Premio per un tema su Piazza Fontana.

Il circolo Anpi di Lambrate-Ortica ha indetto una corsa di studio fra gli studenti del polo di scuole medie superiori del quartiere. La commissione giudicatrice è Stata composta dall’avv. Carlo SMURAGLIA (presidente provinciale dell’Anpi), da Fortunato ZINNI (sindaco di Bresso) e da Aldo GIANNULI. Fra i numerosi tempi, quattro so stati particolarmente meritevoli, e se ne riportano qui i giudizi insieme al tema del vincitore Flavio VALENTINO.


Simone Lavecchia= il tema predilige l’impatto emotivo, in particolare nella prima parte –dove è evidente l’influenza del recente fumetto dedicato al caso di piazza Fontana- La ricostruzione della lunga vicenda processuale è curata e puntuale, ma non disgiunta da una certa vivacità narrativa, pur se con qualche compiacimento descrittivo e di “colore”.

Efficace la cura grafica che segnala un talento in questo senso.

Beatrice Maddalena= Tema denso e ben costruito con una appendice sulla strage di Piazza Fontana nella musica leggera degli ultimi trenta anni che dà all’insieme una nota di freschezza ed originalità.

L’esposizione, pur efficace e ricca, non è sempre ordinata ed in qualche punto ripetitiva.

Interessanti anche le considerazioni personali che rivelano una precoce maturazione di pensiero.

Sara Notargiacomo= il tema ricostruisce diligentemente, pur se con qualche imprecisione, la vicenda di piazza Fontana e la successiva inchiesta, oltre che la correlata vicenda del ferroviere Pino Pinelli. Adeguato anche l’inquadramento storico generale.

Flavio Valentino= Il tema è compatto e ben strutturato, rispetta la filologia dei fatti ed è esposto con notevole precisione. La ricchezza dei dati e la cura nell’ordinarli a volte sovrasta le considerazioni personali, confinate in poche righe finali. Questo è probabilmente da attribuire ad una certa timidezza nel formulare i propri giudizi che, tuttavia, corrono sotto traccia lungo tutto lo svolgimento e sono chiaramente percepibili ad un orecchio sensibile. Buona la proprietà di linguaggio che conferisce efficacia espositiva al tutto.

Il tema:

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA: il contesto storico, l’attentato, i processi, le testimonianze, le sentenze Definire il contesto storico durante il quale avvenne la strage di piazza fontana non è cosa semplice poiché numerosi furono gli eventi che caratterizzarono quel ventennio tra la metà degli anni sessanta e ottanta, un ventennio durante il quale era in atto un evoluzione sociale, economica politica e culturale in tutto il mondo. Erano passati quasi due decenni dalla fine del secondo conflitto mondiale e molti paesi erano in fermento. Gli Usa stavano attraversando uno dei periodi più neri della storia, con la nascita dei movimenti contro la segregazione razziale e con la guerra del Vietnam, una guerra non voluta da gran parte della popolazione che portò ad una dura contestazione interna con manifestazioni di piazza anche violente. In Grecia la politica d’ispirazione fascista, instaurata dai colonnelli, cominciava e perdere di credibilità, mentre nella penisola Iberica i regimi di destra che governavano, cominciavano a scricchiolare. L’Unione Sovietica reprimeva duramente il tentativo di democrazia da parte della Cecoslovacchia, mentre in Cina esplodeva e raggiungeva il suo culmine la rivoluzione culturale, che si trasformava in movimento di massa di studenti ed insegnanti dentro le università. In altri paesi europei prendeva piede la contestazione studentesca, nelle scuole e nelle università, e quella operaia nelle fabbriche e nelle piazze, la prima contro l’autoritarismo presente nelle istituzioni dello stato, e la seconda in lotta per il riconoscimento di una maggiore equità economica e sociale. L’Italia, da paese prevalentemente agricolo, viveva un profondo sviluppo senza precedenti dal periodo post bellico, grazie alla trasformazione e alla modernizzazione della struttura economica industriale, uno sviluppo che ampliò sia i consumi interni sia il mercato delle esportazioni e che portò ad un aumento del reddito nazionale. Quello che fu definito il famoso “miracolo economico”, causò nel paese anche una forte rivoluzione economica e sociale, il crollo del blocco agrario con la conseguente dissoluzione della civiltà contadina e la migrazione di massa dal sud nelle città del nord, l’emergere di una nuova formazione di ceti sociali con reddito medio (soprattutto nel campo del commercio); una vera rivoluzione cui né la classe politica, né la classe dirigente seppe rispondere con un’altrettanta politica di crescita e di riforme sociali. Questa mancata risposta da parte delle istituzioni generò la questione sociale tra nord e sud, tra ricchi e poveri ed alimentò lo scontro di classe in Italia. Se il 1968 fu l’anno degli studenti, il 1969 fu quello delle “tute blu” e dalle aule universitarie la lotta si spostò ai cancelli delle grosse aziende del nord generando quello che fu definito il cosiddetto “autunno caldo”, cinque milioni di lavoratori dell’industria, dell’agricoltura, e di altri settori erano pronti e decisi a far sentire tutto il peso delle proprie rivendicazioni. A Milano, Torino, Genova, i due movimenti, quello studentesco e quello operaio, cercarono un punto di contatto per portare avanti insieme la lotta al sistema capitalista, appoggiati sia dalle organizzazioni sindacali, sia dal partito comunista italiano che, con le ultime elezioni politiche, vide aumentare sensibilmente il proprio elettorato. Della questione sociale, la sinistra ne fece il suo cavallo di battaglia con un programma politico indirizzato ad interventi di riforma e incremento della spesa sulla previdenza, sulla sanità, sull’economia, allo scopo di razionalizzare lo sviluppo del paese e limitare il potere dei grandi gruppi privati industriali. Al contrario la vecchia DC, che raccoglieva consensi anche da parte di molti esponenti della destra reazionaria, attraversava un periodo di profonda crisi interna, vedendo venir meno quel potere che l’aveva vista protagonista sulla scena politica dal dopoguerra fino ad allora. La sottovalutazione iniziale della grande forza del