Manifestazione di Roma: è andata bene!
Confesso di essere stato molto preoccupato per la manifestazione di sabato scorso a Roma: mi aspettavo scontri come quelli di due anni fa e carrettate di giovani antagonisti in galera e mi sarebbe molto dispiaciuto (come si sa, sto dalla loro parte). Tutto si è risolto con incidenti abbastanza marginali ed una quindicina di fermati. Non ci speravo! E per di più la partecipazione è stata molto più numerosa delle più rosee previsioni. Molto bene. Però, cerchiamo di ricavarne tutte le lezioni che ne derivano.
In primo luogo: per la prima volta devo complimentarmi con chi ha gestito l’ordine pubblico che, intelligentemente, ha limitato l’uso della forza, evitando cariche che avrebbero avuto effetti ben più devastanti. E questo dice quanto sia stata stupida la gestione della piazza nelle occasioni precedenti. Ovviamente la polizia ha il compito di evitare che si compiano reati e proteggere i beni privati, ma di volta in volta è bene capire come fare. Se si è in presenza di una manifestazione con decine di migliaia di giovani fra cui poche centinaia di teste calde che vogliono attaccare briga, caricare significa gettare benzina sul fuoco e spostare a fianco degli agitati migliaia di persone che, diversamente, non ci avrebbero affatto pensato. Per cui, nei limiti del tollerabile (è ovvio che nessuno pensa che si possa dar via libera agli incendiari), è meglio lasciar correre per evitare danni peggiori.
Sembra che, finalmente, qualcuno lo abbia capito. Dio sia lodato! (anche se resto ateo). Al contrario non posso che biasimare stampa e televisione per il modo con cui hanno riferito sulla manifestazione, dando spazio ai pochissimi incidenti e, talvolta, al fatto che sono stati meno del previsto: del merito della protesta si dice poco e nulla e chi volesse capire perché 30.000 giovani (ed anche più) erano lì a manifestare, dalla lettura dei giornali non capirebbe molto.
In secondo luogo debbo elogiare gli organizzatori della manifestazione per la capacità di mantenere il controllo di una situazione obiettivamente difficile, a causa dell’afflusso oltre ogni previsione, mantenendo il senso politico dell’iniziativa ed evitando di cadere nella solita trappola delle recriminazioni sulla violenza che tutto copre e tutto cancella. Un segnale di maturità politica nuovo e molto interessante.
In particolare devo esprimere ammirazione nei confronti del manifestante che coraggiosamente si è frapposto fra la polizia e quanti stavano iniziando un’improvvida sassaiola. Anche questo è un segnale da cogliere. Vice versa, non posso complimentarmi (ma questo è ovvio) con i soliti patiti del “far west all’amatriciana” che sono eterni adolescenti che non cresceranno mai.
Detto questo, credo che la riflessione vada approfondita sia sul versante degli antagonisti che su quello dell’opinione pubblica e delle istituzioni.
Gli antagonisti (o sinistra radicale, se preferite) devo dire che mancano di una seria riflessione sul tema della violenza. Come già altre volte ho scritto, non sono un non violento e non ho un valore feticistico della legalità. Recentemente ho presentato il libro di Dimitri Deliolanes su Albadorata e, ad un interventore che mi chiedeva cosa dovesse fare la sinistra greca di fonte alle aggressioni dei fascisti, ho risposto che occorre che esse vengano stroncate dalla polizia, ma se questo non viene fatto, bisogna autodifendersi (con raccapriccio di alcuni che mi stavano a fianco). Dunque non ero e non sono un pacifista.
Però, la violenza è sempre (insisto: sempre) un fatto negativo, anche quando si è costretti a ricorrervi per legittima difesa. La politica migliore è sempre quella di costruire le condizioni per cui i fini siano raggiungibili senza uso di forme aggressive ma ricorrendo alla raccolta del consenso. L’uso della forza va riservato a situazioni in cui ci sia un pericolo immediato dal quale difendersi o non ci sia altro modo per abbattere un regime lesivo dei diritti umani (e questo vale anche per signori come Gheddafi o Assad, tanto per fare qualche nome).
Vice versa, va tolto di mezzo un antico luogo comune della cultura socialista ed anarchica come quello della “violenza liberatrice” e sono più preciso: va tolta di mezzo l’idea (storicamente fallimentare) che l’uso della forza e delle armi sia una via obbligata e, addirittura, preferenziale per cambiare la società. La violenza, in sé, non è mai liberatrice ed, anzi, mette le premesse per un futuro autoritario, quindi, se se ne può fare a meno è meglio.
In secondo luogo va tolta di mezzo l’idea più recente della violenza come forma di propaganda, di raccolta di consenso e di pedagogia rivoluzionaria. Da circa un quarto di secolo, l’area antagonista coltiva forme di violenza classificabili più come forme di espressione che come forme di lotta. Infatti, sul piano dei meri rapporti di forza è ovvio che non ci sarebbe speranza e che la partita sarebbe persa in partenza, risolvendosi al massino in una serie di danni che non scalfirebbero l’avversario.
