Appunti per una discussione su Modernità, Modernizzazione, Globalizzazione

Vi propongo la pubblicazione degli appunti che ho scritto per gli studenti del mio corso su Modernità, Modernizzazione e globalizzazione. L’articolo è lungo e forse un po’ insolito per un blog del genere, ma spero possa essere di vostro interesse comunque.

Aldo Giannuli

Usiamo il termine globalizzazione con riferimento al periodo di trasformazioni sociali, politiche e soprattutto economiche, iniziato fra la fine degli anni ottanta ed i primi anni novanta. Non ci sembra corretto, infatti, antedatare la globalizzazione agli anni settanta (come sembra sostenere SOROS  1999 p.146) o al periodo precedente alla prima guerra mondiale (ROGARI 2007) o alla conquista inglese dell’India (come sostiene ELLWOOD 2003 forse influenzato dall’affermazione di Marx che, troppo ottimisticamente, ritenne che essa segnasse l’”unificazione mondiale del mercato”) o addirittura al cinquecento dopo la scoperta dell’America (OSTERHAMMEL – PETERSON 2005) facendo così coincidere tutta l’epoca moderna con la globalizzazione.

La globalizzazione attuale –pur avendo elementi di continuità con il processo di formazione del mercato mondiale e del sistema di relazioni internazionali (MARTELL 2010 pp.33-60) ha caratteristiche proprie, incomparabili con il passato, che ne fanno un’epoca storica a sé stante e l’estensione del termine (peraltro recentissimo), tendente ad assorbire nella globalizzazione tutta la modernità o gran parte di essa, è una operazione ideologica finalizzata ad espungere o ridurre a mero incidente di percorso qualsiasi alternativa allo sviluppo capitalistico. In ogni caso, si tratta di un’ operazione che non ha alcun fondamento scientifico.

E’ invece corretto sostenere che la globalizzazione, al suo sorgere nei primi anni novanta, è stata pensata come la naturale prosecuzione della modernizzazione e, pertanto, come l’estensione della modernità occidentale a tutto il Mondo.

1- Il progetto della globalizzazione neo liberista (di cui il manifesto più noto fu “La fine della storia e l’ultimo uomo” di Francis FUKUYAMA) prometteva una lunga epoca di pace e prosperità, grazie al dispiegarsi delle forze del mercato, finalmente liberate da freni e barriere; la fine della competizione fra i due blocchi sarebbe stata seguita da brusco calo delle spese militari, quel che avrebbe permesso di indirizzare  grandi masse di capitali verso impieghi di sviluppo economico governati da un’ ardita architettura finanziaria. Tutto questo avrebbe provocato convergenza economica avvicinando i paesi più poveri al livello di quelli più ricchi e parificando i sistemi economici nazionali nell’unico sistema  mondiale neo liberista. Questo, unitamente allo sviluppo delle telecomunicazioni, avrebbe unificato il Mondo in un’unica rete che, accompagnandosi al deperimento degli stati nazionali (che avrebbero delegato crescenti quote di sovranità ad organismi mondiali di governance) avrebbe eliminato in radice la possibilità di conflitti di ampie proporzioni. Lo sviluppo economico avrebbe avuto come conseguenza logica l’affermazione del modello liberal democratico anche nei paesi in via di sviluppo e l’insieme di questi fenomeni avrebbe creato le condizioni per una convergenza non solo economica ma anche politica, in un nuovo ordine mondiale unipolare sotto l’ala benevola della potenza imperiale degli Usa.

2- Come si sa, i processi reali si stanno dimostrando abbastanza diversi da queste previsioni e tali da rimettere in discussione proprio l’idea di un Mondo omogeneamente moderno nel senso di omologato al modello occidentale:

a. i processi di riduzione dei divari economici a livello mondiale si sono verificati (vedi WOLF 2006 che ne dà una immagine assolutamente apologetica) ma in  parte e con andamenti assolutamente differenziati fra le diverse aree. Soprattutto, la convergenza di modello economico è stata molto parziale per l’imprevisto emergere dei “capitalismi di Stato” (rappresentati da aziende sostanzialmente statali coma la russa Gazprom e dai Fondi Sovrani a cominciare da quello cinese). Inoltre la convergenza dal punto di vista degli indicatori di Pnl assoluto e pro capite si è accompagnato ad una marcata deindustrializzazione di quasi tutti i paesi occidentali (ad eccezione di Giappone e Germania). Peraltro, si sono prodotte una serie di nuove asimmetrie, anche sul piano strettamente economico, per cui, a paesi che devono la loro ascesa economica al particolare ruolo manifatturiero (come Cina, Turchia, Corea del Sud ed, in parte India e Messico) ne corrispondono altri (soprattutto Brasile, Russia, Venezuela, paesi arabi, Iran e, parzialmente Sud Africa) che si sono caratterizzati come paesi esportatori di materie prime, ma nei quali c’è stato uno sviluppo industriale molto modesto o nullo. Per di più, negli ultimi anni, la crescita economica del blocco dei paesi emergenti (soprattutto i Bric) si è intrecciata con una crisi economico-finanziaria senza precedenti, in prospettiva peggiore di quella del 1929;

b. alcune linee di frattura si sono colmate (ad esempio sembra esserci un allineamento delle tendenze demografica, in particolare in riferimento al tasso di fertilità COURBAGE-TODD 2009), ma nello stesso tempo se ne sono aperte di nuove (ad esempio la frammentazione del quadro sociale prodotta dall’immigrazione e dalla scarsa capacità –o volontà- di integrazione espressa sin qui dalle società ospitanti);