movimento operaio sviluppatosi con il boom economico tra gli anni 50 e 60 , e questo continuo aumento di consenso che vedeva protagonista i movimenti di sinistra che sposava a pieno la lotta operaia, preoccupava non poco coloro che detenevano il potere politico-economico in quel momento e i movimenti di destra reazionaria di ispirazione neofascista, al punto che si pensò di riutilizzare quei disegni politici attuati già negli anni trenta dal partito nazionalsocialista in Germania il cui scopo era quello di screditare e delegittimare la sinistra: Colpire, creare tensione per poi addossare la colpa sugli oppositori politici. Ecco perché, quella di Piazza Fontana è una strage, più che di stato, dello stato contro lo stesso stato, perché pur di conservare il potere di fronte all’avanzata di una componente politica di opposizioni, ci furono una classe politica, apparati dello stato, soggetti appartenenti alla vita economica del paese, disposti a tutto pur di mantenere intatto il loro potere, anche a causare vittime innocenti. Colpire lo stato con attentati violenti e sanguinari facendone ricadere le responsabilità sulle sinistre ed utilizzare la paura dei cittadini per poi alimentarne il disgusto e il dissenso contro di esse, convincere quindi lo stato ad emanare leggi speciali per reprimere questi movimenti e portare il paese ad un regime autoritario, era questo a cui miravano i principali movimenti di estrema destra. Ordine Nuovo, il gruppo La Fenice e Avanguardia Nazionale avevano molto in comune, i loro programmi e le loro ideologie si fondavano sulla lotta al comunismo e al capitalismo, lottare contro il sistema parlamentare e ogni qualsiasi altra forma di democrazia, per arrivare a fondare uno Stato aristocratico e organico sul modello della Germania hitleriana. Questi movimenti in pratica si spartirono il territorio italiano, ed insieme collaborarono per tentare un vero colpo di stato, questo era il fine a cui mirava la “Strategia della tensione”, un periodo storico tra il solo 1968 e il 1974 che causò ben 140 attentati e numerose vittime. Questa strategia però, che vedeva coinvolti anche apparati cosiddetti “deviati” (che probabilmente agivano nel normale esercizio delle proprie funzioni) dei servizi segreti dello Stato e con la complicità della CIA americana, era realmente il tentativo di bloccare l’avanzata del comunismo in Italia o piuttosto il nostalgico desiderio del ritorno al passato? Il 12 dicembre del 1969 era di venerdì e a Milano era la classica giornata autunnale fredda e umida, ma nonostante il tempo poco clemente e l’ora tardi la Banca Nazionale dell’Agricoltura, situata in un palazzone che si affacciava su Piazza Fontana (una banca come le altre, situata in un’anonima piazza per tanti fino ad allora), oltre ai suoi trecento dipendenti, era gremita di gente, poiché quel giorno era in corso il mercato degli agricoltori per cui tanti clienti erano in banca per le operazioni di contrattazioni. Alle 16.37 un boato all’improvviso scatenò l’inferno all’interno di quella banca, una valigetta di pelle nera (una Mosbach & Gruber ), posta sotto il tavolo ottagonale al centro del salone da uno sconosciuto e piena di sette chili di esplosivo, esplose. Scene raccapriccianti e tragicamente crude si mostrarono agli occhi dei sopravvissuti in quell’istante, parti di corpi dilaniati, persone mutilate, ustionate, polvere e fumo, urla e lamenti, scene mai viste, inimmaginabili agli occhi fino a quel momento. Il momento fu scelto appositamente, la collocazione pure, c’era la volontà di provocare il massimo numero di vittime. Quella di Piazza Fontana venne considerato l’inizio del terrore, per la prima volta infatti si contarono i morti, già da tempo circolava in Italia chi metteva le bombe ma, fino a quel 12 dicembre del 1969, nessuno aveva perso la vita, fu la prima strage che i cittadini italiani conobbero, fin ad allora i morti ammazzati erano quelli che causava la mafia per le sue vendette ed i propri interessi, e quelli causati dalla polizia per reprimere le contestazioni, questo era un evento nuovo che lasciò increduli, sbigottiti e impreparati tutti. Alla fine di quel giorno si contarono 12 morti (altri quattro morirono nei giorni successivi, un altro l’anno dopo) e 86 feriti tra clienti e impiegati della banca e ignari passanti. Nei primi istanti si pensò allo scoppio di una caldaia ma poi, il foro presente sul pavimento della banca e il ritrovamento di altri ordigni, smentì questa ipotesi. Infatti lo stesso giorno una seconda bomba inesplosa, posta nella medesima valigetta, fu ritrovata all’interno della sede della Banca Commerciale di Piazza della Scala a Milano, a pochi passi da piazza Fontana, mentre una terza bomba esplose a Roma alle 16,55 dello stesso giorno, nel passaggio sotterraneo che collegava l’entrata di via Veneto con quella di via di San Basilio della Banca Nazionale del Lavoro, causando tredici feriti. Altre due bombe esplosero sempre a Roma tra le 17,20 e le 17,30, una davanti all’altare della patria e l’altra all’ingresso del museo del Risorgimento in Piazza Venezia, provocando 4 feriti. Subito dopo le bombe, le indagini della polizia vennero volutamente orientate nei confronti degli anarchici, infatti a poche ore dalla strage, il prefetto di Milano Libero Mazza inviò un telefax al Presidente del consiglio Mariano Rumor indicando che l’ipotesi più attendibile, quali esecutori della strage, era quella di gruppi anarcoidi. Del resto gli obiettivi scelti ne erano una prova, e poi erano gli anarchici di solito a mettere le bombe, ma realtà gli anarchici furono volutamente e diligentemente scelti per fare la parte dei colpevoli, erano poco organizzati, avevano idee a tratti confuse, spesso i vari gruppi erano in contrapposizione tra di loro, e soprattutto erano isolati, senza un forte movimento politico o istituzione dello stato alle spalle. Le persone immediatamente fermate solo a Milano furono 84, di cui solo due di appartenenza a schieramenti di estrema destra, i restanti erano tutti o militanti di estrema sinistra o anarchici per lo più appartenenti al Circolo anarchico 22 marzo. In particolare, a poche ore