è da me benedetto.
Che analisi politica spassionata e super partes per un articolo dove il m5s non c’entra niente.
Si vede che ne sei ossessionato direi in maniera patologica,consiglierei di prendere un respiro forte e guardarsi allo specchio perché credo che il problema non sia fuori,nel mondo ma di fronte.
Come direbbe Fantozzi : Come è umano lei : )
foriato
Come spagnolo appena monolingue devo dire che ha ragione giandavide, il post si legge “con estrema difficoltà, anche se abbiamo fatto il possibile”. Invece, malgrado certa austerità espressiva di don Lamberto, o forse per quella, si capisce benissimo il discorso dei concorrenti, Grecia: “Santa Rita lo que se da no se quita”, intanto L’UE: “donde pago, cago”.
Dunque, il consiglio di curare lo stile è buono, ma forse è meglio così…
leprechaun
Molte cose da dire. Con “austerity” in tutto il mondo si intende il taglio della spesa pubblica. Con “svalutazione interna”, quella in atto in modo drammatico in Grecia ma dovunque in eurozona (inclusa la Germania), il calo dei salari per recuperare “competitività” (verso l’estero).
Il problema del debito pubblico è un falso problema. Il vero problema è quello qui solo accennato: il deficit delle partite correnti, perché comporta un effetto negativo sul PIL (basta guardare la cosiddetta “identità keynesiana”) e comporta che dal paese esce più valuta di quanto ne entri. Quindi, prima o poi, si va a debito.
E’ questo il problema, santa polenta! Leggetevi Flassbeck, Krugman, H.Werner Sinn, chiunque.
E alla Grecia è stata consegnata una moneta con un potere d’acquisto in europa eccessivo, il che ha spinto l’import, e depresso l’export (il turismo è export, ma anche la marineria).
L’introduzione dell’euro ha provocato l’assalto della Grande distribuzione, che ha alterato la distribuzione Greca con un rialzo spaventoso dei prezzi (superiore a quelli praticati nel resto dell’europa), ha alterato il mercato immobiliare portando i prezzi di Salonicco a livello di quelli di Milano.
L’austerity non è mai una risposta valida, perché risponde ad una domanda sbagliata: quella sul debito pubblico, che da noi è un grave problema solo perché abbiamo la moneta unica, non possiamo controllare i movimenti di capitale, e non abbiamo una banca centrale (la BCE non lo è, anche se ora farà finta di esserlo col QE).
In Italia abbiamo rinunciato ad avere una Banca centrale nel 1981, e guardate dov’è finito il debito pubblico. In Spagna l’hanno fatto un nanosecondo prima di entrare nell’euro, e guardate a quale livello era il suo debito pubblico.
Il problema è la crescita, non il debito pubblico.
Leopold Bloom
Mi sembra normale che un articolo di questo genere sia di più difficile lettura rispetto ad un articolo ‘discorsivo’. Tuttavia, la difficoltà di lettura viene a mio parere ripagata da un’analisi che si basa sui numeri, troppo spesso dimenticati a mio modo di vedere.
Ritengo utile e costruttivo trovare in un articolo la citazione delle fonti, le metodologie, i documenti di confronto ed un’esposizione chiara dei risultati ottenuti e per questo il Dr. Aliberti ha il mio plauso.
Anche perchè ciò diventa un bel punto di partenza per chi voglia approfondire da sé certi argomenti. Se guardiamo ad esempio il PIL italiano a valori reali concatenati al 2005, così come viene fatto per quello greco nell’articolo, nel 2013 questo è tornato al livello del 1999. Ancora peggio della Grecia. Anche l’Italia ha avuto la sua bella dose di austerity ma non mi sembra si possano paragonare le misure da noi adottate con quelle imposte alla Grecia, tantomeno le conseguenze sociali.