c. il deperimento degli stati nazionali si è in buona parte verificato, ma non è stato affatto  omogeneo e, se il processo di delega di parti di sovranità a soggetti sovranazionali è stato massimo in Europa, al contrario in contesti come quello cinese non si è registrato alcun deperimento ma, semmai, un rafforzamento. Peraltro, al declino di sovranità degli stati nazionali non ha corrisposto un parallelo sviluppo degli organi di governance mondiale e all’ordine  westalico non si è sostituito nessun nuovo ordine mondiale. Anche il progetto monopolare americano è uscito gravemente scosso dalle guerre dell’Afghanistan e dell’Iraq prima, e dalla crisi finanziaria dopo. Peraltro la contemporanea ascesa della Cina, molto più rapida del previsto, il riarmo russo e il meno osservato sviluppo militare indiano, hanno determinato la crisi di questa prospettiva e la situazione appare aperta a diversi possibili sbocchi, dalla riproposizione del modello monopolare, alla prospettiva di un mondo acentrico e caotico. Di fatto, all’unificazione  dei mercati finanziari e delle reti di telecomunicazione non  ha corrisposto una analoga unificazione politica del Mondo, anzi, al contrario, si registra un regresso da questo punto di vista (COLOMBO  2010 pp. 290 e segg). Quanto alla diminuzione delle spese militari è inutile dire che non solo essa non c’è stata, ma che ha subito un incremento senza precedenti e la produzione di sistemi d’arma rappresenta ormai il principale nucleo del residuo sistema industriale negli Usa.

d. I nuovi media hanno certamente favorito lo scambio culturale ed, in particolare, l’esportazione di prodotti culturali occidentali, ma a questo ha corrisposto spesso una resistenza culturale che ha assunto la forma del fondamentalismo (e, peraltro, anche in Occidente abbiamo assistito all’emergere di fenomeni di segno fondamentalista a cominciare dall’identitarismo xenofobo di molti movimenti europei e nord americani a finire al neo-liberismo che, pur sorto sul terreno delle teorie economiche, mostra spesso gli accenti di fanatismo religioso propri di ogni fondamentalismo). Peraltro, l’emergere del fondamentalismo va messo in relazione con l’imprevista reviviscenza religiosa che, in contesti come quelli dei paesi islamici, va in senso diametralmente opposto a quei processi di secolarizzazione che la modernizzazione avrebbe dovuto portare con sé (KEPEL 2006; MILTON-EDWARDS 2010; SPATARO 2001)

e. Il processo di espansione del modello economico liberista proprio dei paesi occidentali (ed americano in particolare) si è effettivamente verificato ma, ad esso, non ha corrisposto quella trasformazione sociale che il processo di modernizzazione avrebbe dovuto comportare; anzi, se in contesti, come quello indiano, si è determinata una imprevedibile contaminazione fra sviluppo economico e persistenza della tradizionale divisione sociale in caste (BASU 2008, SANYAL 2010), nelle società occidentali si è prodotta una polarizzazione della ricchezza senza precedenti in epoca moderna e che scuote il presupposto che la modernità comporti un maggiore equilibrio distributivo;

3- Dunque, le “promesse” della globalizzazione, almeno per ora, hanno ricevuto più smentite che conferme. Naturalmente si può sempre sostenere che siamo solo agli inizi del processo, per cui esso ha comportato delle reazioni scontate che andranno scemando nel tempo, per dare luogo a sistemi sociali e politici conformi a quella idea di modernità che è propria dell’esperienza euro-americana (è sempre possibile fare un atto di fede nel futuro). Ma è sul terreno della democrazia che i processi stanno andando in senso molto diverso da quello che le teorie sulla modernizzazione avrebbero fatto pensare, al punto da mettere in causa il presupposto iniziale per cui la globalizzazione avrebbe provocato una generale affermazione del modello liberal democratico. E’ certamente vero che a cavallo fra gli anni ottanta ed i primissimi novanta (quindi nella fase preparatoria della globalizzazione) si è registrata una nuova ondata di costituzionalismo liberal democratico nei paesi dell’Est Europa, in America Latina, Sudafrica, Filippine e, molto parzialmente, in Corea del Sud, Taiwan ed Indonesia, ma è difficile sostenere che essa sia stata il prodotto della globalizzazione, semmai essa è stata una premessa della globalizzazione. Al contrario, dopo l’inizio della globalizzazione l’unico processo tendenzialmente democratico ad essersi aperto è stata la “primavera araba” e non senza contraddizioni: di fatto, almeno per ora, le tendenze vincenti sembrano essere piuttosto quelle del fondamentalismo islamico e militari piuttosto che quelle democratiche.

Anche sul processo di democratizzazione dell’ex Urss ci sarebbe molto da dire, ma dove lo sviluppo democratico sta segnando energici passi indietro, è proprio in Occidente. In parte, questo processo di arretramento della democrazia e dello stato di diritto trova la sua spiegazione nell’emergenzialismo sicuritario seguito all’attentato dell’11 settembre 2001 (si pensi al Patriot Act, ancora in vigore, che rappresenta un regresso secco rispetto all’Habeas Corpus: il maggiore vulnus mai inferto ai principio del garantismo penale in una democrazia liberale). Ma questo sarebbe un elemento accidentale e (forse) provvisorio, mentre noi ci troviamo di fronte ad una crisi strutturale della democrazia rappresentativa attraverso processi quali:

a- la subordinazione della sfera politica a quella economica e di quella economica a quella finanziaria, che pone al vertice della piramide decisionale una ristrettissima oligarchia finanziaria, ovviamente non investita di alcun mandato popolare;

b- la cessione di parti di sovranità statale ad un insieme di organismi sovranazionali di carattere tecnocratico, privi di qualsiasi legittimazione democratica;

c- la sottrazione di enormi masse di denaro alla sovranità fiscale degli stati, attraverso la libertà di spostamento dei capitali verso i paradisi fiscali; quel che fa ricadere il peso della contribuzione solo sulle spalle delle classi medie e subalterne;

d- la formazione di differenziali di reddito e di patrimonio senza alcun precedente storico che si traduce in una profonda alterazione di qualsivoglia dialettica democratica;

e- La produzione di norme sempre più di carattere privatistico e contrattuale al punto che autorevoli giuristi parlano di una nuova lex mercatoria (CASSESE 2009, GALGANO 2001, TEUBNER 2005); questo comporta peraltro una produzione di diritto sempre più per via giurisprudenziale che per via legislativa (ZACCARIA 2012 pp. 29-60) quel che comporta un riequilibrio fra i poteri costituzionali dello Stato a tutto sfavore del Parlamento rispetto alla Giurisdizione.