dall’esplosione, alcuni poliziotti tra cui il commissario Luigi Calabresi della sezione squadra politica della polizia di Milano diretta dal dottor Antonio Allegra, arrestarono il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli. Condotto in questura ed interrogato per tre giorni, nonostante avesse un alibi di ferro per le ore precedenti e successive alla strage, nella notte tra il 15 e 16 dicembre Pinelli cadde dal quarto piano della questura, il suo fermo era ormai scaduto da 24 ore, pertanto in quel momento non poteva e non doveva essere lì. Nonostante le numerose contraddizioni di coloro che erano presenti in quella stanza (quattro poliziotti e un capitano dei carabinieri oltre che dallo stesso commissario Calabresi) nel raccontare i fatti, la morte di Pinelli fu dichiarata ufficialmente come suicidio e nei processi successivi, che vide coinvolti i presenti di quel giorno accusati prima per omicidio colposo e poi volontario, furono tutti prosciolti, mentre Pinelli risultò morto per “un malore attivo”. Molto probabilmente, anche in questo caso, non si trattò di una casualità, il suicidio di un anarchico sarebbe potuto apparire, all’opinione pubblica, come un’ammissione di colpevolezza. Portato in ospedale in fin di vita e piantonato dalla Polizia che non lasciò entrare neanche i suoi familiari, il povero Pinelli muore. Sulla presenza del commissario Calabresi in quella stanza, negli attimi in cui Pinelli si sarebbe lanciato dalla finestra, e sulle sue responsabilità in quello che fu in realtà un omicidio, varie furono le versioni a difesa o di accusa, a secondo della provenienza ovviamente. Vittima o carnefice del sistema di quel periodo, di certo si sa che il commissario Calabresi fu assassinato il 17 maggio del 1972 per mano di militanti di Lotta Continua, un’organizzazione di estrema sinistra. La mattina del 15 dicembre Pietro Valpreda, ritenuto da subito come l’esecutore materiale della strage fu condotto a Roma. Ignaro di quello che stava per capitargli, era stato convocato dal giudice Antonio Amati per essere interrogato su alcuni attentati a Milano avvenuti mesi prima, ma subito dopo il colloquio con il magistrato fu arrestato. Anche Valpreda era un anarchico con alcuni precedenti penali, in passato amico di Pinelli e appartenete al circolo 22 marzo da cui in seguito si allontanò per contrasti ideologici. Ballerino di professione ma con una carriera non molto fortunata, si diede poi all’artigianato aprendo un negozio di lampade liberty, gioielli e collanine. Nel suo lavoro utilizzava molto dei vetrini colorati, uno simili a questi fu ritrovato stranamente nella borsa che conteneva la seconda bomba di piazza della Scala, quella che non esplose ma che fu poi fatta brillare dagli artificieri, anziché utilizzarla nelle indagini. Ad inchiodare Valpreda, oltre alle testimonianze di alcuni strani personaggi appartenenti allo stesso gruppo di anarchici che si riveleranno poi infiltrati della polizia e dei servizi segreti, tra cui Mario Merlino, fu quella di un tassista milanese, Cornelio Rolandi il quale dichiarò che quel 12 dicembre alle ore 16,12 caricò sul suo taxi, fermo in Piazza Beccaria, un uomo che gli chiese di portarlo proprio alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, nonostante fosse situata proprio ad un centinaio di metri. Al Rolandi la cosa sembrò strana tanto che fu lui stesso a consigliare a quell’uomo di andarci a piedi, sarebbe arrivato senz’altro prima e avrebbe poi risparmiato la corsa, ma quell’uomo con la sua valigetta nera insistette, si fece accompagnare, chiese al tassista di aspettarlo, ed entrò in banca dalla quale uscì dopo qualche istante ma senza la valigetta, pochi minuti dopo ci fu l’esplosione. Rolandi, che per la sua testimonianza incassò una ricompensa di 50 milioni di lire, fu condotto a Roma in tribunale per riconoscere ufficialmente l’imputato, a dir la verità con una procedura discutibilmente corretta e dopo che gli fu mostrata anzitempo una foto di Valpreda. All’indomani dall’arresto, subito tutti i quotidiani pubblicarono la notizia dando per certo la colpevolezza di Valpreda. Il “mostro” la “bestia umana” il “ballerino disadattato” era stato arrestato, e prima ancora di essere giudicato era già stato condannato dalla stampa italiana e quindi dall’opinione pubblica. Anche quella di diffondere le notizie a mezzo stampa sembrò un’operazione pilotata e pianificata, e in particolare ci fu un giornalista del Corriere della Sera, che sembrava sempre bene informato sull’inchiesta anzi, a volte riusciva a raccontarle prima che i fatti accadessero, come nel caso della testimonianza che Rolandi diede ai carabinieri il 15 dicembre del 1969, la notizia fu pubblicata il giorno prima. Giorgio Zicari, questo era il suo nome, era presente in tribunale a Milano anche quando fu arrestato Pietro Valpreda, e fu sempre lui ad avvalorare la pista anarchica attraverso i suoi articoli, in realtà Zicari in quegli anni lavorava per i servizi segreti il SID. Accusare Pietro Valpreda faceva comodo, era stato appositamente scelto, era un comodo capro espiatorio, era anarchico, faceva parte di un gruppo che si era auto isolato dagli altri, faceva discorsi arroventati e molto probabilmente non ci sarebbe stata alcuna reazione da parte degli altri anarchici anzi, ne avrebbero preso le distanze da lui, ma proprio la morte di Pinelli, un fatto imprevisto in quel disegno ben pianificato, causò l’effetto contrario. Quel piccolo movimento, che contava poche migliaia di attivisti, si mobilitò con determinazione ed iniziò un’incisiva campagna di controinformazione che coinvolse man mano, anche forze politiche di sinistra e giornalisti di calibro come Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa, Corrado Stajano, Camilla Cederna. Pietro Valpreda rimase in carcere fino al 30 dicembre del 1972 e venne definitivamente prosciolto dai fatti di piazza fontana con sentenze definitiva il 27 gennaio del 1987. Era il giorno dei funerali delle vittime della strage, il 15 dicembre del 1969, quando comparve sulla scena delle indagini un nuovo personaggio, Guido Lorenzon, segretario di sezione della DC a Maserada sul Piave