L’austerity è un rimedio che può essere più o meno sbagliato, anche a seconda di come viene applicata. Tuttavia rimane pur sempre un rimedio, è possibile trovarne di certo altri, ma sarebbe sbagliato confonderla con quella che è la malattia. Ed il debito, anche perchè oggi non è più gestibile dalle valute nazionali come una volta, mi sembra un problema che l’Europa dovrà seriamente affrontare.
Uscire dall’Euro? Potrebbe essere, sempre di rimedio trattasi. Siamo però certi che le conseguenze per un paese sarebbero inferiori a quelle di un trattamento austerity? Su questo ho qualche dubbio.
Roberto B.
Cosa succederà se invece dei Paesi deboli ad uscire dall’Euro saranno i nordisti, emettendo un nuovo Euro (che per comodità chiamerò “Euronord”)? Al quale naturalmente potranno aderire solo quei Paesi approvati dalla Germania (e in sottordine, dalla Francia).
Lasciandoci tranquillamente con il cerino acceso in mano: proviamo ad immaginare questo di scenario.
– Escluderei il mantenimento dell’Euro sostenuto solo dai PIGS; infatti, che valore potrebbe avere senza le economie più forti?
– rimarrebbe solo da fare una corsa disperata alle rispettive monete di origine, ma con un cambio massimamente penalizzato: dalla debolezza economica dei Paesi coinvolti, dalla fretta di concludere l’operazione e, ovviamente, dalla presenza del nuovo Euronord. E l’esclusione dei PIGS dalla nuova moneta, equivarrebbe ad un declassamento al cui confronto quello delle agenzie di rating sarebbe una bazzecola.
gio to
La situazione della Grecia è analoga(in modo estremamente peggiorativo)a quella di tutti i paesi mediterranei della UE.E’ necessaria sia una drastica politica d austerity e di tagli alle spese sia una massiccia iniezione di investimenti produttivi . Poichè la coperta è corta e non permette le due medicine contemporaneamente ,ritengo che se l’Europa non diventerà una vera comunità solidale in cui i paesi + forti provvederanno agli investimenti nei paesi + deboli, con la miope politica mercantilistica attuale essa non durerà a lungo . Quando ci fu l’unificazione della Germania un grande statista come Kohl investi miliardi di marchi nella ex DDR senza pensare alle contropartite. Frau Merkel che come ex cittadina di quello stato, ne ha largamente beneficiato, dovrebbe ricordarselo,
Andrea T
“Un paese, come un privato, non può andare avanti per molto tempo spendendo (uscite) più di quanto guadagni (ricavi) e chiedendo soldi a destra e a manca per sopravvivere. In casi del genere viene sempre l’ora di darsi un freno, cioè l’ora dell’austerity, ma occorre farlo con una scelta oculata dei fattori su cui intervenire e con un occhio molto attento alla catena di effetti e retroazioni che si mettono in moto. Che rendono indispensabile il ricorso a un modello dinamico. Lo è per le imprese più avanzate. Perché non deve esserlo per uno stato? La dimostrazione è iniziata qui, ma contiamo di andare ancora più a fondo nelle prossime puntate.”
Questa conclusione finale – con la solita fallace identità Stato=azienda privata – tradisce l’inconsistenza del modello teorico adottato per giungere alle conclusioni.
L’unica affermazione condivisibile è che “l’austerity, nelle sue diverse forme, non funzioni mai non ci sentiamo assolutamente di affermarlo”. L’austerity (intesa come politica fiscale restrittiva) funziona probabilmente quando c’è un tasso d’inflazione a doppia cifra: in altre parole in una situazione drammaticamente dioversa da quella attuale (deflazione).
bruna
concordo con gio to . La risoluzione dei problemi della Grecia e degli altri paesi in difficoltà in ambito UE avverrà solo con una politica lungimirante dei paesi forti, ovviamente a fronte di politiche di austerità ed eliminazione degli sprechi da parte dei paesi deboli. In caso contrario l’UE si dissolverà e ciascuno andrà per la sua strada. tragica eventualità per tutti noi.