Queste tendenze non sono né accidentali né provvisorie ma consustanziali all’ordine neo liberista ed, a questo proposito, non possiamo non citare due fonti del tutto insospettabili di pregiudizi antioccidentali o anticapitalistici come Edward Luttwak (1998) ed, ancor più, George Soros ( 1999 e 2012). Sembra ormai che siamo di fronte ad alterazioni definitive del modello di democrazia rappresentativa, per cui c’è, ormai, una letteratura che si interroga sul se ormai non ci troviamo in un regime post democratico (CROUCH 2003, DE KERCKHOVE-TURSI 2006).

4- Questa evoluzione imprevista del processo di globalizzazione ci obbliga a chiederci perché non si stiano riproducendo quei processi per cui ad un certo sviluppo economico non corrispondano i processi sociali, politici e culturali che hanno caratterizzato l’esperienza europea prima e nord americana dopo. Ma questo porta a chiedersi quanto e in che misura il modello euro-americano sia esportabile e, di conseguenza, quanto le teorie sulla modernizzazione generalizzassero indebitamente l’esperienza europea. E questo, a sua volta, investe la stessa idea di modernità su cui l’Occidente ha basato la sua identità storica.

L’esito è tale da imporci tre domande ineludibili:

a. in cosa consiste la modernità?

b. in che rapporto sono, fra loro, le varie componenti della modernità?

c. sino a che punto la modernità, così come essa si è realizzata in Europa prima e nel Nord America dopo, è un valore universale e, pertanto, la sua esperienza è riproducibile?

Pertanto, ad essere in causa non è solo il progetto neoliberista o le teorie della modernizzazione che lo hanno prodotto, ma la stessa idea di modernità.

5- L’esperienza della rottura della tradizione e del passaggio alla modernità si è consumata in Europa in un arco di tempo che va dal XV al XVIII secolo, 400 anni che vanno dal Rinascimento alla rivoluzione francese (periodo grosso modo coincidente con quello che denominiamo come Evo Moderno, cui è seguita la contemporaneità dei secoli XIX e XX).

Quattro secoli sono un periodo assai breve se considerati sul piano storico, pertanto, si è trattato di una serie di processi molto ravvicinati nel tempo, che presentano una particolare compattezza. La riflessione che inizia con i classici (Marx, Durkheim, Weber, Polanyi ecc) iniziò subito a studiare la società moderna come caratterizzata da una molteplicità di fenomeni sociali; la successiva riflessione, in particolare della sociologia americana (a cominciare da Talcott Parsons) e di politologi europei (come Stein Rokkan) iniziò a porsi il problema di una definizione complessiva della modernità e del suo processo di formazione (modernizzazione).

Pertanto, la modernizzazione è stata intesa come un insieme di fenomeni interdipendenti (sviluppo scientifico-tecnologico; controllo dell’ambiente naturale e dell’incremento demografico; industrializzazione; mercato capitalistico; specializzazione funzionale delle sfere di vita sociale; trasformazione delle classi e mobilità sociale; formazione di stati nazionali; mobilitazione politica; secolarizzazione; affermazione dei valori di individualismo, razionalismo, utilitarismo; mobilità territoriale ed urbanizzazione intensiva;  privatizzazione della vita familiare; crescita dell’istruzione e cultura di massa; sviluppo della comunicazione;  compressione di tempo e spazio in funzione delle esigenze della produzione industriale MARTINELLI 2010 pp. 11-12).

In realtà, questo schema corrisponde più ad un idealtipo che a qualche preciso caso storico: nessun caso particolare presenta tutti i fenomeni indicati e, soprattutto, essi non si sono presentati, di volta in volta, secondo una particolare sequenza, ma in modo difforme da caso a caso. Nel complesso, questo tipo di descrizione si attaglia abbastanza bene ai paesi della prima ondata di modernità (Olanda, Francia, Inghilterra, paesi scandinavi, Stati Uniti) anche se neppure in questi casi si osserva una completa aderenza al modello descritto.

Al contrario esso si adatta molto poco ai paesi giunti alla modernità con la “seconda ondata” (Giappone, Germania, Italia, Russia) che presenta un andamento per più versi divergente e, per questo, indicati come “finta modernità” o “modernizzazioni imperfette” (STOMPKA in MARTINELLI 2010 p. 17).

E meno che mai questo modello risulta corrispondente ai processi in atto nei paesi della “terza ondata” (soprattutto India, Cina, Indonesia, Corea, paesi islamici) per le ragioni sopra descritte e per i quali ci si rifugia nella definizione di “modernizzazioni multiple” (sul punto vedi “MARTINELLI 2010 pp.160) che, tutto sommato, descrive più che spiegare. Pertanto è lecito chiedersi se abbia senso pensare di stabilire un canone della modernità rispetto al quale misurare il grado di aderenza al modello dei singoli casi. E, conseguentemente resta da sciogliere il nodo di capire cosa sia decisivo per parlare di modernità.

6- E per comprendere in cosa consista la modernità, conviene partire dalla trama intellettuale in cui esso è inserito. Il concetto di modernità, infatti, non è separabile dalla scansione temporale elaborata dalla storiografia europea dal settecento in poi, che distingue fra un evo antico, una età di mezzo ed un evo moderno (di cui la contemporaneità è solo l’ultima parte). Parallelamente, Marx aveva individuato un modo di produzione schiavistico (che corrisponde all’antichità), cui è seguito quello feudale (medio evo) e quindi il capitalismo (evo moderno). Questa periodizzazione è pensata esclusivamente in funzione europea e, come osserva Goody (2008) essa registra la proiezione dell’Europa nel mondo e la modernità è il periodo in cui si afferma la supremazia europea a livello mondiale. Spesso, tuttavia, si presenta questa scansione delle successive ere come universalmente valida e, dunque, base per una storia mondiale. Ma non è necessario un esame comparativo particolarmente accurato per rendersi conto della scarsa significatività di questa periodizzazione se applicata a contesti extra europei. Pe le Americhe e l’Oceania, dato lo sterminio delle popolazioni native e l’assorbimento dei sopravvissuti nella comunità dei colonizzatori, il problema non si pone o si pone in termini di studio di civiltà morte come quelle  precolombiane o precookiane. Per l’Africa sub sahariana il problema è reso più complesso dalla presenza di aggregati che non hanno avuto scrittura sino ad epoca recentissima e, peraltro, vi si sovrappongono le successive ondate di colonizzazione europea (senza considerare il caso particolarissimo dell’Etiopia, unico paese cristiano dell’area ma che non ha mai subito colonizzazione europea salvo la brevissima e non significativa occupazione italiana). Il problema si pone essenzialmente con le civiltà asiatiche (cinese, indiana e giapponese in particolare) ed islamica. Per le prime occorre tener presente che si tratta di civiltà originarie spesso più antiche di quelle europee (in particolare Cina ed India) e/o che non hanno mai subito colonizzazione europea (Cina, Giappone). Per le seconde occorre considerare che hanno avuto uno sviluppo indipendente da quello europeo e che hanno subito la colonizzazione europea solo per un periodo relativamente breve e dove, semmai, è significativa la lunga dominazione ottomana.