in provincia di Treviso. Lorenzon si recò dal suo avvocato per raccontargli alcune confidenze che gli aveva fatto un suo amico di vecchia data, Giovanni Ventura. Giovanni Ventura era piccolo editore di Treviso di nota ideologia fascista, militante fin da giovanissima età nel MSI, passò poi nelle fila di Ordine Nuovo (organizzazione terroristica clandestina di estrema destra fondata da Pino Rauti) poiché lo considerava un movimento più energico e reazionario che più si adattava alle sue idee politiche. Il 16 dicembre, al giudice Pietro Calogero sostituto procuratore di Treviso, Lorenzon accompagnato dal suo avvocato, raccontò di quelle confidenze che Giovanni Ventura gli aveva fatto in merito ad alcune bombe piazzate a Milano e sui treni del nord Italia proprio in quell’anno, e dell’intenzione di questi di organizzare un tentativo di colpo di stato per instaurare un regime ispirato alla repubblica di Salò. Nelle settimane successive Lorenzon raccontò al magistrato ulteriori confidenze di Ventura, proprio in merito alla strage di Piazza Fontana, al tipo di bomba utilizzata, e del perché non si fossero creati quei disordini a cui mirava. Fu a questo punto che fu deciso, dalla procura di Treviso, di aprire un’inchiesta su Guido Lorenzon e sui componenti del gruppo di Ordine Nuovo, tra cui militava anche Franco Freda. Procuratore legale nato ad Avellino ma vissuto sempre a Padova Franco Freda, simpatizzante di Hitler e Himmler, antisemita e sostenitore della supremazia della razza ariana, anch’egli ex militante del MSI da cui si allontanò ben presto poiché da lui considerato compromesso con la politica della “Democrazia Moribonda”. Su Freda e Ventura da alcuni mesi indagava il capo della squadra mobile di Padova “Pasquale Juliano”. A Juliano, che fino ad allora si era occupato solo di casi di comune criminalità, gli fu chiesto di indagare senza scomodare i suoi colleghi dell’ufficio politico. Insieme ai suoi uomini, attraverso una serie di confidenze e verifiche, iniziò a ricostruire un panorama eversivo che divenne centrale negli anni della strategia della tensione; in quel momento, però, il commissario non lo sapeva, non aveva ancora ben intuito dentro quale ambiente si stava infilando, e soprattutto non aveva capito che i risultati raggiunti nel corso delle settimane davano fastidio. Accusato di aver creato una montatura per incastrare i neofascisti su cui indagava, venne prima sospeso dal servizio e poi reintegrato per essere trasferito nel sud Italia. Quelli di “Ordine Nuovo”, insieme ad altri gruppi di estrema destra come “Avanguardia Nazionale” fondata da Stefano Delle Chiaie”, il “Mar” di Carlo Fumagalli, il “Fronte Nazionale” di Junio Valerio Borghese, avevano un progetto comune. Infatti all’inizio di Aprile del 1965 si riunirono a Roma all’Hotel Parco dei Principi per un convegno organizzato dall’istituto Luigi Pollio per gli Affari strategici e finanziato dal Sifar (Servizio segreto militare), noti esponenti dell’estrema destra come Pino Rauti, Stefano Delle Chiaie, giornalisti come Guido Giannettini e Mario Merlino (agenti del SID), alti ufficiali delle Forze Armate, magistrati e dirigenti politici. Il tema era “Terrore rivoluzionario” contrastare l’avanzata del comunismo in ogni modo e con ogni mezzo, anche con un colpo di Stato, ed instaurare poi una giunta militare alla guida del paese. In questo progetto, sicuramente di contesto internazionale, erano coinvolti anche i servizi segreti italiani come il SID diretto, da dall’ammiraglio Eugenio Henke, l’ufficio Affari riservati del Viminale diretto da Federico Umberto D’amato, quelli americani come la CIA, quelli dell’Esercito e della Marina, e altri strani personaggi come Yves Guérin-Sérac ex membro delle SS francesi, ufficiale dell’Oas un gruppo terroristico di estrema destra. Le indagini cambiarono quindi direzione, vennero indirizzate verso l’eversione nera e la pista anarchica franò totalmente quando per caso, nel novembre del 1971 in un’abitazione di Castelfranco Veneto, mentre si effettuavano dei lavori di ristrutturazione, i muratori abbatterono per errore una parete dietro la quale era nascosto un vero e proprio arsenale Nato composto da cinque mitra, sette pistole automatiche calibro 9 Beretta, caricatori, munizioni e silenziatori, c’erano inoltre delle casse dello stesso tipo di quelle utilizzate per contenere gli ordigni deposti in Piazza Fontana. Di quelle armi il proprietario di casa non ne sapeva niente le custodiva il suo inquilino, un esponente di Ordine Nuovo, che interrogato disse che appartenevano a Giovanni Ventura, il quale le avrebbe nascoste dopo gli attentati del 12 dicembre del 1969. I magistrati scoprirono inoltre che presso una sala dell’università di Padova messa a disposizione dal custode Marco Pozzan, braccio destro di Freda, si erano riuniti in varie occasioni i due indagati con altri individui, tra i quali vennero identificati Pino Rauti e un giornalista appartenente ai servizi segreti. Mentre si celebrava a Roma il processo contro l’anarchico Pietro Valpreda il 3 marzo 1972 Franco Freda, Giovanni Ventura e Pino Rauti, vennero arrestati con l’accusa di aver organizzato gli attentati che avevano sconvolto il 1969, tra cui quello del 25 aprile (alla Fiera campionaria e alla stazione centrale di Milano), dell’8 e 9 agosto (a danno di alcuni treni), dell’ottobre a Trieste, di dicembre a Roma e a Milano. L’inchiesta dalla procura di Treviso venne spostata a Milano nelle mani del giudice Gerardo D’Ambrosio e dei sostituti procuratori Luigi Rocco Fiasconaro ed Emilio Alessandrini, e Rauti venne scarcerato a distanza di un mese dall’arresto. Nelle indagini condotte dai PM di Milano lo scenario intricato cominciò ad essere chiaro; qua e la si scoprirono fatti che, come le tessere di un grande puzzle, si ricomponevano. Venne per esempio scoperto che le borse utilizzate per contenere l’esplosivo erano state acquistate a Padova, e che il proprietario del negozio aveva fatto la segnalazione alla questura di Padova tre anni prima. A pochi giorni dalla strage di Piazza Fontana aveva infatti sentito al telegiornale che la bomba inesplosa alla Banca Commerciale