Il senso è quello di conquistare visibilità, dare risalto alle proprie ragioni forando il “muro di gomma” dell’informazione e così raccogliere consensi che produrranno nuove occasioni di lotta allargate. Quindi un uso essenzialmente simbolico come nel caso della violazione, anche solo di poco, dei limiti della “zona
rossa” in occasione dei G8.
Se ne possono capire le intenzioni, ma l’esperienza dice che la cosa non funziona. E per molte ragioni: innanzitutto perché le persone disposte allo scontro fisico, in condizioni non eccezionali come potrebbero esserlo quelle di una guerra civile, non sono poi tante. Secondariamente, perché l’avversario se lo aspetta e mette in opera una serie di accorgimenti di “neutralizzazione politica” di tutto ciò e, per di più, in condizioni di monopolio dei mass media da parte del sistema, finisce per deviare dal merito della protesta alle sulle forme di lotta, con il risultato di trasformare il tutto in una sorta di pedagogia anti rivoluzionaria. Ancora: perché questo presta il fianco a tutte le possibili provocazioni poliziesche. Infine perché il ripetersi costante di questi episodi assume un carattere rituale prevedibilissimo: la liturgia degli scontri di piazza per cui già sappiamo che si cercherà di violare la zona rossa (che la polizia porterà avanti di qualche decina di metri, proprio per consentire la violazione senza troppi pericoli, sparando 12 candelotti lacrimogeni –magari concordati con la controparte- ecce ecc.) Insomma: puro “agire gladiatorio” come lo definisce Pizzorno (cercare in Internet che significa). Il che, obiettivamente è una “anti pedagogia rivoluzionaria”. O, se preferite, la riduzione della rivoluzione a sceneggiata.
Le vie della trasformazione in una società sociale complessa come la nostra non sono così semplici e richiedono una riflessione molto più raffinata, alla quale credo che l’area antagonista dovrebbe prestare molta più attenzione di quanto non faccia.
Ma anche le istituzioni (ed i mass media in particolare) hanno molto da riflettere su questo. Pensate un attimo alla Grecia: solo quattro anni fa, una situazione del genere sarebbe stata semplicemente impensabile, mentre oggi l’ipotesi di uno scontro sanguinoso, pur ancora largamente evitabile, non pare più tanto impossibile. Se non vogliamo che la crisi ci faccia scivolare verso scenari sempre più foschi con esiti davvero drammatici, dobbiamo porci il problema di come funziona la nostra democrazia: abbiamo svuotato i parlamenti d’ogni potere reale, abbiamo messo tutto in mano ad una rete di sedicenti tecnici alle dipendenze del potere finanziario, abbiamo bandito tutti i pensieri eterodossi, abbiamo ridotto il sistema informativo ad una melassa omogenea, che riporta solo i pensieri “politicamente corretti” espressi con parole convenienti, abbiamo rimosso il conflitto sociale e ridotto i sindacati a cagnolini da salotto della finanza. Praticamente, abbiamo detto che ceti subalterni, giovani, immigrati (ed, ormai, anche i ceti medi) devono semplicemente stare zitti e non dare fastidio. Vi meravigliate che una parte dei giovani (la parte più turbolenta, ma anche migliore: diciamolo) reagisca con esplosioni di protesta violenta? Se continua così dovremo meravigliarci di quanto poco accada.
Occorre ripensare i nostri canali di trasmissione della domanda politica, rendere i poteri realmente responsabili, ravvivare la nostra democrazia. Soprattutto i giornali, tornino a fare il loro mestiere, prestandosi a fare da tramite della voce di quelli che non ne hanno.
Aldo Giannuli
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Vincenzo Cucinotta
Scusami, Aldo, una questione lessicale: se tu dici che la violenza è comunque un male, anche se poi ammetti che in certe emergenze la si possa praticare, tu ti classifichi come non-violento.
Il punto dirimente non è stabilire se sia bene dare o ricevere un pugno, su questo saremmo credo tutti concordi nel rifiutare la pratica dei pugni, ma invece il punto dirimente sta nello stabilire se la violenza possa costituire una categoria fondamentale della politica in grado di discriminare in modo che a destra di tale discrimine possiamo collocare tutto il bene e a sinistra tutto il male.
Pet me, in politica la violenza non è una categoria utile, serve solo a fare confusione, per questo mi rifiuto di fare dichiarazioni preliminari di rifiuto della violenza. Forse in un mondo ipotetico questo si potrebbe fare, nel mondo com’è effettivamente costituito, la politica poggia totalmente sull’uso della violenza, e fare professione di non violenza significa in definitiva collocarsi fuori dalla politica.