7- Nel contesto di questa discussione non è possibile fare altro che qualche cenno al caso che si presta meglio alla nostra riflessione, la Cina: un grande paese di civiltà millenaria, precedente a quella europea, mai colonizzato (salvo brevi periodi lungo la costa) ed avente qualità specifiche (di lingua, di logica e di religione) irriducibili ad ogni altra civiltà e polarmente opposte a quelle delle civiltà europee. Infatti, dove le lingue europee sono di tipo fonetico, il cinese è (prevalentemente) ideografico (ABBIATI 1992; LAVAGNINO 2006, p. 5-6); dove la logica europea, basata sul logos e sul principio di non contraddizione, ha carattere sequenziale, la logica cinese è basata sul tao ed è di tipo sfumato, ammette soluzioni intermedie fra “Vero/non vero” del tipo “forse”, “in parte” (JULLIEN 2011); dove le religioni europee (cristianesimo/ebraismo) sono monoteiste, personali ed esclusive (nel senso che ciascuna esclude la compatibilità con ogni altra), l’insieme delle religioni cinesi (taoista, confuciana, buddista) sono politeiste e tendono a  coesistere in modo sincretico (CHENG 2000, in part. pp. 519-54; PUECH 1978 pp. 139-97). Per questo insieme di ragioni, la Cina, meglio di ogni altro caso, rappresenta quel “polarmente opposto” che si presta ai nostri scopi comparativi.

8- Osserviamo in primo luogo che lo schema delle tre età (antica, medievale, moderna) risulta per più versi inapplicabile alla Cina, anche nella versione marxista della successione schiavismo-feudalesimo-capitalismo (così come tentò di fare a suo tempo la scuola storiografica marxista di Hou Wailu, Zhao Jibin e Du Guoxiang nella sua monumentale storia del pensiero cinese risalente al 1957). Applicando questo schema, la risultante è: una età antica-schiavismo che va dalla comparsa della scrittura (dinastia Shang 1.600 aC) alla fine della dinastia Qin (206 aC), seguito da un immenso medio evo-feudalesimo che si stende per ben 20 secoli, (sino alla caduta dell’Impero nel 1912) e, quindi, ad una modernità capitalistica che prende le mosse solo nei primi del secolo scorso: quel che suggerisce l’immagine falsissima di una società cinese sostanzialmente stagnante per 20 secoli. Peraltro, neppure l’abbinamento società antica-schiavismo e quello medio evo-feudalesimo si adatta bene al caso cinese nel quale occorre considerare il costante ruolo dell’autorità centrale nei lavori di arginamento fluviale che portò Karl WITTFOGEL (1968)  a teorizzare un originale modo di produzione definito “società idrauliche” che spiegherebbe le origini del “dispotismo orientale”. Le conclusioni cui giunge  Wittfogel sono discutibili e discusse ma non c’è dubbio che occorra tener conto di questa particolarità che rende poco persuasive le definizioni di schiavismo e feudalesimo come semplice trasposizione di concetti della tradizione intellettuale europea al caso cinese.

9- D’altro canto, la stessa individuazione delle singole ere e dei criteri con cui definire le date periodizzanti a quo ed ad quem, a partire da quella dell’antichità, sono state sottoposte  a critica da parte della ricerca storico-antropologica più recente e un primo punto da osservare riguarda il passaggio dalla preistoria alla storia antica. Scrive Goody (2008 p. 38):

<<l’antichità “classica”, rappresenta secondo una parte degli studiosi l’inizio di un nuovo mondo (fondamentalmente europeo) e si incastra perfettamente in una concatenzazione storica all’insegna del progresso. L’operazione ha richiesto innanzitutto di distinguere radicalmente l’antichità classica dai periodi che l’avevano preceduta nell’età del bronzo e che avevano caratterizzato un certo numero di società in prevalenza asiatiche>>

In effetti, ben maggiore rilievo che nel caso europeo ha avuto in Cina il periodo definito da  Roberts “protostoria”, che ha origine dalla dinastia Xia (2.200 aC) della quale gli scavi di Erlitou documentano le opere di arginamento fluviale e palazzi di notevoli dimensioni, che fanno pensare a capacità ingegneristiche non primitive (ROBERTS 2007 pp. 19-20). Ed anche il passaggio dell’antichità presenta caratteri in larga parte dissimili da quelli della storia europea: la successiva dinastia Shang (1.600- 1046 aC periodo durante il quale si formò il sistema di scrittura), si caratterizzò come sistema teocratico, ma già la successiva dinastia Zhou (1.046-256 a C) introdusse il ben più sfumato concetto di “mandato divino” che rappresenta un primo allontanamento dalla concezione tutta religiosa del potere caratterizzando l’autorità imperiale sì investita di una mandato celeste, ma che esercita il suo potere al di fuori di procedure teocratiche, come mero potere civile. E’ in questo periodo che la civiltà cinese acquista i suoi tratti distintivi grazie all’opera di Laozi (fondatore del taoismo), ma soprattutto di Confucio -e del suo erede intellettuale Mencio (VI-IV secolo aC)- che definisce una idea di religione non-teologica assolutamente unica: quando un allievo chiese al Maestro notizie sugli dei e sul loro mondo, si sentì rispondere che l’uomo sa così poco del suo mondo che non ha senso interrogarsi su quello degli dei. Al centro del pensiero di Confucio c’è l’Uomo non gli dei dai quali l’uomo non deve attendersi miracoli, dovendo provvedere da solo ai suoi bisogni. Agli dei è dovuto solo il tributo rituale, ma per il resto la storia degli uomini è opera degli uomini e della natura (come si intende dalla lettura di “Primavere ed Autunni” convenzionalmente attribuito a Confucio). Dunque, una visione del Mondo già abbastanza disincantata: se la scrittura mantiene il segno magico del Wen, l’ordine sociale si proietta in una visione a metà fra il naturalistico e l’umano che riducono ai margini la sfera religiosa:

<< Dopo che nel IX secolo furono sequestrate ingenti proprietà buddiste, non esisteva nè una gerarchia  né una dottrina ecclesiastica tanto forte da opporsi  al potere burocratico, o quantomeno da controbilanciarlo. Un’ampia varietà religiosa continuò ad essere  tollerata: buddismo, taoismo, islamismo…L’ideologia ufficiale era essenzialmente secolare –una serie di prescrizioni pragmatiche di comportamento in questo mondo, un disinteresse confuciano per i problemi dell’immortalità, dell’anima, della vita ultraterrena o di Dio…Scarsa importanza era attribuita alla libertà o alla redenzione individuali. Non esisteva un vero e proprio clero.>> (MADDISON 2006 p. 19)

E si comprende come in un simile contesto risulta scarsamente traducibile e ancor meno utile il concetto di “secolarizzazione” che, vice versa, ha avuto un ruolo storico di primaria importanza: Confucio ha sostanzialmente secolarizzato la Cina circa venti secoli prima.

10- Ma il problema della traducibilità culturale di alcune categorie fondamentali del pensiero della modernità europea non riguarda solo il concetto della secolarizzazione. Anche i termini mercato, capitalismo, stato, nazione, impero non “suonano” allo stesso modo in Europa ed in Cina. Ci sono continui avvicinamenti ed allontanamenti, somiglianze ed opposizioni, ma soprattutto i fenomeni e le idee si presentano in una successione storica del tutto diversa. Uno storico della dinastia Han (202 aC 220 dC) scrive un brano in cui parla dell’opportunità che ci siano contadini che coltivino la terra, minatori che ne estraggano le risorse, artigiani che le trasformino in oggetti e mercanti che facciano circolare il tutto, dice di come le merci troveranno collocazione sui mercati con naturalezza e senza che nessuno le abbia chieste prima, come “l’acqua che scende dai monti” (MUSU 2011 p. 26), una pagina che richiama molto da vicino la teoria della “mano invisibile” di cui parlerà Smith 16 secoli dopo e che sembrano echeggiare le teorie durkhieimiane sulla divisione sociale del lavoro. Si tratta in parte di suggestioni –lo ammetto- che non conviene spingere troppo oltre, ma certe assonanze avvertono sul fatto che alcune idee non sono esclusive della storia culturale europea (per lo meno non in toto) e che in Cina si sono presentate già durante quell’infinito “medio evo feudale” di cui si favoleggia.

D’altra parte, proprio durante quel “feudalesimo” l’economia cinese conobbe uno sviluppo mercantile che l’Europa conoscerà solo nel basso Medio Evo e non in quelle dimensioni. Come testimonia la stessa “invenzione” della carta-moneta di cui dirà Marco Polo al ritorno dal suo viaggio nel XIV secolo, mentre l’Europa scoprirà la banconota solo cinque secoli più tardi. Tutto questo porta la scuola di Kyoto di Naito Konan e Miyazaki Ichisada ad ipotizzare una età proto moderna dell’estremo oriente (sia Cina che Giappone WAGNG HUI  2009 p.40-3) durante la quale si sarebbero sviluppati “germogli di capitalismo”, a cavallo fra il XIV ed il XV secolo. In effetti, nel XIV secolo culminò una svolta capitale per la storia economica cinese iniziata lentamente sin dall’VIII secolo: la base agricola si spostò definitivamente dalle regioni settentrionali a quelle centro meridionali, in conseguenza del passaggio dalla prevalente cultura a frumento a quella a riso (MADDISON 2006 p. 5). Inoltre questo è un periodo di notevole vitalità della cultura cinese dal punto di vista tecnologico. In effetti, Mokyr (1995 pp. 291 e segg.) documenta il primato tecnologico della Cina sull’Europa sino al XV secolo: all’epoca, i cinesi conoscevano il compasso, la carta, la polvere da sparo, la stampa a caratteri mobili, i rastrelli per sarchiatura e l’erpice a denti lunghi, gli altoforni che permettevano di produrre acciaio, l’orologio ad acqua, avevano giunche in grado di tenere la navigazione oceanica d’altura con vele che consentivano la manovra controvento. C’è chi sostiene che la Cina fosse ad un passo dalla rivoluzione industriale, giudizio che Mokyr ritiene eccessivo, ma non del tutto infondato.

Però, nessuna di quelle scoperte venne sfruttata come lo sarebbe stato in Europa e ci limitiamo a due solo esempi: la polvere da sparo, di cui i cinesi non fecero uso bellico se non molto tempo  dopo aver scoperto la pericolosità dei moschetti portoghesi nel XVII secolo e, soprattutto la stampa a caratteri mobili che in Europa causò una grande rivoluzione scientifica -perché consentì consentendo di superare la fase dell’approssimazione per entrare nella fase della precisione scientifica- e che in Cina ebbe effetti assai più modesti, probabilmente a causa del carattere ideografico della lingua che non ne favoriva la diffusione.  Dunque, non solo la rivoluzione industriale non vi fu, ma, al contrario, iniziò un periodo di forte decadenza economica, culturale e, di conseguenza anche politico-militare  della Cina che portò al “secolo dell’umiliazione” (l’Ottocento). Durante questo periodo non solo non vi fu sviluppo, ma molte tecniche vennero abbandonate e caddero in oblio, in particolare, i cantieri navali vennero chiusi e le giunche a tre alberi vennero dimenticate, la Cina entrò in una fase di estrema chiusura rispetto al mondo esterno.