in piazza della Scala a Milano, era contenuta in una borsa Mosbach & Gruber , proprio come quelle che un tizio aveva acquistato due giorni prima. Quella segnalazione non era mai arrivata ai magistrati che si occupavano dell’inchiesta. Anche le registrazioni delle intercettazioni che il commissario Pasquale Juliano di Padova aveva fatto nei confronti di Franco Freda, erano rimasti stranamente in un cassetto dopo il suo trasferimento, in quei nastri si parlava di cinquanta timer acquistati a Bologna proprio da Freda. Messo alle strette, Franco Freda cominciò a fare le prime ammissioni, confermò l’acquisto dei timer ma per conto di un fantomatico capitano dei servizi segreti algerini che si scopri poi inesistente. Giovanni Ventura, interrogato nel carcere di Monza, confessò invece di aver fatto parte del gruppo neofascista responsabile di aver collocato le bombe, rilevò di aver agito per conto dei servizi segreti per i quali collaborava per merito dell’agente Zeta, il giornalista di cui aveva anche parlato Marco Pozzon durante il suo interrogatorio. Si scopri poi che quel giornalista il cui nome compariva anche nell’agenda di Ventura era Guido Giannettini, giornalista romana ma allo stesso tempo in forza al SID. I magistrati di Milano, intenzionati ad interrogare Giannettini, scoprirono che lui non era più in Italia; sia lui che Marco Pozzon vennero fatti espatriare, il primo in Francia tramite un’operazione di “Esfiltrazione” coordinata dal capitano Antonio La Bruna del NOD (Nucleo operazioni dirette) un ufficio del SID, il secondo in Spagna. La stagione dei processi per gli attentati del 1969, e in particolar modo per la strage di Piazza Fontana, fu lunga e tortuosa ed estenuante, soprattutto per i familiari delle vittime della strage, che dovettero affrontare notevoli difficoltà anche di natura economica visto i continui spostamenti degli atti tra una procura e l’altra. Nelle molteplici udienze, numerosi furono i protagonisti, personaggi appartenenti a tutti gli ambienti: politici, militari, giudici, giornalisti, gruppi eversivi, servizi segreti, professionisti, ed è per questo motivo che numerosi furono anche i tentativi di depistaggio. Il primo processo, quello che vide imputati inizialmente gli anarchici del circolo 22 marzo, tra cui Pietro Valpreda e Mario Merlino, si aprì a Roma il 23 febbraio del 1972 ma dopo solo quattro giorni gli atti furono trasferiti a Milano per incompetenza territoriale. A Milano, anche questa volta, il processo venne bloccato, infatti il 13 ottobre dello stesso anno la Corte di cassazione stabili che, per motivi di ordine pubblico e legittimo sospetto, il processo per la strage di Piazza Fontana non dovesse più tenersi a Milano, e gli atti vennero trasferiti alla procura di Catanzaro, pertanto tutto era da rifare. Ripresero le indagini e il 20 ottobre del 1972 tre avvisi a procedere, per omissione di atti d’ufficio nelle indagini sulla strage di piazza Fontana, vennero inviati al dirigente degli affari riservati del ministero degli interni Elvio Catenacci, al questore di Roma Bonaventura Provenza, e al capo dell’ufficio politico della questura di Milano Antonio Allegra. Il 18 marzo del 1974 il processo a Catanzaro riprese ma questa volta, oltre agli imputati di sinistra, vide coinvolti anche quelli di destra Freda e Ventura, mentre fece la sua comparsa tra i banchi degli imputati anche Guido Giannettini. Proprio nel marzo del 1974 Giulio Andreotti, l’allora ministro della difesa del governo Rumor, in un’intervista concessa ad un giornalista de “Il Mondo” rivelò che i due giornalisti, Giannettini e Giorgio Zicari, erano collaboratori del SID e che fu un errore non rivelare, nonostante la richiesta di informazione da parte dei Pm di Milano, la loro appartenenza ai servizi segreti. Sia Giulio Andreotti, sia Mariano Rumor, che Mario Tanassi, furono chiamati come testimoni per chiarire il ruolo dei servizi segreti negli attentati del 1969. Il 28 febbraio del 1976 vennero arrestati sia il Generale Gian Adelio Maletti capo del controspionaggio del SID, sia il capitano Antonio La Bruna, accusati entrambi di aver favorito la fuga all’estero di Pozzon e Giannettini. Il 4 ottobre del 1978 venne accertata la fuga di Franco Freda, avvenuta tra il 29 settembre e il primo ottobre mentre si trovava agli arresti domiciliari nella sua abitazione. Anche l’accusa nei confronti dei tre ministri Andreotti, Rumor e Tanassi, accusati di favoreggiamento per omissione di atti di ufficio venne archiviata dalla commissione parlamentare. Il 16 gennaio del 1979 anche Giovanni Ventura, rinchiuso nel carcere di Monza, riusci clamorosamente a scappare, gli vennero fatte recapitare la chiave per aprire la cella e delle bombolette di gas narcotizzanti per neutralizzare le guardie di custodia. Il 23 febbraio del 1979 c fu la prima sentenza del processo di Catanzaro, la corte d’Assise condannò all’ergastolo per la strage di Piazza Fontana Franco Freda, Giovanni Ventura e Guido Giannettini, condannò a quattro anni di reclusione il Generale Maletti e due anni il Capitano Labruna, e ad un anno il Maresciallo Tanzilli per falsa testimonianza. Valpreda e Merlino vennero prosciolti dall’accusa ma condannati per associazione sovversiva a quattro anni e mezzo di reclusione, mentre venne assolto Marco Pozzan. I due imputati principali, latitanti al momento della sentenza, vennero poi arrestati: il 12 agosto del 1979 Giovanni Ventura a Buenos Aires fu rinchiuso nelle carceri argentine, il 23 agosto del 1979 Franco Freda in Costa Rica invece venne estradato in Italia. Alla sentenza di primo grado segui poi, il 20 marzo del 1981, quella di secondo grado che ribaltò totalmente la precedente; vennero assolti Freda, Ventura e Giannettini per insufficienza di prove, venne riconfermata l’assoluzione di Marco Pozzan, Valpreda e Merlino, e venero assolti anche il Generale Maletti che nel frattempo era scappato in Sudafrica, il capitano Labruna e il maresciallo Tanzilli. Freda e Ventura vennero comunque condannati a quindici anni di reclusione per associazione sovversiva riguardanti le bombe dell’aprile-agosto del 1969. Il 14 ottobre del 1981 la Procura generale