“Guerra all’Isis”: chi era Al Zarqawi, stratega della Jihad

Un’altra anticipazione del mio libro sull’Isis dedicata da Al Zarkawi che (al di là del giudizio morale) ritengo si possa annoverare fra i più grandi pensatori di strategia politica dei nostri tempi.

Abu Musab Al Zarqawi.

Nei primi del 2000, Osama Bin Ladin incontrava  un giovane giordano, Abu Musan Al-Zarqāwī (ma il nome vero era forse Aḥmad Fāḍil al-Nazāl al-Khalā) nella cittadina afghana di Kandahar. I due uomini non avrebbero potuto essere più diversi: alto quasi due metri il primo, ingegnere ultramiliardario, appartenente ad una famiglia di origini yemenite, ma che operava in Arabia Saudita; pacato nel parlare cortese ed elegante nei modi, il primo. Di origini beduine, e di famiglia popolare il secondo, nato nella città di Zarqa (la seconda città giordana) più giovane di 10 anni dell’altro.  Ragazzo cresciuto in strada, aveva compiuto diversi reati e, per questo venne condannato a 5 anni di reclusione. In carcere si aderì al salafismo radicale (la politicizzazione in carcere è un elemento comune a molti militanti jihadisti). Appena scarcerato, andò in l’Afghanistan dove sembra abbia diretto un  campo di addestramento dei Mujaheddin, ma la guerra finì pochissimo tempo dopo e senza che egli potesse partecipare a combattimenti.

Nell’incontro di Kandahar, Bin Ladin  gli propose di entrare in Al Quaeda, ottenendone un rifiuto. Per il suo ingresso nell’organizzazione di Osama, occorrerà attendere il 21 ottobre 2004, quando al-Zarqāwī  annunciò ufficialmente la sua lealtà ad al-Qāeda. Nell’anno precedente, insieme a suoi compatrioti, era accorso in Iraq dove aveva iniziato a combattere gli occupanti con diversi successi. Il 28 dicembre 2004, da una radio del Qatar, Osama bin Laden annunciò la nomina di al-Zarqāwī a capo di Al Quaeda in Iraq (Aqui). Ma, tutto sommato, era un matrimonio di interesse, nel quale Al Zarkawi riceveva la possibilità di usare la sigla più prestigiosa –al momento- dell’universo jihadista ed Al Quaeda, che sino a quel momento era stata marginale in quello scenario, incamerava il gruppo di Zarkawi che aveva dimostrato di essere organizzativamente abbastanza efficiente.

Ma le differenze politiche restavano: Osama, al pari di al Zarkawi, puntava certamente al superamento dell’ordinamento nazionale ed alla rinascita del Califfato, ma, nonostante tutto, era e restava “uomo di palazzo”, abituato a trattare ai più alti livelli e con molta disinvoltura (ad esempio, nonostante fosse sunnita, aveva stabilito una buona intesa con l’Iran contro il comune nemico americano). Pertanto, pur non disdegnando l’azione guerrigliera, come aveva dimostrato in Afghanistan, aveva una visione tutta politica dello scontro, Al Quaeda puntava ad attaccare il “nemico lontano”, gli Usa, piuttosto che quello “vicino” e cioè, le classi dirigenti nazionali arabe che puntava a recuperare almeno in parte alla causa califfale. Usando impropriamente un’altra categoria del linguaggio politico occidentale, quella di Osama era una tattica “entrista”,  che non puntava a conquiste territoriali, quanto piuttosto all’azione di influenza. Ed è indubbio che godesse di appoggi influenti tanto in Pakistan, quanto in Arabia Saudita, nelle monarchie del golfo  e forse anche in altri paesi come l’Egitto.

Dunque, Al Quaeda poteva ammettere l’idea di piccole enclaves territoriali islamiste (quasi “zone liberate” simili a quelle delle resistenze nella II guerra mondiale) ma non puntava certamente ad un grande aggregato territoriale. Soprattutto, Al Quaeda aveva una visione del processo più come scontro interno alle classi dirigenti fra nazionalisti e “globalisti” (o sostenitori del Califfato) che come rivoluzione dal basso.

Al Zarkawi, invece, forse più influenzato dall’idea dell’ “occidente interno all’Islam”, era molto più interessato a combattere il “nemico interno”, e, sin da prima della guerra del golfo, aveva il disegno di abbattere il governo giordano per far nascere uno stato islamista e, dopo, in Iraq puntò alla conquista del consenso fra le masse iraquene ed alla conquista territoriale.