11- Di questa decadenza vennero tentate diverse spiegazioni, dal carattere ipo-proteico della dieta (accentuato dal passaggio dal frumento al riso) al carattere troppo introspettivo del pensiero cinese, poco incline a modificare l’ambiente naturale, o al carattere imperiale del sistema politico cinese che evitava la concorrenza fra stati nazione che in Europa avrebbe favorito l’iniziativa privata e  lo sviluppo tecnologico (MOKYR 1995 p. 312-28). La prevalenza degli storici (Needham primo fra tutti) puntarono il dito sulla mancanza di pluralismo in Cina e sul ruolo negativo della burocrazia imperiale. Tuttavia, va ricordato come, in epoche precedenti, quella stessa burocrazia (scelta con il metodo degli esami meritocratici sin dal IX secolo, in anticipo di mille anni sull’Europa che adotterà questo tipo di selezione solo a partire dall’impero napoleonico) aveva avuto un ruolo tutt’altro che negativo dal punto di vista dello sviluppo economico, in particolare per quanto attiene alla diffusione della cultura agronomica e dalle opere pubbliche di controllo delle acque. Più circostanziatamente, ci sono storici che (come quelli della scuola di Kyoto) che attribuiscono questa responsabilità alla singola dinastia Quing (1644-1912) che, era di origine mancese e, pertanto estranea alla tradizione Han, anche se il nazionalismo Han (preoccupato di custodire l’idea di una continuità storico-giuridica dello Stato cinese nei secoli) ha sempre cercato di sostenere una sua rapida assimilazione nella tradizionale cultura cinese. Ma, a questo proposito, osserva Luttwak

<<..i Qing  …(erano) Jurchen, nomadi guerrieri…di lingua tungusa… che nel 1635 coniarono il nuovo etonimo di Manciù (“forte, grande”) …. Fino alla fine, i dominatori  manciù conservarono la loro distinta identità etnica, incluse lingua  e scrittura, la quale derivava dall’alfabeto aramaico; se ne possono ancora vedere gli esempi intorno a Pechino, nei cartelli Quing affissi sugli edifici storici>> (LUTTWAK 2012 p. 86-8)

Se la scuola di Kyoto ipotizza un incipiente capitalismo sorto in epoca Ming, una riflessione più articolata è svolta da Wang Hui:

<<Nelle narrazioni del capitalismo Ming e Qing ,l’arresto del processo capitalistico o della modernità dei Ming viene ricondotto all’invasione mancese e alla fondazione dell’ultima dinastia Quing; nella narrazione weberiana invece, l’impero unificato dai Quin e poi dagli Han blocca il “razionalismo politico” fondato sulla competizione fra i diversi regni (concepiti come una forma politica affine alle monarchie europee ok allo Stato-Nazione). E’ evidente come tutte queste narrazioni si basino su una concezione della modernità che coincide con l’urbanizzazione, l’industrializzazione e l’avvento di una nuova etica distante dall’ortodossia confuciana. Esse, pur in modo diverso e con diverse prospettive, considerano l’Impero unificato, fondato sul settore agricolo e su un assetto feudale, come l’antitesi della modernità… Secondo i criteri impliciti nelle ricerche della scuola di Kyoto, il “capitalismo” Song e Ming si sviluppò in concomitanza alle strutture politico-economiche delle monolitiche dinastie di etnia Han, mentre al contrario nell’orizzonte razionalista weberiano l’Impero agisce sempre e comunque in senso oppressivo ed inibitorio del moderno.>>  (WANG HUI  2009 p. 47)

E questo porta Wang Hui ad ipotizzare una “modernità cinese” basata su concetti di Impero e di Nazione non coincidenti con quelli europei.

12- Nei limiti di queste brevi note non è possibile far altro che dare una idea assai superficiale dei complessi problemi che derivano dalla comparazione fra la storia europea e quella cinese, ma già da queste pochi ed incompletissimi cenni è possibile ricavare alcune evidenze principali:

a. a differenza della storia della modernizzazione europea, che si concentra in pochi secoli, la storia cinese ci appare assai più diluita nel tempo, segnata dall’alternarsi continuo fra unificazione imperiale e frammentazione territoriale, fra momenti di intensa crescita culturale e momenti di caduta, fra fasi di sviluppo economico e tecnologico e fasi di stagnazione o di regresso;

b. di conseguenza osserviamo che molte delle componenti del processo di modernizzazione  (così come identificate dalle teorie sociologiche a cavallo fra gli anni quaranta ed i settanta) si presentano nella storia cinese in momenti assi diversi e scoordinate fra loro: secolarizzazione, formazione di uno stato unificato, comparsa di un mercato, urbanizzazione, formazione di una burocrazia scelta meritocraticamente, divisione sociale del lavoro, ecc. si presentano in fasi storiche non sempre coincidenti e spesso distanti fra loro; alcune di queste si sedimentano e permangono nella cultura cinese (ad esempio il carattere “secolare” del confucianesimo) altre possono stagnare a lungo o anche regredire fortemente (come lo sviluppo tecnologico del XV secolo). Altre ancora, come il valore dell’individualismo e la connessa libertà individuale, possono non comparire affatto o comparire in forma assai attenuata, anche in epoca recentissima. E questo fa sorgere il sospetto della non necessaria interdipendenza fra un processo e l’altro così come teorizzato dai citati modelli interpretativi, soprattutto di scuola struttural-funzionalista.

c. Il caso cinese mostra anche come anche lo sviluppo economico non sia irreversibile e questo scuote molte certezze di quei paradigmi sull’inevitabilità del processo di sviluppo una volta innescato.

d. Infine, il caso cinese mostra quanto sia inappropriata l’applicazione di concetti euro-americani (Mercato, Capitalismo, Stato, Nazione, ecc.) senza una preliminare opera di “traduzione culturale” da un contesto storico-culturale all’altro.