di Catanzaro riapri le indagini e fece la sua comparsa, nell’inchiesta sulla strage di Piazza Fontana, Stefano Delle Chiaie latitante da molti anni in America Latina dove collaborò attivamente con il regime cileno di Pinochet . Nei suoi confronti venne emessa una comunicazione giudiziaria per il reato di strage, analogo procedimento per associazione sovversiva e concorso in strage vene emesso nei confronti di Mario Merlino. Delle Chiaie era un noto esponente della destra radicale, iscritto nel MSI dal quale ne uscì , fu prima fondatore di Ordine Nuovo insieme a Pino Rauti, dal quale prese poi le distanze, e poi fondatore di Avanguardia Nazionale. Il 10 giugno del 1982 ci fu la sentenza di Cassazione la quale, annullò la precedente sentenza della corte d’Assise, e rinviò a giudizio tutti gli imputati tranne Guido Giannettini che venne definitivamente assolto. Gli atti del processo cambiarono nuovamente destinazione e vennero inviati alla procura di Bari e il 1 agosto del 1985 la sentenza d’appello confermo l’assoluzione per Franco Freda e Giovanni Ventura, assolti definitivamente Pietro Valpreda, Giovanni Merlino e il maresciallo Tanzilli, condanne invece confermate per il capitano Labruna ed il Generale Maletti. Il 27 marzo del 1987, Stefano Delle Chiaie venne arrestato a Caracas da agenti dei servizi argentini ed estradato in Italia per essere rinchiuso nel carcere di Rebibbia. Nei due processi di Catanzaro che lo videro coinvolto assieme a Massimo Fachini (esponente di Ordine Nuovo), entrambi vennero rinviati a giudizio dal giudice istruttore Emilio Ledonne. La sentenza del 20 febbraio del 1989 fu di assoluzione per non aver commesso il fatto, sentenza riconfermata dalla Corte di Assise di appello il 5 luglio del 1991. A Milano le indagini, condotte dal giudice Guido Salvini nel 1988 nei confronti di Ordine Nuovo per alcuni attentati tra i quali quello sul treno Torino-Genova, riaprirono l’inchiesta sulla strage di Piazza Fontana. Dal suo minuzioso lavoro di ricostruzione dei fatti e dai riscontri incrociati sulle dichiarazioni dei pentiti, emerse che le organizzazioni eversive di estrema destra di quegli anni, non erano che le truppe di trincea d’un esercito occulto, teleguidato da esponenti degli apparati dello Stato e legato alla CIA. Vincenzo Vinciguerra, neofascista di Ordine Nuovo e reoconfesso condannato all’ergastolo per la strage di Peteano nel maggio del 1972, dove persero la vita tre carabinieri, parlo e racconto molte cose ai magistrati. “ La strage del dicembre 1969 doveva essere il detonatore che avrebbe consentito, a determinate autorità politiche e militari, la proclamazione dello Stato d’emergenza “. Fortunatamente il piano non riuscì, alcuni politici si opposero tra cui l’onorevole Aldo Moro, che ipotizzò proprio un “golpe alla greca”. Lo stesso capo del governo, Mariano Rumor, si rifiutò di proporre tale soluzione e per questa sua decisione il 17 maggio 1973, mentre era in visita alla questura di Milano, un sedicente anarchico, Gianfranco Bertoli in realtà militante di destra legato ai Servizi, lanciò una bomba tra la folla causando la morte di quattro persone ma senza causare conseguenze per il Presidente del Consiglio. Oltre a lui altri neofascisti di Ordine Nuovo cominciarono a parlare: Martino Siciliano, Carlo Digilio, Edgardo Bonazzi, tutti fecero ammissioni sui fatti del 1969 e in particolare parlarono di un ufficiale della U.S. Navy, uomo della CIA in Italia, il capitano David Carnet e delle navi militari sia americane che italiane che, nei giorni successivi alla strage, avevano avuto l’ordine di uscire dai porti, per evitare di essere facilmente colpite in caso di manifestazioni e scontri armati. I tre collaboratori parlarono anche di Delfo Zorzi, attivista della cellula veneta di Ordine Nuovo, che secondo loro era stato uno degli autori della strage di Piazza Fontana. Zorzi, accusato dai tre, sarebbe stato in possesso di esplosivo e cassette metalliche simili a quelle usate negli attentati del dicembre 1969, e avrebbe espressamente detto ai suoi camerati “L’abbiamo fatta noi”, raccontò di aver partecipato direttamente all’operazione di collocazione della bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, non parlò ne di morti ne di feriti ma di “operazione”, come se si fosse appunto trattato di un’operazione di guerra. Ovviamente Zorzi ormai non era più in Italia, scappò in Giappone nel 1974, subito dopo che i magistrati cominciarono ad indagare sulla pista fascista per la strage di Piazza Fontana, diventando un ricco uomo d’affari, probabilmente protetto e finanziato dai Servizi segreti e dalla Yakuza, la potente mafia nipponica. Dopo quattro anni di indagini, durante i quali furono indagate 26 persone e ascoltati 400 testimoni, l’11 aprile del 1995 il giudice Salvini rinvio a giudizio per gli attentatati terroristici di destra di quegli anni, e precisamente: per associazione sovversiva Giancarlo Rognoni, leader del gruppo “La Fenice”, e Nico Azi, autore dell’attentato sul treno Roma Milano, per detenzioni di armi ed esplosivo con la finalità di sovvertire lo Stato il prof. Paolo Signorelli, ex militante del MSI confluito poi ad Ordine Nuovo, Sergio Calore, membro della direzione di Ordine Nuovo e del gruppo Movimento Politico Rivoluzionario, per la falsificazione di documenti Carlo Digilio, ex agente CIA infiltrato nelle file di Ordine Nuovo, per favoreggiamento Ettore Malcangi, militante di destra; uscirono invece dal processo per prescrizione il Generale Maletti ufficiale del SID, Giancarlo D’Ovidio, anch’egli ufficiale del SID, Stefano Delle Chiaie, Angelo Izzo, estremista di destra ed oggi sulle cronache italiane per aver commesso efferati omicidi, e Guido Giannettini. Le indagini del giudice Salvini portarono alla luce, il 17 agosto del 1996, un deposito sulla Via Appia a Roma di 150 mila fascicoli non catalogati del ministero dell’interno che costituiva un archivio parallelo del Viminale, in cui erano racchiusi numerose indagini segrete legate ad attività di spionaggio interno, e che nascondevano altrettanti misteri sui fatti di quegli anni. Per finire, l’inchiesta coinvolse anche Licio