Spagna, tra la crisi e la speranza

Con estremo piacere torno ad ospitare sul blog un articolo dell’amico Steven Forti, ormai trapiantato a Barcellona ed attento e acuto osservatore della realtà spagnola, che sta attraversando in questi mesi non poche interessantissime novità. Steven ha tra l’altro da poco pubblicato un nuovo libro, “El peso de la nación. Nicola Bombacci, Paul Marion y Óscar Pérez Solís en la Europa de entreguerras” per cui gli faccio i migliori auguri di un chiaro successo. Buona lettura!

di Steven Forti
(ricercatore presso l’Instituto de História Contemporanea dell’Università Nova di Lisbona e presso il CEFID dell’Università Autonoma di Barcellona)

È un momento particolare quello che sta vivendo la Spagna. Senza ombra di dubbio. All’inizio di giugno ha abdicato il re Juan Carlos I, che aveva giurato di rimanere in sella fino alla fine dei suoi giorni. Il governo catalano, guidato dal neoliberista Artur Mas, ha indetto un referendum per l’indipendenza della Catalogna, che si dovrebbe celebrare il prossimo 9 novembre, per quanto il governo di Madrid si sia arroccato su una posizione di intransigente difesa dell’unità della nazione spagnola. 

Nei Paesi Baschi si è da poco organizzata una catena umana di 123 km che chiede il “diritto di decidere” (derecho a decidir) del popolo basco. E nelle recenti elezioni europee il Partido Popular (PP) e il Partido Socialista Obrero Español (PSOE) hanno perso oltre 5 milioni di voti: se nelle europee del 2009 i i due grandi partiti avevano ottenuto l’82% dei voti totali, il 25 maggio sono scesi al 49% (PP 26% e PSOE 23%). Questioni di indole diversa, ma legate da un unico fil rouge: la crisi politica, economica, sociale e istituzionale che sta vivendo la Spagna. E, in fin dei conti, la crisi di tutto il sistema nato con la transizione dal franchismo alla democrazia nella seconda metà degli anni Settanta.

Il patto costituzionale del 1978 è arrivato al capolinea, si dice. Bisogna trovare un nuovo accordo per capire come andare avanti, sempre che si voglia andare avanti insieme. Chi aveva appoggiato quel patto, ossia comunisti, catalani e baschi, sono ora i primi a metterlo in discussione, come ha recentemente notato Enric Juliana su La Vanguardia. I catalani ed anche i baschi vogliono ancora far parte di uno Stato spagnolo? E i comunisti – ossia, ciò che attualmente sta a sinistra del PSOE – accettano ancora una monarchia parlamentare o vogliono davvero una Terza Repubblica? Il bipartitismo, la monarchia e l’attuale Estado de las autonomías sono finiti?

Come sempre accade, c’è chi si strappa le vesti e c’è chi gioisce per questa situazione. La stampa di destra di Madrid (El Mundo, ABC, La Razón) spara a zero sui “separatisti” catalani e baschi; praticamente tutti i mass media fanno blocco attorno alla monarchia elogiando Juan Carlos I e stendendo un tappeto rosso al futuro re, il figlio Felipe; El País elogia ogni giorno la transizione alla democrazia e la stampa catalana (La Vanguardia, Ara, El Punt/Avui) non pensa ad altro che alla lotta per la “libertà” della Catalogna. Ma la stampa indipendente (Público, Eldiario.es, Mongolia, La Marea o Diagonal) ed i social network offrono un’altra prospettiva, mettendo in luce l’esistenza di importanti movimenti sociali consolidatisi nell’ultimo trienio (dalle assemblee nate con il movimiento degli indignados alla Plataforma de Afectados por la Hipoteca, ecc.), la forza di nuove formazioni politiche nate recentemente come la CUP in Catalogna o, soprattutto, Podemos in tutta la Spagna, i molti casi di corruzione (che hanno toccato i vertici del PP con il caso Gürtel, il PSOE andaluso con il caso degli ERE, la borghesia catalana con il caso Palau e financo la stessa famiglia del monarca con l’imputazione di Iñaki Urdangarin e dell’infanta Cristina per il caso Noos).