13- Ad uscire fortemente in discussione dal confronto è anche la tradizionale partizione in evo antico, medio e moderno caro alla storiografia europea che non appare per nulla convincente in riferimento al caso cinese. Ma, senza quella cornice concettuale, la modernità perde molto del suo significato, anche perché, nel frattempo, è entrato in crisi il correlato concetto di progresso. E’ sempre Goody (2008 p. 36) che avverte:

<< Uno degli assunti di fondo di molta storiografia occidentale è che nell’organizzazione delle società umane la freccia del tempo coincida con un equivalente incremento di valore e di desiderabilità, cioè con il progresso>>

Ci sono molte ragioni, oggi, per dubitare di questa coincidenza fra la freccia del tempo e “magnifiche sorti e progressive” dell’Umanità e basti pensare all’emergenza ambientale, all’esplosione demografica, al regresso dei processi di razionalità politica che è possibile osservare ecc. La stessa idea ci conflitto generalizzato, che appariva, sino a una decina di anni fa, come al di fuori del tempo politicamente prevedibile, è silenziosamente rientrata nel dibattito politico come una eventualità improbabile ma non impossibile.

Non è affatto detto che ci si debba rassegnare all’idea di una caduta di civiltà prossima ventura o che si debba rinunciare alle conquiste degli ultimi tre secoli, ma questo esige innanzitutto un atteggiamento più laico che accetti di individuare il problema lì dove sino a ieri si vedeva la soluzione. Il progetto di globalizzazione è stata una lettera che l’Occidente ha mandato al resto del Mondo, individuato come “Occidente imperfetto” o in ritardo. Quella lettera è stata respinta al mittente e ci obbliga ad un ripensamento profondo non solo di quel progetto ma delle teorie su cui esso si fondava e della stessa idea di modernità che era alla base. Ovviamente, sarebbe assurdo negare la modernità e la rottura con la tradizione, ma la modernità va ripensata e liberata dalla sua originaria impostazione storicista o dai molti residui che ancora sopravvivono. Occorre ripensare lo sviluppo storico come tempo lineare, ma non più come su un’unica retta proiettata all’infinito, bensì come sviluppo multilineare e fratto.

Anche le scienze sociali non sono riuscite ad emanciparsi del tutto dall’origine storicista del dibattito sulla modernità e superarne  limiti e certezze infondate che hanno in gran parte conservato, aggiungendone di propri:

a. il carattere marcatamente  etnocentrico (prima euro centrico poi Occidento-centrico) per cui si è arbitrariamente fissato un canone solo sull’esperienza europea prima e nord americana dopo. Non sono mancati tentativi  di comparazione più ampia come quelli della  sociologia storica di Bendix (che, però, considera solo il Giappone fra i casi non europei) e Barrington Moore (che allarga il campo a Cina Giappone ed India) o di Gino Germani che tenta un’analisi dei casi latino-americani; ma, nel complesso si è trattato di tentativi poco seguiti e pur sempre con un’ottica che privilegia l’Europa, quantomeno quanto ad applicazione di categorie di derivazione europea ai casi asiatici.

b. Il marcato determinismo dei modelli che tiene scarsamente in conto sia le variabili dipendenti dal comportamento umano che (giova ricordarlo) è libero e perciò stesso non del tutto prevedibile, sia della componente casuale, per cui non è solo importante un singolo fenomeno in sé (l’urbanizzazione, l’industrializzazione ecc.) ma il momento in cui si manifesta e le combinazioni che si determinano fra due o più variabili considerate;

c. La propensione meccanicista per cui la spiegazione tentata spesso si risolve in un “post hoc, propter hoc” ma la storia insegna che spesso si tratta di un argomento ingannevole;

d. Un marcato schematismo che cerca di mettere nella scatola troppe cose diverse fra loro e, talvolta non disinteressatamente:  la stretta assimilazione di capitalismo e democrazia (per cui quelle non capitalistiche e/o non democratiche sarebbero “modernizzazioni finte) è una operazione scopertamente ideologica tendente a presentare un certo modello politico-sociale come un “pacco-dono” non scomponibile per cui chi vuole lo sviluppo tecnologico e la democrazia deve accettare anche il capitalismo e se poi accade che il capitalismo non si accompagna ad un regime democratico vuol dire che si tratta di una modernizzazione imperfetta e si tratta solo di attendere che il processo si completi.

Queste teorie sottintendono che i paesi più sviluppati offrono essenzialmente un modello a quelli più arretrati (lo stesso Marx diceva che “i paesi più avanzati danno a quelli più arretrati l’immagine del loro futuro”); in realtà, questo non solo non fa i conti con il contesto culturale di partenza dei singoli paesi e non comprende che lo sviluppo è un processo mondiale che avanza per “salti” producendo costantemente commistioni fra tradizione e modernità sempre diverse fra loro, ma non considera le resistenze opposte dai paesi più avanzati a quelli che si affacciano successivamente sulla scena dello sviluppo economico (sostanzialmente questo è un tema considerato solo dai teorici della dependencia che trova scarsa eco nelle altre scuole di pensiero socio economico). E, pertanto, ripensare la teoria della modernità riesce meglio considerando categorie come quelle di “sviluppo ineguale e combinato” (che trova punti di contatto con l’idea di sistema Mondo di Wallerstein) e quella di “sviluppo economico tardivo”.

D’altro canto, fallita l’idea di una rapida omologazione culturale di tutto il mondo all’Occidente, non si può tornare indietro dalla globalizzazione e, pertanto, ci si può sottrarre al compito di un confronto con le altre tradizioni culturali, quel che presuppone una disponibilità a ridiscutere anche le certezze su cui si è fondata sinora la nostra identità culturale e le teorie ultime che ne sono derivate. Tuttavia, quelle teorie sulla modernizzazione (e prima di esse la riflessione dei classici sulla modernità) hanno segnato una acquisizione dalla quale non è lecito tornare indietro: la storia senza teoria non spiega nulla e si riduce ad un inutilissimo racconto. Dunque, il ripensamento della modernità è oggi il banco di prova su cui sono chiamate a misurarsi le scienze storico-sociali dei prossimi anni. E credo sia importante che i ventenni di oggi assumano la coscienza di quali sono i compiti culturali che la loro generazione ha davanti.