Gelli, ex leader della Loggia massonica P2 con un passato da fascista e repubblichino, per l’ipotesi di cospirazione politica e attentato alla libertà del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, in concorso con Maletti ed altri membri del Sid. Licio Gelli sarebbe stato uno degli organizzatori del Golpe Borghese del 1970, vale a dire il tentativo di colpo di stato programmato per il 1969 ma che poi fu rinviato di un anno. In quel tentativo di golpe, guidato dal capitano di fregata principe Junio Valerio Borghese capo del Fronte Nazionale, Gelli avrebbe avuto il compito di sequestrare l’allora Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Il giudice Savini non escludeva che l’attentato di Piazza Fontana avesse la finalità proprio di favorire un programma di golpe, organizzato dalla loggia, e fissato per la fine del 1969. Gli atti vennero trasferiti al tribunale di Roma che non poté procedere in quanto Gelli si era rifugiato in Svizzera, la quale non concesse l’estradizione. Delfo Zorzi, assieme al medico veneziano e capo di Ordine Nuovo nel Triveneto nel 1969 Carlo Maria Maggi, venne scritto nel registro degli indagati per strage il 14 giugno del 1997, per entrambi venne emesso dal gip Clementina Forleo l’ordine di custodia cautelare, solo per Maggi verrà eseguito, Zorzi invece era latitante in Giappone. Il 21 maggio del 1998 la Procura di Milano chiuse l’inchiesta sulla strage di Piazza Fontana chiamando a giudizio otto persone tra cui Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni, Carlo Digilio. Il 13 aprile del 1999 comincio l’udienza preliminare davanti al gip Clementina Forleo, rinviata prima a maggio e poi all’8 giugno dove Zorzi, Maggi e Rognoni vennero rinviati a giudizio come responsabili, a vario titolo, per aver organizzato ed eseguito la strage di Piazza Fontana. Una quarta persona, Stefano Tringali dovette rispondere invece di favoreggiamento nei confronti di Zorzi. Il 16 febbraio del 2000, davanti alla seconda sezione d’Assise di Milano, iniziò il settimo processo per gli imputati colpevoli per la strage di Piazza Fontana dove numerosi furono i protagonisti chiamati a testimoniare; Franco Freda, Guido Giannettini, Gian Adelio Maletti, tornato dalla sua latitanza in Sudafrica con un permesso speciale che gli permise di ritornarci dopo la deposizione. Il 30 giugno del 2001 la sentenza fu di ergastolo per Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni, tre anni per Stefano Tringali, mentre per Carlo Digilio, cui verranno concesse le attenuanti generiche per aver collaborato, i reati verranno prescritti. La sentenza, oltre a riconoscere le responsabilità dei vari imputati, tracciò dei punti fermi su tutta la vicenda soggetta alle indagini: – la strage di Piazza Fontana rientrò in quella strategia della tensione pianificata fin dai tempi del convegno dell’istituto Pollio all’hotel Parco de’ Principi nel 1965; – che forte fu la presenza dei servizi segreti italiani e americani che, attraverso infiltrazioni nelle file del gruppo di estrema destra “ Ordine Nuovo “, proteggendo i responsabili e depistando, in più occasioni, le indagini sulla strage. Alla sentenza seguì il ricorso in appello che iniziò il 16 ottobre del 2003 e al termine della requisitoria del 22 gennaio 2004, il sostituto procuratore della repubblica Laura Bertolè Viale, chiese la conferma della sentenza di primo grado. Il 12 marzo del 2004 la Corte d’Assise d’Appello di Milano sentenziò l’assoluzione per i tre imputati Zorzi, Maggi, e Rognoni per non aver commesso il fatto, ridusse ad un anno la condanna per Tringali accusato di favoreggiamento. Venne confermata la matrice di estrema destra attribuita al gruppo eversivo di “ Ordine Nuovo” e vennero riconosciuti come responsabili della strage di Piazza Fontana, ma essendo stati già assolti in via definitiva non poterono più essere processati. Il 3 maggio del 2005 la Corte di Cassazione mise la parola fine sull’inchiesta giudiziaria, confermando l’assoluzione per Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, e Giancarlo Rognoni, e condannò le parti civili, tra le quali i parenti delle vittime, al pagamento delle spese processuali. Con il 12 dicembre del 1969 non si verificò solo, per modo di dire, una strage di innocenti, ma si impose un blocco al probabile cambiamento radicale che stava avvenendo all’interno della società italiana, ci fu inoltre una vera e propria frattura, sia all’interno degli organi istituzionali dello stato, sia all’interno delle stesse forze politiche che passarono volontariamente nell’illegalità. Nonostante le indagini capillari, le minuziose ricostruzioni, il certosino lavoro fatto da chi allora ha lavorato con serietà e deduzione alla ricerca della verità rispondendone, in qualche caso, anche con la vita, nonostante ben sette processi eseguiti per identificarne i mandanti, nonostante siano stati messi sul banco degli imputati estremisti di sinistra prima e di destra dopo la strage di Piazza Fontana, rimase una strage impunita. Le uniche condanne rimasero quelle verso esponenti dei servizi segreti per i depistaggi messi in atto. Non di poco conto furono le dichiarazioni rese da Aldo Moro durante il suo sequestro per opera delle Brigate Rosse, infatti nei verbali trascritti dai terroristi durante il suo interrogatorio, Moro indicò come probabili responsabili della strage rami deviati del SID in combutta con estremisti di destra. Oggi i maggiori indiziati, per quella strage rimasta senza colpevoli, rimangono uomini liberi; Delio Zorzi è diventato un ricco uomo d’affari in Giappone dove ha ottenuto la cittadinanza ed ha anche cambiato nome in Roi Hagen, che in tedesco suona come “croce uncinata-svastica”; Carlo Maria Maggi oggi in pensione, fino alla metà degli anni 90, ha svolto la sua professione presso l’ospedale geriatrico G.B. Venezian di Venezia e allo stesso tempo come medico di base sull’isola di Giudecca; anche Giancarlo Rognoni vive oggi da uomo libero, dopo 14 anni di carcere passati per buona parte in istituti di massima sicurezza; Franco Freda oggi fa l’editore e gestisce l’omonima casa editrice con l’edizione AR, mentre Giovanni Ventura