Infatti, l’arrivo di al Zarqawi nell’arena iraniana coincise con i primi attentati kamikaze nel paese (come il camion bomba esploso contro il quartiere generale delle Nazioni Unite a Baghdad, nell’agosto 2003). Ma l’attentato politicamente più importante fu quello del 29 agosto, contro la Moschea dell’Imam Alì, a Najaf nel quale morirono 125 sciiti, tra i quali l’Ayatollà Muhammad Baqer al Hakim, guida spirituale del Consiglio Supremo della Rivoluzione Islamica in Iraq (sciri).
E non c’erano dubbi sulla matrice dell’attentato suicida perché a compierlo fu il padre della seconda moglie di Zarkawi.

Da quel momento non si trattò più sono di una guerra contro gli occupanti americani, ma anche di una guerra civile fra sunniti e sciiti che Zarkawi poi dichiarò ufficialmente  nel 2005, dopo che, il 1 settembre americani sostenuti da reparti governativi iraqueni attaccarono pesantemente la città di Tal Afar dove era forte l’influenza di Aqi.

L’iniziativa anti sciita dei Al Zarkawi non fu affatto gradita dal vertice di Al Quaeda, sia perché questo disturbava gli accordi con gli iraniani, sia perché apriva un fronte inter-islamico ritenuto del tutto inopportuno e seguirono non poche frizioni fra Aqi e il gruppo centrale di Aq che intimò di cessare le azioni anti-sciite.

Al Zarqawi  temeva che un fronte unico nazionale fra sunniti e sciiti, contro gli americani avrebbe potuto emarginare gli Jihadisti o a favore di una egemonia degli sciiti –più numerosi- o dando alla rivolta un carattere “nazionalista” che era quello che si voleva combattere, per spianare la strada al progetto califfale. E i fatti gli dettero ragione, quando, nella primavera del 2004, la rivolta sciita di Moqtada al Sadr riscosse ammirazione e simpatia da parte dei guerriglieri sunniti, che affissero immagini dell’Iman sui muri dei loro quartieri. Il leader giordano era riuscito a imprimere al conflitto un carattere a due fronti, uno contro le forze della Coalizione e l’altro contro gli sciiti., usando in larga scala la tattica terroristica delle missioni suicide.

Gli sciiti in Iraq erano odiati dai sunniti anche più dei curdi: a parte le radici storiche dell’odio, influivano fatti recenti come il ruolo degli sciiti di Bassora nel conflitto con l’Iran. Inoltre gli sciiti erano maggioranza nel paese e, nelle elezioni del dicembre 2005, conquistarono la maggioranza nel Parlamento di Baghdad e, via via, tutte le cariche istituzionali. I sunniti, da sempre padroni del paese, si trovarono estromessi dal potere, espulsi da tutte le posizioni di prestigio, ridotti alla marginalità. Va detto che il capo del governo, lo sciita Nuri al-Maliki, fece tutto quel che gli era possibile per vessare i sunniti. Pertanto non meraviglia che fra i sunniti fosse popolarissimo chiunque incitasse all’odio contro gli sciiti. Al Zarkawi lo sapeva bene ed usò .con successo- quell’argomento per reclutare fra i sunniti i guerriglieri per la sua organizzazione che divenne la più importante.

Una delle intuizioni chiave di Al Zarkawi fu quella della “cintura di Baghdad”: una strategia che aveva qualcosa di maoista (“la campagna che accerchia la città”) e che consisteva nell’occupare via via le cittadine della circostante regione chiamata la “cintura”, ed accerchiare la capitale. Esattamente quello che farà Al Baghdadi nel 2014.

Il piano ebbe inizio nel 2006 con la conquista di Falluja e della provincia di Anbar, poi Karma e Abu Ghraib. Infine, si insediarono  nel Babil settentrionale e a sud di Baghdad. Il progetto ebbe una battuta d’arresto con il piano di riconquista, battezzato “Surge” dal nuovo comandante americano David Petraeus, per il quale erano giunto altri 130.000 soldati. D’altra parte, al Zarkawi era morto il  7 giugno del 2006, durante un attacco aereo americano.

Aqi (che nel frattempo cominciò di nuovo ad usare la denominazione di Stato Islamico in Iraq –Isi- affiancandola per un certo periodo a quella di Aqi) fu costretta a ritirarsi mentre iniziava il momento migliore per gli americani che stavano applicando le nuove teorie della controinsorgenza ideate da Petraeus, che evitavano grandi concentrazioni militari, distribuendo le forze sul territorio in nuclei più ristretti ma molto più numerosi, in modo che i militari potessero vivere in mezzo alla gente1 e son gruppi mobili di intervento rapido, in caso di attacchi2. Nel complesso, la nuova tattica funzionò, anche se l’idea che dette i migliori risultati fu la distribuzione di dollari ai capi tribù che dettero vita al movimento noto come il Risveglio Sunnita: un appelo alla popolazione a respingere i guerriglieri che “erano stranieri” che combattevano sul loro suolo.