Quello che non si deve perdere di vista è il contesto sociale ed economico spagnolo. Dopo il decennio del boom economico (1997-2007) basato essenzialmente sulla bolla immobiliare e sulla speculazione edilizia è arrivata la grande crisi. Per quanto il presidente del governo Mariano Rajoy da un anno a questa parte stia cercando di vendere dentro e fuori i confini nazionali i piccoli segnali di miglioramento dell’economia spagnola (+1,1% del PIL previsto per il 2014), pochi sono i cittadini che ne hanno tratto beneficio. Per non dire nessuno. La disoccupazione rimane da un triennio attorno al 25% (pari a circa 6 milioni di disoccupati su una popolazione di poco più di 47 milioni di persone); il rapporto tra debito pubblico e PIL è quasi arrivato a quota 100% (quando nel 2006 era al 36%); le piccole e medie imprese che chiudono i battenti sono migliaia; i tagli al sociale (sanità, educazione, ricerca, trasporti pubblici, ecc.) sono consistenti e continui; le famiglie che hanno perso la casa per sfratti ipotecari dal 2008 al 2012 sono oltre 400 mila, mentre le banche, che si sono arricchite con la bolla immobiliare e che sono proprietarie ancora di milioni di appartamenti e di case (El País ha calcolato che nel maggio del 2013 ci fossero oltre 3,5 milioni di appartamenti sfitti in Spagna), hanno ottenuto la belleza di 41 miliardi di euro nell’ultimo biennio, dopo l’intervento della troika (FMI, BCE e Commissione Europea) con un prestito che è stato venduto come un non-intervento diretto, ma che nella pratica è paragonabile a quelli di Grecia, Irlanda e Portogallo. E soprattutto le prospettive di un miglioramento nel futuro prossimo sono praticamente inesistenti. Con una situazione come questa ci pare strano che si stia mettendo in discussione tutto l’esistente o almeno una parte di esso? O almeno che ci si provi? Sinceramente, c’è da stupirsi che non ci sia stata ancora una mezza rivoluzione o una guerra nelle strade.

Uno dei fenomeni più interessanti degli ultimi mesi è quello di Podemos, un partito nato all’inizio di quest’anno e registrato ufficialmente solo lo scorso 11 marzo. Con solo quattro mesi di vita, alle recenti elezioni europee Podemos – la cui traduzione in italiano è Possiamo – ha ottenuto oltre 1 milione e 200 mila voti, pari al 7,97% e a 5 seggi, diventando il quarto partito più votato in tutto lo stato spagnolo, dietro a PP, PSOE e Izquierda Unida–Iniciativa Verds per Catalunya (IU–ICV). In ben cinque regioni, tra le quali Madrid, è diventato il terzo partito ed in quattro (Madrid, Asturie, Baleari e Canarie) ha superato il 10% dei voti. Un risultato davvero eccezionale per un partito appena nato. I cinque eletti di Podemos – scelti attraverso delle primarie, alle quali hanno partecipato 33 mila persone; primarie aperte ai non militanti e tenutesi a inizio aprile via internet – sono Pablo Iglesias, 36enne professore di Scienze Politiche all’Università Complutense di Madrid, scrittore e conduttore di programmi televisivi di dibattito politico (come La Tuerka su Público TV), la sindacalista Teresa Rodríguez, proveniente da Izquierda Anticapitalista, l’ex magistrato Carlos Jiménez Villarejo – fondatore nel 1972 dell’associazione Justicia Democrática e responsabile dal 1995 al 2003 della Fiscalía especial anticorrupción –, la disoccupata Lola Sánchez e il ricercatore del CSIC Pablo Echenique.

In Italia si è parlato del fenomeno di Podemos come di una specie di versione spagnola del Movimento 5 Stelle. Se è indubbio che ci sono delle analogie tanto nel discorso politico (critica alla corruzione e alla “casta”, richiesta di una rigenerazione della politica, il fatto di non considerarsi un partito, ecc.) come nel funzionamento (assemblee, votazioni via internet, ecc.), le differenze non sono da meno. Innanzitutto per la collocazione politica di Podemos che ha deciso fin dall’inizio di appoggiare Alexis Tsipras e di entrare nel Gruppo della Sinitra Unitaria Europea, mentre il M5S ha ormai deciso di allearsi con l’UKIP di Nigel Farage. E poi per il background politico dei suoi esponenti di rilievo: Pablo Iglesias, il capolista della formazione alle recenti elezioni europee, Juan Carlos Monedero e Iñigo Errejón, rispettivamente promotore di Podemos e responsabile della campagna elettorale del partito, hanno alle spalle una militanza nella sinistra spagnola e vengono da anni di lavoro di ricerca e insegnanza nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Complutense di Madrid con uno speciale interesse per lo studio del socialismo latinoamericano del XXI secolo (Venezuela e Bolivia, soprattutto). Non c’è bisogno di spiegare la differenza con il passato di un Grillo o soprattutto di un Casaleggio. Differente inoltre è la collocazione politica e la percezione della stessa da parte dei votanti e dei militanti di Podemos. Come ha rilevato il sondaggio d’opinione di Metroscopia dello scorso 3 giugno, in una scala di valori sinistra-destra (dove 1 è l’estrema sinistra e 10 l’estrema destra) i votanti di Podemos situano il partito sul 3,7, (molto vicino a IU che sta sul 3,4). Inoltre nelle elezioni europee del 2009 il 34% dei votanti di Podemos aveva optato per il PSOE, il 17% per IU-ICV, l’11% non aveva votato perché ancora minorenne, il 31% si era astenuto e solo il 7% aveva scelto partiti di destra (5% il PP e 2% UPyD).