Lorenzo
Non mi pare che Aldo abbia fatto professione di non-violenza. Semmai la sua riflessione mi pare più vicina alla così detta anti-violenza, già portata avanti, in campo anarco-comunista, da autori quali Malatesta, che, in tempi non sospetti, affermava che la violenza è una “tragica necessità” di cui, talvolta, e comunque malvolentieri, i rivoluzionari si devono fare carico. Ovvero devono usare la violenza in situazioni in cui non vi siano alternative praticabili che siano coerenti con il rapporto mezzi-fini. E lo affermavano persone che erano tuttaltro che delle mammolette, dato che parteciparono attivamente a tutti i moti rivoluzionari dall’ultimo quarto di secolo dell’ottocento in poi (biennio rosso e arditismo popolare in primis). Non esiste la dicotomia violenza/non-violenza ma esistono tante sfumature dei concetti, sopratutto quando questi passano dalla teoria alla prassi.
Vincenzo Cucinotta
Caro Lorenzo,
forse mi ha letto distrattamente o più probabilmente mi sarò espresso male io, mi pare che lei non dica una singola parola in opposizione al mio intervento.
Riguardo al nostro cortese ospite, io non mi sono mai permesso di affermare se egli sai un non violento, ho detto che le sue parole lo qualificano così, oltre ad indurre conseguenze a mio parere indesiderabili in politica, in particolare spostando l’attenzione della politica verso direzioni che tendono a creare confusione.
Manifestazione di Roma: è andata bene e ora si traggano le considerazioni | Il Manifesto Bologna
[…] di Aldo Giannuli […]
Silvio
I ragazzi che hanno partecipato alla manifestazione sono stati bravi. MI auguro ora che trovino i modi e le forme per essere realmente influenti nella vita politica italiana. Una loro emarginazione sarebbe disastrosa sia per la sinistra che per il paese.
Cittarelli Paolo Federico
Ma cosa significa tutto questo disquisire sulla violenza? Che avendo un mitra in mano e potendo eliminare un avversario, una bella raffica sia alta politica? Chi decide che non vi siano alternative praticabili e chi quale tipo di violenza? Qui non si parla di abbattere un tiranno o di un patriota che vuole liberare il suo popolo dall’oppressione, qui si parla di politica che è violenza! E non credo ci si riferisca alla violenza verbale. Eppoi, se è un diritto il mio ricorso alla violenza, lo sarà anche quella di un altro contro di me e quindi la politica diventa consacrazione della guerra. Se mi obbiettate che questo è realismo, nient’altro che constatazione della realtà, vi rispondo che tutta la civiltà umana è un immenso errore, un urlo contro la natura. Paolo
Germano Germani
Nietzsche sosteneva che è la buona guerra che rende buona la causa.La storia umana è una perpetua macelleria, uno scannatoio unico, un cimitero terrificante.Mi ricordo di uno slogan in uso tra i commontisti negli anni settanta di Riccardo D’Este il quale sosteneva: “furto, rapina,saccheggio, la rivoluzione si avvicina”; ma degna di nota e anche lo stupro della donna del nemico (come fecero i mongoli dell’armata rossa in Germania nel 1945).Quello che trovo insopportabile è l’ipocrisia, ammantata da un falso umanitarsimo, con la quale si tende a camuffare la propria ferocia, per addossarla solo al nemico sconfitto.Il tribunale di Norimberga è stato un monumento eretto alla menzogna codificata.Al nemico sconfitto, si nega ogni dignità umana,diventa un mostro, ergo impiccagione pure per i nostri valorosi combattenti,mentre i loro eroi vengono decorati con medaglie d’oro, ma soprattuto damnatio memoriae nei secoli saeculorum per i vinti. Vae Victis e amen.Provateci a smentirmi se ne siete capaci.
ermanno
…”o non ci sia altro modo per abbattere un regime lesivo dei diritti umani (e questo vale anche per signori come Gheddafi o Assad, tanto per fare qualche nome).” Tranne che per questa frase, che francamente mi sembra un po’ forzata alla luce di quel che poi abbiamo visto realmente accadere in quei luoghi sono sostanzialmente daccordo con quanto scritto…
Piero
Detto molto sinceramente, non mi aspetto che la “acampada” di Porta Pia possa riuscire ad ottenere alcunché.
Non facciamoci illusioni: l’articolo ha perfettamente delineato quale sia la “potenza di fuoco” di cui dispone il Governo ( ovviamente per conto dei soliti noti) e non credo quindi che da parte del Ceto dominante ci sia la minima intenzione di fare concessioni di sorta pena perdere la faccia.
Basta leggere i giornali per capire che ormai la questione é chiusa (le ultime notizie su Porta Pia sono già state relegate in fondo alla penultima pagina dei quotidiani).
A la prochaine …