Sembrò che la guerra si stesse avviando alla fine e questo incoraggiò l’idea di un ritiro americano che, effettivamente, iniziò il 31 luglio 2010. Ma Aqi-Isi aveva messo radici molto solide, anche grazie al modello organizzativo pensato da Al Zarkawi, che, a differenza di Al Quaeda, prevedeva una rigorosa catena di comando, utile a mantenere le fila nel caso di ritorno alla clandestinità.

Al Zarkawi è stato certamente il più brillante stratega della Jihad, sia dal punto di vista politico che militare e questo, al di là del giudizio di merito sulle sue convinzioni politiche e sulla spietatezza dei suoi metodi, va riconosciuto. Non fu solo un abilissimo guerrigliero, ma anche un politico capace di inserirsi nel “grande gioco”: quando morì, nel suo covo avrebbero ritrovati i piani per spingere gli Stati Uniti ad attaccare l’Iran, indicando sei diverse possibilità per innescare il conflitto fra i suoi due nemici, un classico esempio di “guerra catalitica”. C’è chi mette in dubbio l’autenticità del documento, ma l’attuale comportamento del gruppo dirigente di Daesh sembra confermare indirettamente la veridicità di quella attribuzione ad Al Zarkawi.

Tratto da “Guerra all’Isis”, Ponte alle Grazie, 2016, in libreria da giovedì 17 marzo

Aldo Giannuli

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Aldo Giannuli

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Commento

  • Per quant capisca che si tratta solo di un estratto, chiaramente mirato ad analizzare la genesi del futuro successo militare dell’isis, dissento sulla prospettiva e mi pare manchino alcuni elementi fondamentali a ricostruire il presunto successo di zarqawi tra il 2004 e il 2006.

    1. Innanzitutto la sua importanza e forza è stata enormemente ingigantita proprio dai neoconservatori per diversi scopi che lei chiaramente conosce ma forse ha sottolineato altrove: la sua fugura viene citata da Powell per cercare di stabilire un legame (inesistente) tra saddam e alqaeda; zarqawi veniva addirittura descritto come il capo della divisione armi chimiche di alqaeda operante nel nord dell’Iraq e protetto dal regime.
    Inoltre a lui vengono attribuite la paternità di madrid (11 marzo) e della decapitazione di Berg (che meriterebbe un discorso a parte), più una serie inverosimile di piani contro tutti i paesi, usa compresi.

    2. Senza sospettare che zarqawi fosse un asset consapevole o meno, si potrebbe almeno dire che la sua guerra agli sciiti in iraq inizia con un tempismo eccezionale per operare l’antica logica del dividi et impera. Senza bisogno di accusare l’intelligence militare britannica o americana di aver fomentato attivamente tale guerra civile (che continua tuttora) sarebbe ingenuo pensare che i reparti operazioni coperte siano rimasti a guardare la televisione divisi tra il tifo per la squadra dei sunniti o degli altri. Tanto più che in almeno un caso ricordo che presunti contractors inglesi in abiti locali vennero arrestati e trovati in possesso di esplosivo, forse per uso personale.

    3. Il legame con bin laden e la sua organizzazione è pressoché inesistente e basato sul mucchio di intelligence farlocca o del tutto inventata di cui accennavo al punto 1. Fondamentalmente non esistono elementi concreti di intelligence che dimostrino incontri e ruoli di primo piano di osama bin laden dopo l’autunno 2001, a parte i celebri video più o meno ritoccati, con le barbe di mille colori e la voce che non appartiene a lui al 99% (ma questa è un’altra storia). Alcuni rapporti lo danno per morto rispettivamente nel dicembre 2001, 2004 e infine 2006 (un rapporto francese). Persino Bush perse l’abitudine di nominarlo dicendo che non era importante se fosse vivo o morto. Lasciando perdere questa questione e ammettendo che osama fosse vivo per quanto vegetasse in dialisi, è la profonda differenza tra le due organizzazioni a colpire.
    Il nemico di osama era la monarchia saudita (e al più i russi per la cecenia), fatto questo quasi da tutti dimenticato. Non aveva mire espansionistiche da califfato.
    Però Zarqawi è stato per due anni un buon Goldstein; uno in carne e ossa da mostrare al pubblico invece di quei video editati da compagnie di intelligence private con il loro logo.
    DIfatti quando morì non ebbero problemi a mostrare le foto del suo cadavere.

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