vive in Argentina dove gestisce una pizzeria a Buenos Aires “Il Filo” e un ristorante “Il Circolo Italiano”; Carlo Digilio morì invece il 12 dicembre del 2006, proprio nell’anniversario della strage, dopo aver vissuto gli ultimi anni a Bergamo e sotto il comunissimo nome di copertura Mario Rossi; Il Generale Gianadelio Maletti non è mai più tornato in Italia da quel 1980, da allora è cittadino del Sudafrica ma il suo nome è riapparso sulle cronache italiane di recente, dopo le rivelazioni del pentito di mafia Francesco di Carlo, come mandante dell’omicidio del giornalista Mauro De Mauro avvenuto a Palermo, De Mauro era in procinto di rivelare retroscena inediti sul fallito “golpe Borghese” del 1970; anche Guido Giannettini, e il capitano dei carabinieri Antonio La Buna, figure chiavi e custodi di tanti segreti nella strage, sono deceduti, il primo nel 2003, il secondo nel 2000. Anche Mario Valpreda, accusato inizialmente come esecutore della strage, morì il 06 luglio del 2002. Dopo Piazza Fontana ci furono ancora bombe, ancora stragi, ancora vittime, soprattutto per mano della destra, ma anche della sinistra, se l’una attaccava l’altra doveva rispondere innalzando il livello dello scontro armato. 1 Giovanni ARNOLDI, anni 42 2 Giulio CHINA, anni 57 3 Eugenio CORSINI, anni 4 Pietro DANDENA, anni 45 5 Carlo GAIANI, anni 37 6 Calogero GALATIOTTO, anni 37 7 Carlo GARAVAGLIA, anni 71 8 Paolo GERLI, anni 45 9 Luigi MELONI, anni 57 10 Vittorio MOCCHI 11 Gerolamo PAPETTI, anni 78 12 Mario PASI, anni 48 13 Carlo PEREGO, anni 74 14 Oreste SANGALLI, anni 49 15 Angelo SCAGLIA, anni 61 16 Carlo SILVA, anni 71 17 Attilio VALE’, anni 52 I funerali per le vittime della strage di Piazza Fontana si celebrarono il 16 dicembre del 1969 in Piazza Duomo a Milano durante una giornata fredda e nebbiosa, la cattedrale era piena, la piazza gremita di gente comune, lavoratori, casalinghe, studenti, tutti presenti in silenzio, sguardi tristi e pieni di sgomento per quell’orrore inaudito che riportava alla mente i giorni della guerra. Ricordare i morti e i feriti della strage di Piazza Fontana e di tutti coloro che furono vittime del terrorismo politico di destra e di sinistra di quel ventennio è un obbligo. Conoscere i fatti, i nomi di tutti coloro che, direttamente ed indirettamente, hanno organizzato, partecipato, eseguito gli attentati di quel ventennio, deve essere un impegno per uno Stato che si ritenga repubblicano e democratico. Purtroppo oggi si tende a celebrare la strage di Piazza Fontana come un rituale, dimenticando quali sono state le vere ragioni. I poteri di ieri hanno fatto il lavoro sporco, quelli di oggi lo celebrano, magari disposti, in caso di necessità, a ripetere le stesse azioni. . Fino ad oggi conoscevo la strage di Piazza Fontana solo per sentito dire, per qualche sporadica informazione, spesso anche inesatte, che ho avuto frequentando la scuola, o per qualche notizia apparsa sui media durante la ricorrenza dell’anniversario, e se qualcuno mi avesse chiesto: “Chi ha messo la bomba che ha causato la strage di piazza Fontana?” avrei risposto: “Le brigate rosse?”. Mi sono reso conto che tra i giovani della mia generazione, ma anche di quella precedente, quanta ignoranza esiste su un periodo storico così importante e neanche così lontano, e di questo sono anche responsabili certi organi di stampa che, durante gli anni dei processi, si sono adagiati su un’informazione di routine, rimanendo pressoché assente soprattutto durante l’ultimo dei processi. Mai come quaranta anni fa, la nostra Repubblica ha vissuto un periodo così in bilico, così delicato che ha messo a rischio la democrazia nel nostro paese, e noi giovani d’oggi ne siamo ignari, non conosciamo i fatti, le vicende, la storia. I giovani degli anni sessanta nelle scuole, nelle università, nei circoli si riunivano per discutere di politica, di problemi sociali, di cultura. Ciò che stava alla base dell’impegno di quella volontà di prendere posizione, di fare una scelta, ed agire per operare dei cambiamenti sostanziali nella realtà circostante era, a mio avviso, la passione politica intesa nel senso più nobile ed ambio del termine. Quello che allora primeggiava nei giovani erano i valori di solidarietà, di giustizia sociale, di libertà per i quali, solo pochi decenni prima, centinaia di migliaia di ragazzi, anche più giovani della mia età, avevano lottato sacrificando a volte anche la vita, allo scopo di abbattere l’odiosa dittatura fascista e vivere finalmente da uomini liberi in uno stato libero. Ebbene quei valori di “RESISTENZA” così presenti ancora negli anni sessanta, erano ancora forse troppo pericolosamente vivi per qualcuno, tanto che il, 12 dicembre del 1969, si tentò di sconfessarli senza risparmiare niente e nessuno. A differenza di allora i giovani d’oggi hanno purtroppo perso quei valori, e continuano a manifestare segni di indifferenza nei confronti delle problematiche della nostra società, incrementando il loro egoismo e senza ricordare, o meglio conoscere, quella storia passata che, nonostante tutto, ha ancora oggi dei forti legami con il presente. La gioventù odierna è quindi ignara e non si preoccupa assolutamente del rischio di un eventuale ritorno di quegli eventi, e non pensano che le vicende di allora possano rimanifestarsi, sono concentrati a parlare invece di sport, d’internet, di reality, delle fiction, eppure problemi legati al lavoro, alla crisi, alle disuguaglianze sociali, alla differenza tra nord e sud, sono fortemente attuali oggi come allora, in Italia ed in altri paesi del mondo, come in Grecia per esempio, ma la cosa sembra passarci sotto al naso con una totale indifferenza, come mai? E’ il risultato dell’evoluzione, della globalizzazione, del menefreghismo e dell’indifferenza generale o c’è la volontà a far dimenticare? Purtroppo a questa domanda non sarà facile dare una risposta, finché non ci si scrollerà di dosso l’ignoranza e la pigrizia che ci domina, finché non ci sarà una volontà sociale di cambiamento, finché politica ed interessi privati avranno sempre legami. Flavio Valentino


Aldo Giannuli

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