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AVVERTENZA:

Per chi colesse approfondire lo sviluppo delle teorie della modernizzazione esposte nel libro del prof. Alberto Martinelli, dello stesso autore, consiglio di leggere anche: “Economia e società. Marx, Weber, Shumpeter, Polanyi, Parsons e Smelser” edizioni di Comunità, Milano 1996.

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Aldo Giannuli

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Comments (6)

  • Carissimo Aldo, sei arrivato anche tu attraverso il piano inclinato della razionalità e dell’onestà intellettuale (entrambe non ti mancano)dove per vie più intuitive erano arrivati già negli anni ’80 Costanzo Preve, Massimo Fini, De Benoist, Latouche, e con toni un po’ nostalgico sentimentalistici anche il Buon Franco Cassano. Splendidi appunti, cristallini ed essenziali. I tuoi studenti hanno avuto fortuna a incontrarti.
    Un abbraccio
    Carlo

  • Carlo Ghiringhelli

    Gent.mo professore, Kissinger, a proposito dei comunisti cinesi, diceva che essi sono prima di tutto cinesi e poi comunisti. Sì, sì,infatti per la civiltà cinese l’individualismo -che non va confuso con l’egoismo- non è un valore! Al contrario, della civiltà europea, dal senso socratico della coscienza al nostro Rinascimento esso rappresenta un valore fondante.
    Orbene il problema politico, etico, sociale, filosofico dei nostri giorni è quello di rifiutare il tipo di individualità che ci è stato imposto dallo Stato moderno per tanti secoli, come hanno mostrato gli studi di M.Foucault sul potere pastorale (quale tecnica di governo che funziona secondo una così abile combinazione di tecnica di individualizzazione e di procedure di totalizzazione che lo Stato moderno ha eredidato dal cristianesimo ed integrato in una nuova forma politica). Storicamente si può essere cittadino alla condizione di diventare un certo tipo di uomo…
    P.S.Un’avvertenza metodologica: per Sombart “senza teoria niente storia” poichè la storia viene sempre interpretata in riferimento alle cause introdotte dallo storico secondo un suo punto di vista centrale -ovverosia una teoria-, altrimenti ci resterebbe solo una cronologia.
    Grazie della Sua attenzione.

  • Francesco Acanfora

    Avevo letto qualcosa di simile su Preve, che offre degli spunti convincenti, ma mi lascia come bloccato di fronte ad alcune sue conclusioni. C’e’ voluta la svolta italiana dell’ultimo anno per farmi venire in mente, troppo lentamente ma in compenso con evidenza razionale, che la “sinistra”, qualunque cosa questo significhi per la mia storia politica, non e’ data dalla fedelta’ al partito, ma alla classe, cioe’ agli sfruttati. E con questa consapevolezza, riesco finalmente a disarticolare l’impianto teorico del marxismo per come ci e’ stato consegnato negli anni sessanta, e tentare di leggerlo in modo analitico, cioe’ esaminandone con un minimo di senso critico le connessioni e le previsioni.
    Dunque, le leggi di Newton valgono anche in Cina, e non c’e’ su questo nessuna possibilita’ di invocare differenze culturali, ne’ universi filosofici paralleli. Lo sviluppo delle forze produttive e del progresso tecnologico non e’ da meno, nella sua banale, ferrea, e totalizzante logica. Nel conto della modernita’ queste cose si possono anche discutere, ma non eliminare.
    E’ sul piano sociale, dello scontro di classe, e delle forme politiche, che vi sono evidenti differenze. E non e’ discorso che si possa racchiudere nello spazio di un libro, figuriamoci in un commento. Pero’ non posso non vedere che vi e’ una fase storica in cui la democrazia si restringe, in particolare nel mondo industrialmente sviluppato, e si avvicina, e non allontana, al modello “cinese” della guida di una “superclasse”, che realizza un dominio praticamente totale della ricchezza e della forza. E questo sembra concretamente realizzarsi anche nell’Europa, ove la razionalita’ “democratica” del liberalismo e/o della socialdemocrazia sembra arretrare di fronte a decisioni mutilanti e all’esplodere di egoismi nazionalistici.
    Con questo non voglio dire che la “superclasse” abbia interessi omogenei a lunga scadenza e si possa organizzare in modo univoco a livello planetario, anzi e’ probabile che si vada a un conflitto devastante. Ma i segni di una sua idea della modernita’ ci sono tutti, ed e’ una modernita’ con una brutta faccia assassina. Forse occorre cogliere i suoi caratteri fondamentali, cioe’ soggiacenti in modo necessario, e non lasciarsi distrarre troppo dai particolari per quanto essi possano essere agghiaccianti come i roghi dei monaci o le torture nelle carceri caraibiche o mesopotamiche. Insomma non serve una lettura superficiale ma politicamente “corretta”, e’ ciarpame che crea solo intralcio e passa veloce come la persistenza di una trasmissione TV, qualche giorno. Occorre capire quali sono i meccanismi che consentono il dominio attraverso il consenso esplicito o rassegnato, e quali forse le crepe, le linee di frattura, i punti dove affondare il coltello, sperando che ce ne siano.

  • Sicuramente le differenze ci sono ma l’orizzonte di critica ai limiti (non solo materiali)della modernità è simile e alcuni degli intellettuali citati hanno avuto il merito di schiuderlo quando farlo significava finire in odore di eresia e pagarne con l’isolamento. Un saluto Aldo, spero di poterne parlare presto di persona, ma soprattutto d’altro.

  • L’unico che in Italia, da posizione sta costruendo un serio ragionamento critico verso l’ideologia globalista e il liberoscambismo è Emiliano Brancaccio.

    http://www.emilianobrancaccio.it/

    Consiglio soprattutto del suo ultimo libro, L’asuterità è di destra, il cap. “Contro il liberoscambismo di sinistra”.

    Saluti e complimenti
    Rob

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