Ma qual è il discorso politico di Podemos? Succintamente: critica al sistema politico esistente e al bipartitismo, rigenerazionismo politico, condanna della corruzione, fine dell’austerity, politiche keynesiane, finanziamento alla ricerca e allo sviluppo, reindustrializzazione, nazionalizzazione dei settori strategici, difesa dell’ambiente, maggiori investimenti pubblici per debellare la disoccupazione, riduzione della giornata di lavoro. Una serie di politiche difese da tempo dal sociologo Vicenç Navarro in vari studi pubblicati negli ultimi anni in Spagna. I modelli sono i paesi del Nord Europa e i governi progressisti dell’America Latina.

La posizione rispetto alle istituzioni europee e alle sue politiche, al BCE e all’Euro è critica e di una profonda riforma del sistema, lasciando aperte altre possibilità, anche se non c’è, per il momento, un vero dibattito interno su tali questioni. Da quanto si spiega nel programma del partito1, si vuole “convertire il BCE in un’istituzione democratica affinché favorisca lo sviluppo economico dei paesi” (punto 1.3), si chiede “il riorientamento del sistema finanziario allo scopo di creare una banca al servizio del cittadino” (1.5) e “il recupero del controllo pubblico dei settori strategici dell’economia” (1.6). Inoltre si chiede espressamente “la rinegoziazione del debito con voce in capitolo da parte dei cittadini” (1.2). L’uscita dall’Euro attualemente non è contemplata.

Il legame con i movimenti sociali dell’ultimo triennio è evidente, come ha notato recentemente anche lo storico catalano Xavier Domènech Sampere nell’interessante Hegemonías. Crisis, movimientos de resistencia y procesos políticos (2010-2013). Podemos insomma come figlio degli indignados? In un certo qual senso. Non solo per il discorso, ma anche per il funzionamento attraverso i Circulos Podemos, ossia dei gruppi di lavoro territoriali e settoriali. Come spiega Carolina Bescansa, docente di Scienze Politiche della UCM e una delle prime ad apoggiare la nascita di Podemos, l’obiettivo è che “tutti partecipino nelle assemblee, che non ci siano delegati, né rappresentanti, né gruppi di rappresentanti. I dibattiti devono essere aperti”. E così effettivamente è stato e continua ad essere. Ciò non toglie che ci siano già stati casi di critiche da parte di alcuni settori della base del movimento al “personalismo” di Pablo Iglesias e all’attuale direzione di Podemos, a cui alcuni mezzi di informazione come El País hanno dato un eccessivo e compiaciuto risalto. Critiche, detto en passant, che vengono accompagnate da condanne senza se e senza ma da parte di autorevoli opinionisti che, come nel caso di Antonio Elorza sono arrivati, sempre dalle pagine de El País, ad accusare Podemos di totalitarismo comparandolo con il fenomeno raccontato ne L’onda, il film di Dennis Gansel del 2008.

L’attuale dibattito interno a Podemos è legato, in fin dei conti, alle annose e mai risolte questioni della relazione tra vertici e basi in un movimento e/o partito politico, dell’assemblearismo come maniera di fare politica e all’opposizione orizzontalità/verticalità di un movimento/partito. Lo scorso fine settimana si è data una risposta piuttosto chiara riguardo a tutto ciò: si sono tenute delle elezioni interne per scegliere la direzione che guiderà Podemos fino alla prossima Assemblea generale (Asamblea Ciudadana) che si terrà in ottobre e che si vuole come una sorta di costituente della nuova formazione. Hanno votato oltre 55 mila persone e il team di 26 persone guidato da Pablo Iglesias ha ottenuto l’86,80% dei voti. È un buon primo passo. Nei prossimi mesi capiremo se la strada scelta è la migliore e se questo partito/movimento riuscirà a consolidarsi e a strutturarsi senza perdere lo stretto contatto con le basi e un tipo di funzionamento assembleario.

Steven Forti
(ricercatore presso l’Instituto de História Contemporanea dell’Università Nova di Lisbona e presso il CEFID dell’Università Autonoma di Barcellona)

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Aldo Giannuli

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Comments (3)

  • prof Forti,

    a me sembra difficile che podemos + IU riescano a dare la spinta che m5s ha indotto in italia, per una pura questione numerica. Poi esperiamo che in españa torni la repubblica

  • Caro Leopoldo, certo, è vero. Teniamo però conto di alcuni fattori: 1. è la prima volta che Podemos si presenta a delle elezioni (il M5S esisteva da anni prima di presentarsi alle politiche del 2013): dunque, diamogli tempo e vediamo che succede; 2. In Spagna ci sono molte questioni aperte, in primis quella territoriale. Bisogna vedere anche cosa succede su quel versante (la Catalogna). O se le due questioni aperte si uniscono… cari saluti

  • esperiamo que non siano più questi tempi:

    Ya hay un español que quiere
    vivir y a vivir empieza,
    entre una España que muere
    y otra España que bosteza.

    Españolito que vienes
    al mundo te guarde Dios.
    una de las dos Españas
    ha de helarte el corazón.

    Antonio Machado

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